di Tania Careddu

L’intero sistema delle norme nazionali (e internazionali) è in grado di far fronte alla sfida di proteggere i diritti umani? Poco. Molto poco. Non si è dimostrato abbastanza solido di fronte ai duri colpi ricevuti e alle difficili sfide dell’ultimo anno. Gli strumenti multilaterali di protezione e i meccanismi specializzati di tutela non sono riusciti né a contenere le crisi umanitarie né a proteggere i civili contro le violazioni dei diritti umani.

E anche il sistema europeo è finito sotto attacco, sia a causa della perdita di sostegno da parte di alcuni Stati sia a causa dell’arretrato di ricorsi che chiedevano accertamento delle responsabilità per le atrocità commesse.

I numeri parlano chiaro: in diciannove Paesi sono stati compiuti crimini di guerra o altre violazioni delle ‘leggi di guerra’; centotredici Paesi hanno imposto arbitrariamente restrizioni alla libertà di espressione e di stampa; più di sessanta milioni di persone nel mondo sono state allontanate dalle loro case; più di trenta Paesi hanno illegalmente costretto i rifugiati a tornare in Paesi dove sarebbero stati in pericolo; centoventidue Paesi hanno torturato o maltrattato esseri umani; almeno ottantotto Paesi hanno condotto processi iniqui; almeno venti Paesi hanno adottato leggi che riconoscono il matrimonio o una qualche forma di unione tra persone dello stesso sesso.

In Italia, sul punto, siamo ancora tra trattative, stralci e mutilazioni. Di certo si sa che, a luglio, la Corte di Cassazione ha stabilito che le persone transgender dovevano essere in grado di ottenere il riconoscimento legale del genere, senza l’obbligo di sottoporsi ad alcun trattamento medico. Ma, a fine anno, il Parlamento non aveva ancora approvato le modifiche legislative per estendere anche ai reati omofobi e transfobici, l’applicazione delle sanzioni contro i crimini d’odio, già in vigore per quelli basati su altri motivi.

Per fortuna, laddove non è arrivato il legislatore ci ha pensato la Corte d’Appello di Roma, riconoscendo il diritto di una donna ad adottare formalmente la figlia nata dalla sua partner di sesso femminile, a seguito di inseminazione artificiale.

Del reato di tortura nel diritto interno, solo l’ombra. Approvato un disegno di legge alla Camera, non è stato adottato dal Senato. E nemmeno l’obbligo di dotare di distintivi identificativi, le uniformi degli agenti della forza pubblica, utile ad agevolare l’individuazione delle responsabilità in caso di abusi. A dicembre ancora non era entrato in funzione l’Ufficio del Garante nazionale dei diritti dei detenuti. Preoccupante se si pensa che è grave la mancanza di accertamento delle responsabilità per i decessi avvenuti in custodia, vedi il caso Cucchi e quello Magherini.

Per non parlare dei diritti dei rifugiati e dei migranti. A parte la legittimità del reato di “ingresso e soggiorno illegale” nel territorio italiano, per l’abolizione del quale il governo non ha adottato alcun decreto, qualche passo in avanti è stato fatto, invece, per l’antiterrorismo.

A febbraio 2015, infatti, sono state adottate nuove misure che aumentano le pene detentive per le persone arruolate da altri per commettere atti di terrorismo e prevedono pene contro coloro che organizzano, finanziano e propagandano viaggi finalizzati a compiere tali atti.

La legislazione, inoltre, ha concesso alle autorità giudiziarie il potere di confiscare temporaneamente il passaporto di un sospetto criminale; le nuove norme, infine, autorizzano il governo a stilare e ad aggiornare un elenco di siti web utilizzati per il reclutamento e a incaricare i fornitori di servizi internet di bloccarli.

Bene. Bravi. Ma, a oggi, ancora e nonostante le promesse del governo, l’Italia non è riuscita a creare un’istituzione nazionale per i diritti umani, in conformità con i Princìpi di Parigi. Parola di Amnesty International.

di Tania Careddu

“Perdo l’orientamento, perdo gli oggetti, perdo il sonno. Ma soprattutto, perdo i ricordi (…) Senza ricordi non c’è presente (…) E’ come se qualcosa fosse sparita dentro di me”, diceva Alice, nel film Sill Alice. Atteggiamenti disinibiti, irrispettosi delle regole sociali, episodi di aggressività verbale e fisica e di attività motoria continua, di urla, e confusione fra giorno e notte. Nonostante i dubbi e le incertezze nell’interpretazione dei sintomi prima di arrivare alla diagnosi, sono quelli dei malati di Alzheimer. Spesso ricondotti all’invecchiamento o alla depressione. O non degni di rilievo.

Sta di fatto che attività della vita quotidiana, come fare la doccia, vestirsi, occuparsi della toeletta personale sono operazioni che li rendono totalmente dipendenti dai loro caregiver. Che, stando allo studio del Censis ‘L’impatto economico e sociale della malattia di Alzheimer: rifare il punto dopo 16 anni’, ricorrono sempre meno a tutti i servizi per l’assistenza e la cura.

E vale per l’assistenza integrata e socio-assistenziale, per i centri diurni, per i ricoveri in ospedale o in strutture riabilitative. Si rivolgono, piuttosto, soprattutto al Nord, ad alcuni servizi innovativi, tipo gli Alzheimer caffè, i centri per la terapia occupazionale, i laboratori di stimolazione cognitiva, le palestre. Ma la soluzione più frequente rimane l’assistenza privata, utilizzando il denaro del malato, l’indennità di accompagnamento o i soldi dei figli, fondata sul sostegno degli assistenti famigliari.

In prima linea, anche se in misura più contenuta rispetto agli anni precedenti, la badante, che rappresenta una figura chiave nell’assistenza ai malati. Seguiti principalmente dai figli che giocano un ruolo centrale, rappresentando sia il soggetto responsabile dell’assistenza del malato sia la figura costantemente impegnata nel fornire, giorno dopo giorno, il sostegno emotivo al proprio caro. Dedicandogli, mediamente, quattro ore e mezzo al dì di assistenza diretta e circa dieci ore di sorveglianza.

Tempo che impatta, inevitabilmente, sulla vita lavorativa del caregiver: continue e ripetute assenze, richiesta di part time oppure, conseguenza estrema, perdita dell’occupazione.

Con ripercussioni, pure, sullo stato di salute: stanchezza, sonno insufficiente, depressione, malattie frequenti o assunzione di farmaci.

E anche sulla vita relazionale: dall’interruzione delle attività extralavorative all’impatto negativo sugli altri membri della famiglia e sulle amicizie. Ma tant’è: il rapporto tra il malato e il suo caregiver non è solo assistenziale. Va oltre, si traduce in una profondità che genera momenti di riflessione che conducono a stabilire un nuovo ordine delle priorità della vita.

Non è che i costi lo diventino ma rappresentano, comunque, un aspetto da prendere in seria considerazione soprattutto se si considera che quelli medi annui, comprensivi sia di quelli famigliari sia di quelli a carico del Sistema Sanitario Nazionale, per ogni paziente affetto da Alzheimer, sono pari a settantamila euro e rotti. E se ne prevede un progressivo incremento. Come quello della malattia.


di Tania Careddu

Si chiama Giubileo Straordinario della Misericordia. Ma di straordinario e di misericordioso ha ben poco. Almeno, per i rom. In seguito all’annuncio dell’evento, indetto da Papa Francesco il 13 marzo del 2015, è sensibilmente aumentato, infatti, il tasso di sgomberi forzati di comunità rom dai loro insediamenti. Passando da una media di tre sgomberi al mese prima della definizione delle date del Giubileo - dall’8 dicembre 2015 al 20 novembre 2016 - a una media mensile di quasi dieci, da marzo a settembre dell’anno scorso.

Cioè, sette sgomberi forzati, circa cento persone coinvolte, con una spesa stimata di centoventimila euro prima dell’annuncio del Giubileo versus sessantaquattro, circa novecentosettantacinque persone, per una spesa pari a un milione e duecentoventicinque mila euro dopo l’annuncio.

Secondo una prassi che si ripete: all’organizzazione di grandi eventi nella Capitale corrisponde un aumento significativo delle azioni di sgombero. Tanto da portare alcuni a parlare, in occasione del Giubileo del 2000, di ‘Giubileo nero degli zingari’. E pensare che in una città occupata da due milioni e ottocentosettantadue mila abitanti, i rom rappresentano lo 0,09 per cento. Eppure, da anni, per l’amministrazione capitolina costituiscono un’emergenza. La più grave.

Tradotta nel ‘Piano nomadi’ prima e nell’adozione di una Strategia Nazionale di Inclusione dei rom, dei sinti e dei camminanti poi, con un unico risultato: gli sgomberi forzati continuano a essere la sola risposta che le autorità della Capitale forniscono alle famiglie rom che abitano gli insediamenti formali. Muovendole secondo un approccio esclusivamente securitario.

Per gli altri. Perché per i diretti interessati, le operazioni di sgombero non sono mai accompagnate dalle appropriate garanzie procedurali come vorrebbero gli standard internazionali sui diritti umani. Senza nessun atto formale che preveda modalità di ricorso e, spesso, con la distruzione di beni di proprietà delle famiglie.

Di più: a fronte di una spesa considerevole, costituita da risorse pubbliche, l’approccio dell’amministrazione di Roma fallisce sistematicamente nel raggiungere l’obiettivo. Cioè, il rispristino del decoro e della sicurezza non risolve mai la criticità. Ma, si sa, il consenso dell’elettorato non si può deludere e le lamentele dei cittadini, potenziali elettori, sulla precarietà igienico-sanitaria degli insediamenti, vanno ascoltate.

E pazienza se nelle persone coinvolte si amplifica la vulnerabilità, rimanendo “senza niente, senza idee sul nostro destino”. Tanto, presumibilmente, non votano. Nel frattempo, però, il vuoto originato dall’assenza di una visione politica che propenda per un approccio di stampo sociale inclusivo e la mancanza di coordinamento tra gli attori-chiave, conduce, come è ovvio, a un’escalation di tensioni sociali ed è economicamente insostenibile. Oltre a ledere i diritti umani. Nella negazione di un alloggio adeguato.

Visto che, oltretutto, l’Italia è stata parte di vari trattati internazionali sul tema, tra cui il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, il Patto internazionale sui diritti civili e politici, la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, e la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale. Ma i grandi eventi, elezioni comprese, sono un’altra cosa. In presenza di questi, lo spettacolo deve continuare.

Pure se qualcuno, vedi l’Associazione 21 luglio che ha anche redatto il briefing sul punto ‘Peccato capitale’, chiede a gran voce al Comune di Roma, una moratoria sugli sgomberi forzati dei rom nel periodo del Giubileo della Misericordia. Un Anno Santo Straordinario per rendere “più evidente la missione della Chiesa di essere testimone della sua misericordia”. Per tutti?

di Tania Careddu

Vuoi per un saldo naturale, vuoi per un saldo migratorio con l’estero, vuoi per le operazioni di assestamento e revisione delle anagrafi, sta di fatto che la popolazione italiana si riduce. Nel 2015, perde centotrentanove mila unità. Diminuisce con maggiore intensità nel Mezzogiorno, in Liguria, Valle d’Aosta, Basilicata e Marche, con un’inversione di tendenza in Lombardia e Trentino Alto Adige. Un cambiamento rilevante nel contesto storico di un Paese che dal 1952 in avanti aveva sempre visto crescere la sua popolazione.

Medici, epidemiologi e demografi sono in allerta. Si, perché il 2015, oltretutto è stato anche l’anno dei decessi. Cinquantaquattro mila in più rispetto al 2014. Pochi nella provincia di Bolzano, molti in Valle d’Aosta. Più femmine che maschi, di ottantaquattro anni circa versus ottantanove per le donne. Fattori climatici ed epidemiologici alla base della mortalità, il picco del 2015 porta con sé, però, significativi effetti strutturali vista la particolare concentrazione dell’incremento di mortalità nelle classi d’età molto anziane.

In secondo luogo, è accertato che l’impennata rappresenti una risposta proporzionata e contraria alle diminuzioni di mortalità riscontrate negli anni precedenti. Anche se l’aumento della mortalità non ha rallentato il processo di invecchiamento della popolazione. Che prosegue inesorabile il suo cammino: la Liguria è la regione con l’età media più alta, seguita dal Friuli Venezia Giulia e dalla Toscana. La più giovane, la Campania.

E, nel 2015, diminuisce pure la speranza di vita, in particolar modo per le donne. E anche le nascite. Nuovo record di minimo storico dall’Unità d’Italia a oggi: ben quindicimila in meno rispetto all’anno passato. Non solo non viene più garantito il ricambio generazionale ma da nove anni a questa parte continua a peggiorare. In parte riconducibile alla trasformazione strutturale della popolazione femminile in età feconda, il tasso di natalità scende in tutta la Penisola uniformemente, con picchi in Liguria e in Sardegna.

E laddove il Belpaese è più fecondo (terzultimo nella classifica europea), si nota, in ogni caso, una riduzione del numero dei figli per donna, che in media sposta in avanti l’età per concepire il primo. Il protrarsi degli effetti sociali della crisi economica, con difficoltà lavorative e abitative connesse e un generale senso di precarietà annesso, rallentano la progettualità genitoriale. Al calo demografico, poi, hanno contribuito i centomila cittadini italiani che si sono trasferiti all’estero e sono stati depennati dall’anagrafe italiana. Un dato in aumento rispetto al 2014.

E se la contrazione delle nascite, cosi come riporta l’Istat, interessa soprattutto le coppie italiane, anche i nati da stranieri stanno diminuendo, dando l’idea di una tendenza, vera per tutti, che va consolidandosi, del cambiamento dei modelli culturali di famiglia. In barba ai movimenti profamiglia e ai rigurgiti cattolici.

di Tania Careddu

Non si conoscono le cifre esatte. Ma basti sapere che sono ottomila nella Repubblica Democratica del Congo, intorno ai sedici mila in Sud Sudan e circa dieci mila nella Repubblica Centrafricana. Il 40 per cento sono bambine. Minori sotto i diciotto anni, usati come soldati nei conflitti di tutto il mondo. Nello Yemen, in Somalia, in Nigeria e in Siria. Vengono utilizzati dalla forze armate in vari modi: combattenti, cuochi, facchini, messaggeri, spie, informatori, guardie ai posti di blocco o in altri luoghi strategici. Alcuni sono soldati a tutti gli effetti, altri sono adoperati come portatori di munizioni o vettovaglie.

Le armi automatiche e leggere hanno reso più facile l’arruolamento dei bambini e il perdurare dei conflitti sempre più urgente trovare nuove reclute per rimpiazzare le perdite. Già a dodici anni subiscono l’addestramento militare e la proliferazione di gruppi armati e l’avanzamento militare dell’ISIS, soprattutto in Iraq e in Siria, stanno portando i minori a essere sempre più vulnerabili al reclutamento.

Non chiedono paghe, sono più indottrinabili di un adulto e, certamente, più controllabili. Affrontano il pericolo con maggiore incoscienza, attraversando campi minati e intrufolandosi nei territori nemici. Puniti in modo severo per gli errori, la tentata ribellione può portare agli arresti quando non a esecuzione sommaria.

La maggioranza dei bambini soldato proviene da situazioni economiche o sociali svantaggiate e di lontananza dalle famiglie. Sono spesso orfani, figli di single o rifugiati non accompagnati. Oppure vivono nei campi profughi. Vittime di una grande incertezza, sono alla mercé dei gruppi armati. A volte, volontariamente. Per sopravvivere, per la fame o per la necessità di protezione.

Credendo alla promessa, magari, di “ricevere un’istruzione, di diventare potenti e rispettati”, racconta Wani, un ex bambino soldato, a Intersos. Oppure per rivendicare atrocità commesse contro i propri familiari. E anche di fronte alla possibilità di fuggire, ad alcuni, il “legame distorto” che si è creato con la milizia, rende immobili. Per la paura di perdere quel “senso di appartenenza” conquistato con l’arruolamento.

“Non possiamo aspettare la pace, per aiutare i bambini intrappolati nelle guerre. Dobbiamo investire in interventi concreti per tenerli lontani dalle linee di combattimento, soprattutto attraverso l'istruzione e il sostegno economico. Dobbiamo ricordarci che sono anche queste le situazioni da cui tanti bambini e adolescenti fuggono per cercare protezione in Europa”, afferma il Presidente dell’UNICEF Italia, Giacomo Guerrera. Che prosegue: “Fino a quando queste gravi violazioni continueranno, la comunità internazionale non avrà onorato la sua promessa di porre fine, una volta per tutte, al reclutamento e all'impiego di bambini nei conflitti armati”.

Complessivamente, l’UNICEF, nel 2015, ha assicurato il rilascio di oltre diecimila minori da eserciti regolari o da gruppi armati e ottomila di loro li ha inseriti in un progetto di reintegrazione. Che, nella Repubblica Centrafricana, è portato avanti da Intersos: accolti in un centro minorile, gli ex bambini soldato vengono reinseriti a scuola e nelle comunità, riunificati alle loro famiglie o affidati a famiglie generose. Per deporre le ultime, residue, armi della violenza dell’indifferenza.


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