di Tania Careddu

Nonostante le risorse economiche stanziate, la politica di scolarizzazione dei minori rom stenta a decollare. Ovvio, perché, nell’impostare la prassi, non si può non tener conto dell’interdipendenza fra tutti i diritti fondamentali, compreso quello a un alloggio adeguato. Perciò, va da sé che, nel caso dei minori rom, l’istruzione sarà negata fino a quando non sarà garantito tale diritto e, sebbene, in Italia, ormai (solo) dal 1985, quando vennero abolite le classi Lacio Drom, non esistano scuole o classi differenziali, la loro scolarizzazione si sviluppa lungo il binario della segregazione, partendo, appunto, da quella abitativa.

Una condizione, effetto di un approccio su base etnica, che giustifica l’eccezionalità della presenza dei rom in classe, la discontinuità della loro frequenza e fa sì che l’obbligo scolastico non sia più un diritto e un dovere ma una scelta discrezionale. Di più: la dislocazione dei ‘campi’, che non può prescindere da un sistema di accompagnamento con l’utilizzo di pullmini preposti, determina la perdita di ore di lezione, contribuendo alla loro stigmatizzazione.

Secondo, perché la scuola è ambivalente: strumento indispensabile per offrire pari opportunità, nessuno escluso, da un lato, sembra, dall’altro, costituire un dispositivo che riflette e perpetua le disuguaglianze sociali. Partendo dalla solita, ancestrale considerazione che il capitale culturale dei genitori abbia un’influenza determinante sulla riuscita scolastica dei figli: provenienti da generazioni affatto scolarizzate e da una condizione presente di forte deprivazione materiale, il patrimonio di informazioni sulla scuola, ereditato dai minori in questione, sarà certamente indigente.

Risultato: i minori rom non frequentano le scuole per lo stesso periodo di tempo dei coetanei non rom, vivendo il fenomeno della dispersione scolastica in misura maggiore - si pensi che nella città di Roma, il tasso di evasione scolastica è, per loro, cento volte superiore a quella degli altri bambini - e accedono a contenuti formativi di qualità inferiore.

Dati interpretabili sia alla luce delle dinamiche interne alle comunità e alle famiglie sia in relazione al gap scolastico che i minori rom registrano man mano che avanzano da una classe a quella successiva: diviene, così, sempre più frustrante riuscire a partecipare alle lezioni, aumenta il senso di distanza dai compagni, cresce l’incapacità di recepire gli insegnamenti e si rafforza la demotivazione.

Non aiuta la dimensione linguistica, alla cui carenza il corpo docente risponde adottando un sistema didattico parallelo che sottace una richiesta di performance inferiore, per le credute minori capacità e le più basse ambizioni dei minori in questione, rispetto agli altri coetanei.

Indipendentemente dalla realtà oggettiva, anche per i compagni di classe, i rom diventano, secondo quanto si legge nel dossier "Ultimo banco" redatto dall’Associazione 21 luglio, “i contenitori da riempire con gli stereotipi riguardanti gli zingari, lo spazio umano su cui concentrare timori personali e trovare conferme dei luoghi comuni”.

Tramandati di padre in figli. D’altronde, la scolarizzazione è un processo lungo e profondo e i suoi successi non possono essere misurati solo con i tassi di frequenza regolare e con il numero di iscritti. Neppure fra i non rom.

di Tania Careddu

Non serviva che il governo ucraino desecretasse quarantanove documenti per capire che il più grande incidente nucleare della storia dell’uomo fosse stato tanto devastante. Se, a distanza di trent’anni esatti dall’esplosione della centrale di Chernobyl, gli effetti sono ancora evidenti. Anzi, conoscere le cause della deflagrazione che, stando ai suddetti documenti risalenti al periodo 1971-1981, sono riconducibili a errori di costruzione e a ventinove interruzioni dell’attività della centrale, di cui otto provocate da sbagli del personale e da violazioni delle norme di sicurezza, scatena la rabbia dell’impotenza.

Un dato appare certo: secondo quanto rivela il briefing di Greenpeace “L’eredità nucleare di Fukushima e Chernobyl”, a causa degli elevati livelli di contaminazione da plutonio nel raggio di dieci chilometri dalla centrale, l’area non potrà essere ripopolata per i prossimi diecimila anni. Più di centocinquantamila chilometri quadrati sono contaminati da radioisotopi a lunga vita e da radiazioni a basso livello nelle zone in cui vivono cinque milioni di persone e oltre diecimila chilometri quadrati sono inutilizzabili per le attività economiche, soprattutto agricole.

E si deve poi considerare che la contaminazione da cesio-137 è ancora presente in prodotti come funghi e frutti di bosco e supera i livelli ammissibili dalla legge nel latte e nella carne bovina.

Nonostante le difficoltà nel valutare stime affidabili, perché del milione e ottocentomila sopravvissuti al disastro è stato possibile verificare la dose di radiazioni assorbita solo in centotrentuno mila e quattrocentocinquanta di essi, e perché dal 2005 in poi nemmeno più l’impatto parziale, alcuni scienziati bielorussi hanno pubblicato le stime dei decessi per cancro in tutti i paesi inquinati da Chernobyl: Russia, Ucraina e Bielorussia. Il risultato è di centoquindici mila morti versus i novemila stimati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Ma sebbene risulti ormai quasi impossibile valutare complessivamente gli effetti a causa dei ridotti finanziamenti e della conseguente fine della raccolta e della pubblicazione dei dati, si può accertare l’aumento del tasso di mortalità tra i bambini figli di genitori irradiati, per malattie del sistema cardiovascolare e per tumore della tiroide. Ci sono poi i dati riguardanti i lavoratori impiegati nelle bonifiche (quarantaquattro mila), sui quali non è stata fatta alcuna rilevazione. Si para di incremento della leucemia e del cancro al seno, dei casi di cataratta e di invalidità e la diminuzione delle funzioni cognitive.

Aumentati anche i casi di suicidio, dovuti all’enorme sconvolgimento emotivo e sociale imputabile alla catastrofe che ha costretto migliaia di persone a scappare dalla proprie case per non tornare mai più. E a separarsi dai famigliari per non ritrovarsi più. Scarsamente (o per nulla) ricompensati, vivono in alloggi temporanei (?) in condizioni fatiscenti.

Una devastazione che non è mai stata riconosciuta con onestà dall’industria nucleare, dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) e dalle autorità governative. Quelle stesse che hanno desecretato i documenti top secret?

di Liliana Adamo

Neanche ventiquattro ore per sortire una doppia beffa: un mancato quorum attestatosi al 32% per un referendum nodale come quello sulle trivellazioni e conseguente versamento di greggio dall’oleodotto Iplom a Genova, che ha causato, ormai è certo, danni ambientali irreversibili.

Sul fallito quorum ci sono da stabilire delle priorità, che vanno chiarite subito, senz’alcun indugio: niente salverà il depauperamento delle fonti fossili, non si torna indietro, nessun percorso anacronistico è possibile.

Il governo Renzi dovrà onorare gli impegni sottoscritti nell’ambito della COP 21 a Parigi ed avviare una nuova stagione incentrata sulle fonti rinnovabili. E, se proprio vogliamo dirla tutta, come la mettiamo con le norme UE sulla libera concorrenza, regole cui contravveniamo, assegnando proroghe infinite sulle concessioni d’estrazione di petrolio e gas?

Né lo spettro del quorum (che di per sé è già una sciocchezza e un’incongruenza), né il blackout dei media o gli inviti all’astensione, ha impedito la partecipazione attiva di moltissimi cittadini, quelli che hanno preferito recarsi alle urne. Non solo: se l’obiettivo è senza successo, la logica delle cose si attesta comunque su un cambiamento energetico e dunque “culturale”, che mette al bando le fonti fossili, semplicemente perché (da tempo) c’è facoltà di scelta.

Una si chiama sviluppo sostenibile ed è conveniente, eco compatibile, democratica, serve a ricordare a governi, multinazionali e interessi di parte che adesso siamo in debito verso le generazioni future, tenuti a porre rimedio agli effetti del cambiamento climatico e tutelare quel poco di ambiente e biodiversità, patrimonio comune, che restano in piedi.

La propaganda palesemente contro, può andare a genio sulla defezione alle urne, alla disinformazione, a ritrattare l’oggettività di una questione enorme, ma il corso della storia è un altro e il governo Renzi è tenuto a prenderne atto. Questo, vuol dire cogliere tutte le opportunità per ridurre l’impiego di gas e petrolio, puntare su soluzioni realisticamente competitive, l’autoproduzione d’energie rinnovabili fuori dai regimi di monopolio, migliorare l’efficienza energetica del nostro paese.

Ciò che sta accadendo in mare, a Genova, sulle spiagge di Pegli e Multedo, sulla foce del torrente Polcevera e al Fegino, è un disastro ambientale, tenuto, ovviamente, sottotono; è il risultato di politiche miopi, allegoricamente, il prodotto di un quorum mancato.

A urne ancora aperte, nel deserto dei seggi (grazie a chi ha preferito la poltrona di casa invece di recarsi al voto), scoppiava un pezzo dell’oleodotto dell’Iplom, lungo il Polcevera. Il greggio si deposita sul letto del torrente, scivola inesorabilmente a mare.

Porta con sé la distruzione di un intero ecosistema, compromettendo irrimediabilmente una riserva di biodiversità; li abbiamo visti: cormorani, germani, aironi, oche selvatiche, imprigionati dall’olio nero, un’ingente moria di pesci. Il torrente schiuma, il greggio galleggia e penetra nei rii in secca per la siccità. Si cerca di minimizzare, ma poi si scopre che la quantità è ingente, 700 tonnellate, secondo l’Arpal.

D’ora in ora è ormai una fuoruscita senza controllo, arriva fino a Varazze, inquina 300 metri del lungomare sulla spiaggia di Pegli, ma i guai non arrivano mai da soli. Ieri ha ceduto la barriera di contenimento inquinante sul Polcevera, il petrolio viaggia a ritmi sostenuti, si teme possa giungere fino al santuario dei mammiferi marini del Mar Ligure, dove transita di tutto, balenotteri, capodogli, globicefali, grampi, stenelle, tursiopi.

La Procura ha posto sotto sequestro l’intero impianto, aperto un fascicolo contro “ignoti” per disastro ambientale; la compagnia risponde con la cassa integrazione e c’è la rabbia dei residenti: “Sono anni che ci avvelenano, siamo come in prigione…”. Ecco ciò che secondo il governo Renzi, porterà benessere e occupazione nel nostro paese.

Certo, arriveranno le polemiche e l’annoso passaggio di responsabilità di mano in mano. La Liguria, territorio fragile quanto flagellato da frane e alluvioni (per questioni meteorologiche, orografiche, certo, ma soprattutto per incuria e cementificazione, di chi mai ha tenuto in conto la particolare morfologia di questa splendida regione), riceve il colpo di grazia da un impianto di raffineria che soltanto oggi, con un disastro in corso, si scopre essere obsoleto, oggetto d’innumerevoli incidenti già dal 1979.

Altro pietoso velo è da stendere sul mirabolante Piano di Emergenza Esterno (PPE), che si scopre non aggiornato dal 2012 e quindi, per legge, ormai scaduto. Ulteriore “leggerezza” che spiegherebbe presumibilmente, il ritardo e l’inefficienza sugli interventi atti a bloccare la marea nera.

In base a questi fatti c’è qualcuno che ancora discuterà su referendum, quorum e trivelle? O sarà il caso, sul serio, di cominciare a darsi da fare?

di Tania Careddu

Si nutre del paradosso di chi, dando da mangiare al mondo, muore di fame. Iniquo e insostenibile, il sistema alimentare. Non solo perché ottocento milioni di esseri umani sono afflitti da fame cronica ma, soprattutto, perché il sistema si concentra nelle mani di un’esigua élite, portatrice di interessi governativi e imprenditoriali.

Costituitoda dieci multinazionali del cibo su scala globale - ABF, Coca Cola, Danone, General mills, Kellogg, Mars, Mondelez, Nestlè, PepsiCo, e Unilever - genera oltre un miliardo di dollari al giorno, coinvolgendo tutti i soggetti del sistema, dai piccoli produttori al consumatore medio. Una filiera produttiva, ampia e articolata, che interessa terra, acqua e cambiamento climatico, donne, agricoltori e lavoratori, fino alla trasparenza.

Premesso che, avendo assunto la consapevolezza di aver applicato politiche e modelli di business sbagliati, le dieci multinazionali hanno promesso a Oxfam, curatrice del Rapporto “In cammino verso un sistema alimentare sostenibile, stringenti impegni per renderlo davvero tale”, ancora nel, 2016, il cambiamento strutturale (l’unico necessario) tarda a trasformarsi in prassi.

Per cui, tentenna l’interesse verso il tema dei diritti fondiari e le politiche in proposito sono ancora poco credibili: di fatto, il fenomeno dell’accaparramento delle terre del sud del mondo, sfrattando da esse i produttori di piccola scala, rimane un problema da risolvere.

Oltre che cacciati dal land grabbing, di vitale importanza per l’approvvigionamento di derrate agricole, sono ricompensati, dai colossi in questione con meccanismi di fissazione dei prezzi del tutto svantaggiosi e con la negazione della possibilità di aggiudicarsi un’equa percentuale di valore nell’ambito della filiera.

Una dinamica che si ripercuote pure sui lavoratori della filiera, che sono senza voce né rappresentanza: lavoro forzato e spesso insicuro, negazione dei diritti umani e della libertà, semplici salari di sussistenza, ed eccessivo numero di ore lavorate. Lo scarso impegno per il giusto empowerment dei lavoratori agricoli fa il paio con quello rivolto allo stesso delle donne, componente cruciale ai fini della sicurezza alimentare e dello sviluppo economico. Fino al 2013 i giganti dell’industria alimentare sono stati carenti nell’affrontarne le specifiche problematiche all’interno delle proprie filiere.

Le quali, tra l’altro, producono la maggior parte delle emissioni totali di gas serra e necessitano di un consumo di acqua sproporzionato rispetto alla scarsità idrica che flagella il pianeta.

Tutto questo senza sapere se i capitani d’industria pagano le imposte dovute nei paesi in cui svolgono le loro attività o ricorrano, piuttosto, ai paradisi fiscali per sottrarsi agli obblighi contributivi.

Difficile, comunque, plaudire alla trasparenza (non solo in ambito fiscale) se nessuna delle multinazionali rende noti, in modo sistematico e facilmente consultabile, i propri fornitori e le relative materie prime.

Più chiaro, invece, il concetto che conciliare reddittività e interesse sociale sia l’ingrediente più difficile da digerire.

di Tania Careddu

Non sarà come i paesi dell’ex Jugoslavia che, dopo le guerre sono diventati l’arsenale di ogni genere di armi, ai quali tutti sono ricorsi per farne incetta ai fini di combattere l’Isis, ma, in ogni caso, l’Italia rimane una grossa produttrice nel panorama mondiale. Anche nel 2015. Anno in cui sono state esportate dal Belpaese, armi e munizioni, militari e comuni, per un ammontare complessivo di oltre uno virgola venticinque miliardi di euro. In decrescita del 3,5 per cento rispetto al 2014, ma la cifra è solo di poco inferiore al massimo storico, registrato nel 2012, degli ultimi venti anni.

Uso: principalmente militare ma anche per comuni cittadini. Destinazione: Unione europea e America settentrionale. In ripresa le esportazioni verso l’Asia, Pakistan in primis, l’Oceania, e i paesi dell’Africa subsahariana. In contrazione, invece, quelle verso i paesi del Medio Oriente, quelle verso i paesi europei extraUe, in considerazione del fatto che la Russia è sotto embargo da parte dell’Unione europea per il conflitto in Ucraina, e verso quelli dell’America Centro-meridionale.

A guardare nel mirino, nel 2015 un terzo delle armi e munizioni confezionate in Italia sono state spedite in zone in cui erano in corso conflitti armati o caratterizzate da forti tensioni interne o regionali. Centoventi i paesi serviti. Tra i quali, quelli a più alta tensione bellica: Arabia Saudita, uno dei maggiori regimi autoritari nella scala della democrazia, che ha ricevuto soprattutto bombe per aerei inviate dalla provincia di Cagliari e ampiamente impiegate, senza richiedere alcun mandato e senza ricevere alcuna legittimazione da parte delle Nazioni Unite, nel conflitto in Yemen; Algeria che ha quasi triplicato le forniture, principalmente per il munizionamento militare, tipo pistole semiautomatiche.

Armi recapitate, circa trentamila, anche in Egitto, insieme a tremila e seicentosessantuno fucili o carabine, nonostante la decisione del Consiglio dell’Unione europea di sospendere le licenze di esportare a questo paese “ogni tipo di materiale che possa essere utilizzato per la repressione interna”.

Come se non bastasse, le armi esportate sono destinate anche a un uso non militare. Per difesa personale, per le discipline sportive, per le attività venatorie che comprendono pure quelle utilizzate da parte dei corpi di polizia e per le forze di sicurezza pubbliche e private. Bene, l’Italia risulta essere il principale esportatore, con la provincia di Brescia in testa, soddisfacendo oltre un quarto dell’export nazionale, superando la Croazia e la Germania, ricoprendo il 15,9 per cento del commercio internazionale.

“L’analisi dei dati – commenta, nel "Rapporto OPAL – 2016", l’analista, curatore del dossier, Giorgio Beretta – non solo conferma le spedizioni avvenute, nel 2015 da Cagliari, di oltre diciannove milioni di euro di bombe per le forze armate dell’Arabia Saudita, utilizzate dai sauditi per i bombardamenti in Yemen, in un conflitto che ha causato quasi settemila morti di cui più della metà tra la popolazione civile, ma permette di rilevare le ampie forniture di armi e munizioni anche ad altri paesi in zone di tensione e a regimi repressivi.

Tra questi, soprattutto per munizioni militari, il Turkmenistan (ottantasette milioni di euro), gli Emirati Arabi Uniti (quarantuno milioni), l’Algeria (quarantuno milioni), e l’India (ventiquattro milioni)”.

“A fronte di questi dati - gli fa eco il presidente di OPAL, Pierluigi Biatta - riteniamo improrogabile che il governo Renzi chiarisca la politica sulle forniture all’estero di armi e che il Parlamento si impegni in un maggior controllo sulle esportazioni di sistemi militari e di armi comuni. Sono ormai diversi anni che il nostro Osservatorio, insieme alla Rete italiana per il Disarmo, lo chiede ai vari governi e alle rappresentanze politiche ma, a parte qualche sporadica iniziativa parlamentare, le risposte, soprattutto dal Governo, continuano a mancare”.



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