di Tania Careddu

D'inquinamento ne produce meno di tutti ma è quella più danneggiata: la metà più povera della popolazione mondiale, tre miliardi e mezzo di persone, che vivono nei paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici, è responsabile solo del 10 per cento a livello globale del consumo che provoca le emissioni di carbonio. Attribuibili, per il 50 per cento invece, al 10 per cento che vive nell’emisfero ricco del pianeta.

Che, con i propri modelli di consumo (climalteranti), è responsabile del 64 per cento delle emissioni globali di gas serra, insieme al 36 per cento derivanti dai modelli di consumo e di investimento, tipo le infrastrutture, dei governi e dal trasporto internazionale.

Comunità rurali, gruppi marginalizzati per l’etnia e donne, i soggetti più esposti ai rischi legati al surriscaldamento globale. Perché tendono a essere più dipendenti da attività economiche influenzabili dalle condizioni climatiche, vedi l’agricoltura pluviale o la raccolta di acqua per uso domestico, e hanno pochissime possibilità di uscire dai periodi di crisi o di aumentare la produttività a causa di un minore accesso alla terra, alla formazione e al capitale.

Poco preparati anche ad affrontarli. Per esempio: se negli Stati Uniti, il 91 per cento degli agricoltori ha stipulato un’assicurazione a copertura delle perdite per eventi climatici estremi, in India lo ha fatto solo il 15 per cento degli agricoltori, in Cina il 10 per cento e in Malawi poco meno dell’1 per cento.

La stragrande maggioranza di quel ricco 10 per cento di cui sopra vive nei Paesi OCSE, le cui emissioni associate a modelli di consumo sono ancora nettamente superiori a quelle dei cittadini dei Paesi emergenti del G20. E sebbene la densità di popolazione di questi ultimi - Cina, India, Brasile e Sud Africa - contribuisca al totale delle emissioni globali, gli stili di consumo del 10 per cento dei loro abitanti ricchi è ancora notevolmente inferiore rispetto alla controparte dei Paesi per l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.

E sarà certamente vero che i più abbienti siano gli artefici dei mali del mondo, ma la colpa reale dell’inquinamento del pianeta è imputabile ai potenti: le multinazionali dei combustibili fossili (dietro a marchi famosi si cela un club di miliardari del carbone, come spiega Oxfam, che ha curato il rapporto Disuguaglianza climatica).

Lobby vere e proprie, che dichiarano di spendere per attività di lobbysmo sui governi, a livello europeo, circa quarantaquattro milioni di euro all’anno, cercando così di condizionare l’operato verso una regolamentazione che sia il meno stringente possibile. Lo scopo è ottenere sussidi e agevolazioni fiscali di gran lunga più consistenti e vantaggiose rispetto a quelle destinate al settore delle energie rinnovabili.

E così la lista Forbes, nel 2015, si arricchisce di ottantotto miliardari con interessi connessi ai combustibili fossili. Talmente potenti che nemmeno l’accordo di Parigi è riuscito a scongiurare l’impatto dei cambiamenti climatici sui paesi più poveri: oltre a non aver stanziato risorse finanziarie sufficienti per l’adattamento al cambiamento climatico, esclude la possibilità di individuare responsabilità dirette e non contempla nessun riferimento esplicito ai diritti umani. La guerra dei ricchi contro i poveri.

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