di Sara Michelucci

Il gioco pubblico e il suo rapporto tra legge nazionale e regolamentazione locale è un tema che negli ultimi anni è cresciuto d'importanza, anche alla luce della miriade di normative regionali, provinciali e comunali che sono spuntate come funghi, cercando di risolvere alcune questioni che, a detta degli amministratori territoriali, restavano poco chiare. Ma allo stesso tempo creando una contrapposizione tra stato e territori su un tema sicuramente delicato come quello del gioco con vincita.

Per questo desta particolare interesse il libro di Geronimo Cardia, La questione territoriale. Il proibizionismo inflitto al gioco legale dalla normativa locale. Si tratta di una raccolta di interventi e scritti a partire dal 2011, che offrono un quadro chiaro ed esaustivo delle varie normative regionali e comunali sul gioco e del loro rapporto con la regolamentazione statale. La contrapposizione tra la normativa territoriale e quella nazionale sul gioco pubblico italiano, e il suo possibile superamento, è il filo rosso che tiene insieme la raccolta di articoli che ha dato vita al libro. Il volume è stato realizzato dalla casa editrice Gn Media con il supporto di Novomatic Italia.

Come può lo Stato intervenire per favorire una corretta gestione del gioco pubblico? È possibile trovare un punto di equilibrio nell’offerta di gioco che evidenzi gli aspetti “ludici” e non quelli “ludopatici? Ci sono le condizioni per un accordo tra lo Stato ed Enti locali su una materia così delicata e controversa? “A queste domande è dedicato il bel libro di Cardia. La pretesa non è quella di dare un “verdetto”, come opportunamente ricorda Alessio Crisantemi nel preambolo al libro - afferma il sottosegretario all'Economia, Pier Paolo Baretta - eppure, attraverso la lettura della realtà legislativa che il libro ripercorre, si intravedono le strade da imboccare. Una prima risposta ci viene dalla conferma della riserva statale in materia di giochi che, prima ancora che nella raccolta di risorse finanziarie, si sostanzia nella esigenza di tutelare l’ordine e la sicurezza pubblica e, contemporaneamente, di contrastare le varie forme di illegalità di un fenomeno, quale il gioco e le scommesse, che è insito nella società”.

“Il panorama che abbiamo davanti non è dei più allettanti: i cambiamenti conseguenti alla evoluzione tecnologica e alle condizioni internazionali di mercato, non sono sempre stati adeguatamente accompagnati da un corrispondente quadro regolatorio che, nel giusto tentativo di porre freno al diffondersi indiscriminato del gioco illegale, governasse nel contempo, la crescita del disagio sociale”, ha proseguito. Il libro di Cardia ci dà una panoramica esaustiva del fenomeno”, ha aggiunto il sottosegretario.

Un testo che trae spunto proprio dall'esigenza di arrivare a una normativa chiara e univoca sul gioco, come spiega l'autore del libro: “È dal 2011 che gli operatori del gioco legale cercano di mettere in luce in tutte le sedi (giudiziali, culturali, giornalistiche) quanto la normativa prodotta dalle realtà territoriali (Regioni, Province, Comuni e questi ultimi con o senza copertura normativa provinciale o regionale) in merito alla distribuzione e alle modalità di distribuzione del gioco legale presenti caratteri di inadeguatezza, inapplicabilità oltre che di illegittimità, con tutte le conseguenze sul piano degli effetti".

di Tania Careddu

Costretti a vivere in una società del “rischio e liquida” (citando il sociologo Bauman), che li ha privati di qualsiasi stabilità, i giovani sono pieni di preoccupazioni. L'assenza di certezze, lavorative ed economiche in primis, di modelli, di riferimenti ideologici e culturali, diffonde un senso di precarietà trasversale. Preoccupati per la propria non autosufficienza, per la non disponibilità di un'abitazione, per la salute e per i futuro di (eventuali) figli.

Li rendono incerti, secondo quanto si legge nell'indagine “Sei sicuro?”, svolta da Adoc e realizzata da Eures, le prospettive economiche e lavorative: otto giovani su dieci lamentano la diminuzione del benessere e dichiarano di essere molto preoccupati per la propria situazione pensionistica, l'84,5 per cento teme la disoccupazione e l'84,9 per cento la precarietà occupazionale.

Meno allarmati i dipendenti statali, di più quelli privati e i lavoratori autonomi; più i giovani sotto i ventiquattro anni che i trentenni, maggiormente in ansia per il futuro dei figli (sempre eventuali). Accusano la mancanza di progettualità: impossibile, d'altronde, farci i conti se l'entrata media mensile è pari a settecentottantasette euro e il 37,5 per cento dispone di meno di cinquecento euro al mese.

E, nonostante tutto, risparmiano: sette giovani su dieci mettono da parte, mensilmente, una quota, pari al 17,3 per cento in media, dei loro introiti. Lo fanno per poter disporre di un fondo di sicurezza per far fronte a impreviste situazioni di difficoltà, per soddisfare i propri desideri di consumo, per raggiungere l'autonomia dalla famiglia di origine e per non sprecare denaro in acquisti inutili.

Sono consapevoli, complici le dichiarazioni del presidente dell'INPS, Tito Boeri, in merito alla difficoltà per i giovani senza un lavoro stabile di versare i contributi in maniera continuativa, che la loro pensione sarà minima e che il sistema previdenziale sarà in grado di garantire “poco” un adeguato livello di benessere ai futuri pensionati.

E sebbene le condizioni siano evidentemente penalizzanti, i giovani, secondo quanto riporta lo studio “Rapporto Giovani 2016”, realizzato dall'Istituto Toniolo di Milano, cercano di cogliere opportunità che dimostrino che un futuro diverso è possibile. Basta munirsi di disponibilità ad adattarsi, acquisire solide competenze al di là del titolo di studio, fare attenzione al reddito e alla sua continuità prima ancora che alla realizzazione personale. Discutibile ma tant'è: il 91 per cento di loro considera il lavoro come uno strumento volto a procurare reddito, cruciale per affrontare il futuro e costruirsi una vita familiare.

E così, la precarietà da economica diventa esistenziale, immanente. Non resta loro che attrezzarsi della capacità di resilienza e di adattamento. Una strategia difensiva che, da un lato, li costringe a rinviare scelte di piena realizzazione, e dall'altra a recuperare volontà di non subire solo i cambiamenti ma coglierne anche le opportunità.

di Tania Careddu

Protagoniste del welfare nazionale, garantiscono il benessere di tutti, pagando un costo personale e professionale altissimo. Le mamme italiane, circa dieci milioni, sebbene ormai i padri siano sempre più orientati alla condivisione del lavoro di cura dei figli, vivono stette in un’ingiusta asimmetria. Un’iniqua distribuzione dei compiti che ha, anche, conseguenze sul tasso di occupazione femminile e sullo svolgimento della vita professionale, specialmente per le lavoratrici autonome.

Per le altre, orari di lavoro troppo lunghi o rigidi e lavoro pomeridiano o serale, le obbligano, nella peggiore delle ipotesi, a rinunciare all’impiego e, in quella migliore, a ricorrere al part time o a contratti che permettano una maggiore flessibilità.

Scelte penalizzanti, per il 30 per cento delle madri e per le generazioni nate dopo il 1964, sul futuro professionale e previdenziale, alle quali tentano di ovviare facendo ricorso alla rete famigliare, soprattutto in risposta alla domanda insoddisfatta di posti negli asili nido, virtuosa l’Emilia Romagna, pollice verso per la Calabria, e per la retta toppo alta. E però, la soluzione è ‘a breve termine’ visto il progressivo invecchiamento della popolazione e considerata la crescente semplificazione delle strutture familiari.

E, sebbene le aziende, complice la diffusione di una cultura delle responsabilità sociale, sopperiscono alle carenze del welfare pubblico, con strumenti per tutelare il benessere delle lavoratrici mamme, vedi la flessibilizzazione dell’orario, i servizi di asili nido, quelli sociali e di sostegno, a risentire della condizione economica e sociale delle madri, anche le potenzialità di crescita dei figli.

Per beneficiarne, le mamme devono poter contare su uno stato di benessere, consistente, secondo quanto si legge nel rapporto 2016 Equilibriste, redatto da Save the children, in una sistemazione abitativa di qualità, cioè non in una situazione di sovraffollamento che, qualche anno fa, interessava il 57 per cento di loro, avere una casa di proprietà libera da mutuo e non avere difficoltà economiche.

Le quali aumentano all’aumentare del numero dei figli e si riescono a tamponare man mano che cresce il livello di istruzione (sebbene, pure, una mamma con un livello medio alto su cinque subisce l’impatto delle spese per l’affitto della casa e di quelle per i figli). Si riduce la capacità di risparmio: tre mamme su quattro spendono più della metà del proprio reddito e più di quattro su dieci hanno problemi ad affrontare spese impreviste oltre gli ottocento euro.

Ma, nonostante tutto, soddisfatte: per il loro benessere, i rapporti familiari e con gli amici sono un insostituibile sostegno. E, tutto compreso, stanno meglio le mamme del Trentino Alto Adige, quelle della Valle d’Aosta, dell’Emilia Romagna, della Lombardia, della Toscana, del Piemonte, del Friuli Venezia Giulia e della Liguria.

Più critica la situazione di quelle che vivono in Basilicata, in Sicilia, in Campania e in Calabria. Per tutte, è evidente la persistente complessità dell’essere madri in Italia e, contemplato l’inequivocabile svantaggio economico, sociale e professionale con cui devono fare i conti, è innegabile, seppure inespresso, il potenziale di crescita di cui sono portatrici. Resilienza, empatia e capacità d’ascolto, dimensioni che la maternità (sana) svela, potrebbero apportare, se ben utilizzate, effetti positivi sul mondo a tutto tondo. E a vantaggio di tutti.

di Tania Careddu

Nonostante le risorse economiche stanziate, la politica di scolarizzazione dei minori rom stenta a decollare. Ovvio, perché, nell’impostare la prassi, non si può non tener conto dell’interdipendenza fra tutti i diritti fondamentali, compreso quello a un alloggio adeguato. Perciò, va da sé che, nel caso dei minori rom, l’istruzione sarà negata fino a quando non sarà garantito tale diritto e, sebbene, in Italia, ormai (solo) dal 1985, quando vennero abolite le classi Lacio Drom, non esistano scuole o classi differenziali, la loro scolarizzazione si sviluppa lungo il binario della segregazione, partendo, appunto, da quella abitativa.

Una condizione, effetto di un approccio su base etnica, che giustifica l’eccezionalità della presenza dei rom in classe, la discontinuità della loro frequenza e fa sì che l’obbligo scolastico non sia più un diritto e un dovere ma una scelta discrezionale. Di più: la dislocazione dei ‘campi’, che non può prescindere da un sistema di accompagnamento con l’utilizzo di pullmini preposti, determina la perdita di ore di lezione, contribuendo alla loro stigmatizzazione.

Secondo, perché la scuola è ambivalente: strumento indispensabile per offrire pari opportunità, nessuno escluso, da un lato, sembra, dall’altro, costituire un dispositivo che riflette e perpetua le disuguaglianze sociali. Partendo dalla solita, ancestrale considerazione che il capitale culturale dei genitori abbia un’influenza determinante sulla riuscita scolastica dei figli: provenienti da generazioni affatto scolarizzate e da una condizione presente di forte deprivazione materiale, il patrimonio di informazioni sulla scuola, ereditato dai minori in questione, sarà certamente indigente.

Risultato: i minori rom non frequentano le scuole per lo stesso periodo di tempo dei coetanei non rom, vivendo il fenomeno della dispersione scolastica in misura maggiore - si pensi che nella città di Roma, il tasso di evasione scolastica è, per loro, cento volte superiore a quella degli altri bambini - e accedono a contenuti formativi di qualità inferiore.

Dati interpretabili sia alla luce delle dinamiche interne alle comunità e alle famiglie sia in relazione al gap scolastico che i minori rom registrano man mano che avanzano da una classe a quella successiva: diviene, così, sempre più frustrante riuscire a partecipare alle lezioni, aumenta il senso di distanza dai compagni, cresce l’incapacità di recepire gli insegnamenti e si rafforza la demotivazione.

Non aiuta la dimensione linguistica, alla cui carenza il corpo docente risponde adottando un sistema didattico parallelo che sottace una richiesta di performance inferiore, per le credute minori capacità e le più basse ambizioni dei minori in questione, rispetto agli altri coetanei.

Indipendentemente dalla realtà oggettiva, anche per i compagni di classe, i rom diventano, secondo quanto si legge nel dossier "Ultimo banco" redatto dall’Associazione 21 luglio, “i contenitori da riempire con gli stereotipi riguardanti gli zingari, lo spazio umano su cui concentrare timori personali e trovare conferme dei luoghi comuni”.

Tramandati di padre in figli. D’altronde, la scolarizzazione è un processo lungo e profondo e i suoi successi non possono essere misurati solo con i tassi di frequenza regolare e con il numero di iscritti. Neppure fra i non rom.

di Tania Careddu

Non serviva che il governo ucraino desecretasse quarantanove documenti per capire che il più grande incidente nucleare della storia dell’uomo fosse stato tanto devastante. Se, a distanza di trent’anni esatti dall’esplosione della centrale di Chernobyl, gli effetti sono ancora evidenti. Anzi, conoscere le cause della deflagrazione che, stando ai suddetti documenti risalenti al periodo 1971-1981, sono riconducibili a errori di costruzione e a ventinove interruzioni dell’attività della centrale, di cui otto provocate da sbagli del personale e da violazioni delle norme di sicurezza, scatena la rabbia dell’impotenza.

Un dato appare certo: secondo quanto rivela il briefing di Greenpeace “L’eredità nucleare di Fukushima e Chernobyl”, a causa degli elevati livelli di contaminazione da plutonio nel raggio di dieci chilometri dalla centrale, l’area non potrà essere ripopolata per i prossimi diecimila anni. Più di centocinquantamila chilometri quadrati sono contaminati da radioisotopi a lunga vita e da radiazioni a basso livello nelle zone in cui vivono cinque milioni di persone e oltre diecimila chilometri quadrati sono inutilizzabili per le attività economiche, soprattutto agricole.

E si deve poi considerare che la contaminazione da cesio-137 è ancora presente in prodotti come funghi e frutti di bosco e supera i livelli ammissibili dalla legge nel latte e nella carne bovina.

Nonostante le difficoltà nel valutare stime affidabili, perché del milione e ottocentomila sopravvissuti al disastro è stato possibile verificare la dose di radiazioni assorbita solo in centotrentuno mila e quattrocentocinquanta di essi, e perché dal 2005 in poi nemmeno più l’impatto parziale, alcuni scienziati bielorussi hanno pubblicato le stime dei decessi per cancro in tutti i paesi inquinati da Chernobyl: Russia, Ucraina e Bielorussia. Il risultato è di centoquindici mila morti versus i novemila stimati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Ma sebbene risulti ormai quasi impossibile valutare complessivamente gli effetti a causa dei ridotti finanziamenti e della conseguente fine della raccolta e della pubblicazione dei dati, si può accertare l’aumento del tasso di mortalità tra i bambini figli di genitori irradiati, per malattie del sistema cardiovascolare e per tumore della tiroide. Ci sono poi i dati riguardanti i lavoratori impiegati nelle bonifiche (quarantaquattro mila), sui quali non è stata fatta alcuna rilevazione. Si para di incremento della leucemia e del cancro al seno, dei casi di cataratta e di invalidità e la diminuzione delle funzioni cognitive.

Aumentati anche i casi di suicidio, dovuti all’enorme sconvolgimento emotivo e sociale imputabile alla catastrofe che ha costretto migliaia di persone a scappare dalla proprie case per non tornare mai più. E a separarsi dai famigliari per non ritrovarsi più. Scarsamente (o per nulla) ricompensati, vivono in alloggi temporanei (?) in condizioni fatiscenti.

Una devastazione che non è mai stata riconosciuta con onestà dall’industria nucleare, dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) e dalle autorità governative. Quelle stesse che hanno desecretato i documenti top secret?


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