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di Tania Careddu
Manovre economiche e tagli e sprechi a danno della qualità, della sicurezza e della tempestiva accessibilità alle prestazioni sanitarie. A niente è servita la messa in cantiere di provvedimenti, previsti dal Patto della salute 2014-2016, quali riforma del ticket, rilancio dell’assistenza territoriale, sanità digitale, nuovi standard ospedalieri e piano criticità. Anzi. Pare aver sortito l’effetto opposto, secondo quanto si legge nel documento "I due volti della Sanità, tra sprechi e buone pratiche, la road map per la sostenibilità vista dai cittadini", redatto da Cittadinanzattiva: il Fondo sanitario nazionale è stato ridotto di circa due miliardi e trecento milioni di euro, fissando, per il 2016, il finanziamento a centoundici milioni.
Senza fare i conti in tasca alle Regioni, nelle quali la spesa sanitaria è molto diversificata e le voci (di spesa) nei bilanci appaiono poco chiare e trasparenti, sta di fatto che l’impatto della riduzione della spesa ha inciso (negativamente) sulla pratica clinica e sui servizi. Allungamento delle liste d’attesa, aumento dei rischi per la sicurezza, incremento della mobilità sanitaria, riduzione degli orari delle attività e degli ambulatori, aumento dei costi dei ticket per la diagnostica, la specialistica e l’accesso ai farmaci. Esito: o si sopperisce alla carenza con la sanità privata, o ci si indebita con mutui e prestiti o, addirittura, si rinuncia alle cure.
Una penalizzazione derivante, oltreché da manovre di risparmio, pure da fenomeni di corruzione agevolati dal peso del finanziamento pubblico del settore, in cui vengono gestite ingenti quantità di denaro. Con il rischio di esporre le amministrazioni a tentativi di condizionamento. Spese inutili, contratti conclusi senza gara, gare svolte in modo poco cristallino, assunzioni e inquadramenti illegittimi, falsità e irregolarità nelle prescrizioni, inadempimenti nell’esecuzione dei lavori e nella fornitura di beni.
A prescindere dalla sua immoralità, lo spreco lede i cittadini. Così: violando il diritto al rispetto degli standard di qualità, quello al rispetto del tempo altrui, quello della sicurezza delle cure, ostacolando quello all’accesso ai servizi sanitari e quello a evitare sofferenze non contemplate. Di più: talvolta, annulla il diritto al reclamo, all’informazione e alla libera scelta, oltreché quello al risarcimento e quello alla privacy.
In sintesi, per i (potenziali) pazienti del Sistema Sanitario italiano, lo “spreco in sanità significa utilizzare risorse per fornire un servizio tale per cui un cittadino o non riesce a usufruire o, pur usufruendone, prova la sensazione di aver solo perduto tempo e/o denaro”. Ergo, è spreco: non investire in prevenzione e nella medicina del territorio, effettuare tagli lineari senza un’adeguata programmazione strategica, non capitalizzare le risorse del Sistema Sanitario Nazionale, la burocrazia inutile, le liste d’attesa e la mobilità.
Piani di rientro, corruzione e sprechi che contribuiscono all’ampliamento delle vecchie disparità e alla creazione di nuove disuguaglianze.
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di Tania Careddu
Dei sessanta governi formati dopo il varo della Costituzione repubblicana, trentaquattro sono stati composti interamente da ministri (uomini). E sebbene quella Costituzione diede la possibilità alle donne di accedere a incarichi pubblici e di governo, ci sono voluti quasi trent’anni per avere almeno una donna all’esecutivo; si è dovuto attendere il 1993 per avere almeno un 10 per cento di deputate, il 2006 perché non si scendesse sotto questa soglia e l’insediamento del governo Renzi per festeggiare la parità di genere in parlamento.
E nonostante sia durata il tempo di uno scatto fotografico - visto che la presenza femminile è conteggiata sui soli ministri all’atto dell’insediamento e i calcoli non includono il presidente del Consiglio - bisogna ammettere che è quella con il più folto numero di donne, che arrivano a essere un terzo del totale.
Fino, però, a dimezzarsi in seguito alle successive nomine di viceministri e sottosegretari e ad arrivare, dopo il rimpasto del 28 gennaio di quest’anno, al 25,4 per cento. Eppure, secondo quanto si legge nel minidossier Trova l’intrusa, redatto da Openpolis, la corrente legislatura vanta il record storico di donne in parlamento.
Ma l’aumento percentuale della popolazione femminile alle Camere non è, di per sé, garanzia di parità di accesso alle massime cariche pubbliche. Tant’è che, a parte la terza carica dello Stato, la cabina di regia dell’attività legislativa, ossia la presidenza delle Commissioni permanenti, in entrambe le Camere, è appannaggio degli uomini in dodici casi su quattordici; nessun gruppo politico alla Camera è presieduto da una donna e solo da tre su venti al Senato; quattro su ventotto le donne che sono a capo di una commissione parlamentare; i tesorieri dei gruppi parlamentari sono tutti uomini. Dato che conferma la tendenza a escludere le donne da incarichi economici.
Un approccio che trova riscontro, anche, a livello regionale: scarseggiano negli assessorati che gestiscono corposi fondi e le deleghe al bilancio sono quelle meno affidate alle donne. Quella alla sanità, per esempio, che gestisce la grande maggioranza del bilancio, è guidata da una donna solo in una Regione su quattro. Gli incarichi più adeguati (?): istruzione e formazione professionale, assistenza sociale e cultura.
La carica in cui si nota una maggiore parità è quella di assessore, con una presenza del 35 per cento di donne, versus quella di presidente, due donne su dieci. Sono in minoranza nei consigli regionali, presenti al 18 per cento, e più visibili nelle giunte, con il 35 per cento. Maglia nera al Molise con zero donne in giunta e alla Basilicata con nessuna donna in consiglio. Parità in Emilia Romagna, Toscana e Marche. La più virtuosa, la Campania con i tre quarti di assessore (donne). Sullo scranno di governatore, solo due donne, In Friuli Venezia Giulia e in Umbria, mentre presidenti e vicepresidenti di consiglio regionale sono donne, rispettivamente, nel 14 e nel 13 per cento dei casi.
Ma la vera misura dell’accessibilità delle donne nelle istituzioni è data dalla loro presenza nella politica locale. Che svela: la loro difficoltà nel ricoprire ruoli apicali nelle amministrazioni comunali; la loro minore presenza nelle istituzioni di maggior prestigio; la più alta probabilità che accedano a incarichi politici tramite nomina del presidente o del sindaco piuttosto che attraverso il voto di preferenza; la loro presenza si riduce man mano che l’istituzione aumenta di importanza.
Quindi: i primi cittadini delle grandi città sono tutti uomini; nessun centro urbano con più di trecentomila abitanti è amministrata da un sindaco di sesso femminile, su centotto comuni capoluogo, quelli capeggiati da donne sono solo quattro - Alessandria, Ancona, Vercelli e Verbania -. Poi certo, maggiore è il comune, più grande è la quantità di assessore.
Bisognerà aspettare il 2017, quando tutti i consigli comunali si saranno rinnovati, per vedere se, con l’applicazione, estesa a tutti i comuni, della legge 215/2012, che ha introdotto la doppia preferenza di genere, la quota di donne nelle amministrazioni locali salirà.
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di Tania Careddu
Sono oltre centrotrenta le piattaforme di estrazione offshore attive nei mari italiani. Ma si ha notizia dei piani di monitoraggio, realizzati dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), con la committenza di ENI, solo di trentaquattro impianti che estraggono gas nell’Adriatico. I dati, riferibili al triennio 2012-2014, sono preoccupanti: le piattaforme con problemi di contaminazione ambientale sono tante e presentano livelli sempre costantemente elevati, superiori ai limiti di legge. Cromo, nichel, piombo, mercurio, cadmio, arsenico e idrocarburi, in grado di risalire la catena alimentare, minacciano i sedimenti nei pressi delle piattaforme.
Le quali generano un forte impatto sugli organismi che vivono a stretto contatto con i sedimenti durante le fasi di installazione delle piattaforme, collocate a partire dagli anni sessanta, e di realizzazione dei pozzi; causano un aumento del traffico di imbarcazioni; e producono molto materiale di risulta, di differente natura.
E cioè, fanghi di perforazione, a base di oli minerali o sintetici, contenenti molteplici additivi e sostanze chimiche, usati per l’asportazione di detriti dal fondo del pozzo, per il raffreddamento e la lubrificazione ma, soprattutto, acque di produzione. Volumi ingenti presenti nei pozzi, a contatto con giacimenti di idrocarburi per migliaia di anni, ricche di sostanze inquinanti, le acque di produzione, dopo vari processi, vengono o immesse in mare o iniettate in unità geologiche profonde.
Dai piani di monitoraggio, volti a verificare “l’assenza di pericoli per le acque e gli ecosistemi acquatici derivanti dallo scarico diretto a mare delle acque risultanti dall’estrazione di idrocarburi”, emerge che: nonostante i significanti fenomeni di diluizione a cui vanno incontro le acque di produzione, nei campioni di acqua prelevati in prossimità di alcune piattaforme monitorate è stata riscontrata la presenza di taluni composti nocivi. Talvolta no, ma, spesso, superando gli Standard di Qualità Ambientale, ossia le concentrazioni individuate dalla legge per tutelare la salute umana e l’ambiente, di cui fanno parte gli organismi, nello specifico i mitili.
Dei questi, nel corso del triennio in esame, l’86 per cento ha superato il limite di mercurio identificato dagli SQA. Oltre che di cadmio, metallo altamente tossico che genera disfunzioni ai reni e all’apparato scheletrico nonché sostanza cancerogena; di bario, utilizzato durante le fasi di estrazione come costituente dei fluidi di perforazione; di mercurio e di zinco, derivanti dalla corrosione degli anodi sacrificali collocati in prossimità delle piattaforme al fine di proteggerle, appunto, dalla corrosione. Eccetera eccetera.
A prescindere dai grandi disastri che attirano l’attenzione dei media ma a fronte della dannosità delle piattaforme, almeno stando a quanto riporta lo studio Trivelle pericolose, redatto da Greenpeace sui dati del ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM), sarebbe opportuno fermare la proliferazione delle trivelle, caldeggiate dal governo italiano. E smettere di concedere alle attività estrattive, di sversare liberamente nel nostro mare.
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di Tania Careddu
Diverse quanto a matrice, fattori trasformativi e impatto, le minacce non risparmiano l’Italia: il terrorismo internazionale e la (non) cyber security. Incombente, camaleontico, liquido, organizzato e molecolare il primo è una minaccia emergente anche per il Belpaese. Minacce ubique e insieme geolocalizzate, coadiuvate dall’azzeramento della dimensione spaziale che offre l’ambiente digitale.
Accrescendo gli strumenti a disposizione degli attori mal intenzionati e allungando i tempi di percezione del pericolo, la rete rappresenta lo spazio senza confini per far viaggiare le minacce. Di gruppi mossi da precisi disegni ideologici, ispirati al più cieco fondamentalismo, che impongono, con violenza, le loro istanze politiche.
Oltre alle minacce direttamente promanate dalle organizzazioni terroristiche, fa tremare la pulviscolare formula basata sul jihad individuale, quella dei lupi solitari e delle microcellule o che operano in chiave emulativa. Per non parlare del fenomeno del foreign fighters che, anche in Italia, è risultato in costante crescita: reclutamento di elementi giovanissimi, con tempi di radicalizzazione molto stretti, e all’insaputa dei familiari. Senza dimenticare che il jihadismo dà prova, appunto, di un elevatissimo grado di affinità con i tratti materiali della modernità.
La minaccia cibernetica è la “nuova frontiera”: sebbene a oggi non si abbia evidenza di azioni terroristiche finalizzate a distruggere o a sabotare infrastrutture ITC di rilevanza strategica, non possono trascurarsi la campagna di ricerca on line effettuata da hacker mercenari per sostenere le operazioni delle organizzazioni terroristiche e la recente casistica di attacchi informatici ai danni di soggetti pubblici o privati.
L’Italia appare sempre più esposta perché target potenzialmente privilegiato sotto il profilo politico, simbolico e religioso (anche in relazione al Giubileo) e perché terreno di coltura di nuove generazioni di aspiranti mujahidin (che vivono nel mito del ritorno al Califfato). E pure per trovarsi in quella naturale sfida territoriale che è il Mediterraneo, uno dei teatri geostrategici più complicati e più delicati per la sicurezza del pianeta. Basti considerare che, il 2015, è stato caratterizzato da una forte escalation dei flussi - quasi un milione di migranti in fuga da guerre e povertà - non ultimi quelli provenienti dall’instabilità libica (circa il 90 per cento dei clandestini giunti via mare).
Per l’intelligence italiana, nella “Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza”, si può pensare a una - ancorché non sistematica - contaminazione tra immigrazione clandestina e terrorismo. E si è assistito alla proliferazione di gruppi criminali etnici specializzati sia nella falsificazione delle documentazioni che nel fornire assistenza ai migranti per il trasferimento nei Centri di accoglienza.
In questo quadro, particolare rilievo va prestato sia alla diffusione del radicalismo islamico nei Balcani sia ai ‘network somali’ per la gestione delle fasi dei flussi in uscita dal Corno d’Africa verso i Paesi europei, in termini di business, con il rischio ulteriore che possano fornire supporto logistico agli spostamenti di militanti jihadisti nell’area Schengen.
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di Antonio Rei
Più che per lo stakanovismo del direttore o per la pigrizia degli impiegati, il caso della reggia di Caserta dovrebbe destare scalpore per la superficialità con cui è stato trattato dall’informazione e per la retorica insulsa che ha generato. Dalla scorsa settimana, giornali e telegiornali non fanno che ripetere la notizia in questi termini: alcuni sindacati che rappresentano i lavoratori della reggia (Uil, Usb e Ugl), si sono lamentati del loro nuovo capo, Mauro Felicori, perché lavora troppo. Purtroppo, in pochissimi hanno perso tempo a cercare di capire cosa questa affermazione voglia dire.
In effetti, basta rifletterci pochi secondi per capire che non vuol dire niente. Per quanto paludati, anacronistici e mal gestiti possano essere certi sindacati, perché mai dovrebbero lamentarsi di un eccesso di lavoro da parte del direttore? Se si prende la lettera originale dei sindacati, si scopre che è datata 22 febbraio, dunque ben 11 giorni prima dello scoppio dello scandalo. Ma soprattutto, si scopre che nel testo non si accusa Felicori di “lavorare troppo”.
Il documento è lungo tre pagine e il passaggio incriminato è alla seconda, dove si leggono queste due righe e mezzo: «Il Direttore permane nella struttura fino a tarda ora, senza che nessuno abbia comunicato e predisposto il servizio per tale permanenza. Tale comportamento mette a rischio l’intera struttura». I sindacati, perciò, non chiedono a Felicori di essere un po’ meno zelante, ma parlano della necessità di predisporre un servizio oltre l’orario di apertura (7-18,30) che permetta al direttore di svolgere il suo lavoro.
“Nessuna accusa a Felicori di lavorare troppo - ha detto Angelo Donia, che è stato sospeso dalla Uilpa in quanto firmatario del comunicato - anzi, c’è la preoccupazione di tutelarlo predisponendo il servizio di vigilanza anche negli orari in cui si intrattiene. Si è scatenata una battaglia mediatica contro i sindacalisti della Uil: sembra un’azione premeditata, organizzata a tavolino”. Felicori ha risposto in un’intervista a La Repubblica, assicurando che “non c'è alcun pericolo per il monumento. Nessuno fa straordinari perché io resto fino a tardi. La Reggia è vigilata 24 ore su 24, sempre”.
Ora, la questione è discutibile e non è affatto detto che i sindacati abbiano ragione. Il punto, però, un altro. L’intera vicenda è stata gonfiata come una mongolfiera con un ritardo quantomeno sospetto. Quegli 11 giorni intercorsi fra il comunicato e lo scoppio del polverone, evidentemente, non sono stati impiegati per approfondire, visto che la quasi totalità della stampa ha semplificato la storia nel titolo a effetto su Felicori-Stakanov e sui sindacati lavativi che se ne lamentano.
A chi è tornata utile la polemica? Com’è ovvio a Matteo Renzi, che si è immediatamente tuffato a pesce nella discussione per alimentare la sua crociata contro i sindacati (che rientra in una sua battaglia più generale contro tutti i corpi intermedi, colpevoli di ostacolare l’esercizio diretto del potere da parte del governo).
L’immancabile post del Premier su Facebook inizia così: «"Questo direttore lavora troppo. Così non va". Questo il grido d'allarme lanciato contro il nuovo direttore della Reggia di Caserta, Mauro Felicori. L'accusa sembra ridicola, in effetti lo è. I sindacati che si lamentano di Felicori, scelto dal governo con un bando internazionale, dovrebbero rendersi conto che il vento è cambiato. E la pacchia è finita!».
Da notare non c’è solo il virgolettato inventato di sana pianta - e collocato con sapienza giornalistica nell’attacco - ma anche il fatto che, naturalmente, Renzi si guarda bene dal ricordare che i due maggiori sindacati confederali d’Italia, Cgil e Cisl, non hanno firmato quel comunicato. Non poteva mancare invece la solita autoesaltazione infarcita di retorica da quattro soldi, quella del vento che cambia, della pagina che gira, dei gufi che rosicano.
E soprattutto è rimarchevole la considerazione che “la pacchia è finita”, perché la dice lunga sulla totale mancanza di rispetto che il Premier ha per il concetto stesso di rappresentanza. La considera inutile, fastidiosa, irritante. In molti casi, purtroppo, i rappresentanti dei lavoratori italiani fanno davvero poco per smentirlo. Eppure, come insegna la Costituzione che questo governo sta massacrando, fra i moltissimi peccati dei sindacati non c’è quello di esistere.