di Tania Careddu

Dopo venticinque anni dalla ratifica dell’Italia della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, sono ancora troppi i principi che non hanno trovato attuazione nel Belpaese. Stenta a decollare proprio uno di quelli basilari, sebbene alcuni importanti interventi legislativi come quello che ha disciplinato le procedure civili, l’ascolto e la partecipazione dei minori in tutte le decisioni che li riguardano, sono lungi dall’essere applicati.

Non va meglio in ambito sanitario. A parte la consistente arcinota disparità a sfavore delle regioni del Sud, dove la mortalità infantile è ancora troppo alta, l’accesso ai servizi e a presidi importanti, quali i consultori, è limitato e la prevenzione ancora insufficiente. Le maggiori criticità sono riscontrabili nelle coperture vaccinali (inadeguate) e nell’insufficienza (su tutto il territorio nazionale) di servizi per le disabilità, per i disturbi dello sviluppo e per i problemi mentali di bambini e adolescenti.

Continua a essere carente la sicurezza degli ambienti di vita dei minori: tolto l’intervento normativo che vieta il fumo in macchina in presenza degli stessi e di donne incinte, nulla è stato fatto per tutelarli dal traffico automobilistico urbano, peraltro significativamente aumentato, e dall’inquinamento atmosferico, fuori e dentro le mura domestiche.

Il (cosiddetto) Fondo 285, destinato in seguito alla ratifica della Convenzione nel 1997 a rispondere fattivamente ai principi enunciati, finanziando all’origine con una copertura triennale, specificamente, servizi sociali ed educativi, oggi, in conseguenza della riforma del sistema sociale, è rimasto in essere solo nelle città riservatarie e la quota a loro deputata si è ridotta notevolmente.

Eppure i fronti su cui intervenire, soprattutto in ambito adolescenziale, sarebbero ancora tanti. Partendo da un’idea di ‘generazione all’accesso’, a causa di vissuti di nuove solitudini all’interno dei nuclei famigliari, di un allentamento delle reti primarie di parentela, loro sperimentano nuove (e pericolose) forme di socialità virtuale con la conseguente abitudine alla sedentarietà. La meno grave, se si pensa che le altre (abitudini?) sono riferibili all’uso di sostanze psicoattive, a comportamenti sessuali discutibili, comprese le gravidanze in età puberale, e al cimento in giochi d’azzardo.

Di questo passo, i disturbi psichiatrici, vedi psicosi schizofrenica, disturbi del comportamento alimentare e autolesionismo (sempre più dilagante, nel tentativo di liberarsi da un’angoscia) che esordiscono in quest’età, con un impatto devastante che urge di una diagnosi e di un trattamento tempestivi, sono sempre più diffusi.

Ma lo stanziamento di risorse da parte delle regioni, per garantire alle ASL di diffondere e consolidare la necessaria rete di strutture territoriali, è in significativa diminuzione a fronte del continuo aumento della domanda. Tanto che un utente su due non riesce ad accedervi e due su tre non ricevono gli interventi terapeutici di cui avrebbero necessità.

Una raccomandazione del gruppo di lavoro CRC, riportate nel nono Rapporto di aggiornamento annuale sull’attuazione della Convenzione Onu: pianificare interventi coordinati di promozione della salute mentale dei minori, con specifica attenzione alla sensibilizzazione e alla formazione dei pediatri di famiglia e degli operatori scolastici. Una delle tante.

di Tania Careddu

Rappresentano l’8,2 per cento della popolazione che vive e risiede in Italia e, in barba alle derive (interne e internazionali) di rifiuto e chiusura, gli immigrati sono accolti secondo un modello di integrazione che funziona. Forse meno intenzionale rispetto a quello di altri Stati e meno rumoroso ma, alla prova dei fatti, certamente più capace di evitare fenomeni di involuzione patologica, verificatisi, di contro, altrove.

E, invece, cinque milioni di stranieri, appartenenti a centonovantasette comunità diverse, si sono silenziosamente integrati nei microcontesti della quotidianità. Partendo da situazioni di irregolarità e precarietà, arrivano a costituire una risorsa per le imprese che richiedono manodopera flessibile e a bassa qualificazione, divenendo le maglie principali delle reti di welfare famigliare.

Addirittura, giungono a omologarsi a comportamenti socioeconomici tipicamente italiani, tipo la propensione alla microimpresa, nelle costruzioni come nel commercio e nella ristorazione. Nel primo trimestre del 2016, per esempio, i titolari di impresa risultano essere quattrocentoquarantamila, cresciuti del 49 per cento dal 2008 a oggi; diversamente, i colleghi italiani, contestualmente, diminuivano dell’11,2 per cento.

Per questo, in barba a chi grida terroristicamente al collasso causa i massicci afflussi, l’Italia, senza di loro, sarebbe un Paese più piccolo, con più anziani e meno giovani - esattamente due milioni e seicentomila minori e under-trentacinque - meno vitale, con meno welfare e ridotte prospettive di futuro. E, suonerà strano, anche con meno posti di lavoro per gli italiani. Come se non bastasse, gli immigrati lavorano e contribuiscono, quando non sono costretti a trattamenti in nero, a sostenere il nostro sistema previdenziale senza, almeno fino a questo momento, beneficiarne affatto.

Basta vedere i trattamenti previdenziali: i migranti che percepiscono una pensione in Italia sono centoquarantunomila e raggiungono a malapena l’1 per cento sul totale degli oltre sedici milioni di pensionati italiani e sono circa il 4 per cento di coloro che godono di altre prestazioni di sostegno del reddito, quali mobilità e indennità di disoccupazione.

Davanti all’eclissi dei minori e all’emorragia dei giovani, gli stranieri rappresentano un importante serbatoio di energie. Mostrano un’alta propensione a fare figli: dal 2008 a oggi, infatti, le nascite sono cresciute del quasi 4 per cento contro una riduzione del circa 20 per cento di quelle per i genitori italiani. Un’integrazione dal basso che prende il via dalla scuola: gli alunni stranieri, in tutti i gradi degli istituti italiani, sono in continua crescita, nel 2015 rappresentavano il 9 per cento del totale, aiutando ad alimentare il sistema scolastico perché garantiscono il mantenimento di classi e il conseguente impiego di insegnanti che, al netto degli studenti stranieri, sarebbero il 9,5 per cento in meno.

Buona vita ai figli dell’immigrazione, più transnazionali dei giovani italiani per aver vissuto in un orizzonte globale e multiculturale. Non gliene vogliano, gli ottusi connazionali.

di Tania Careddu

Ormai la cadenza è quasi giornaliera. Le parole citate sono diverse: desiderio, gelosia, invidia, delitto passionale. Minus del genere maschile. No, niente di tutto questo. La violenza degli uomini contro le donne ha radici molto profonde. Ed è malattia mentale. Parola della psichiatra e psicoterapeuta, Barbara Pelletti.

Dottoressa, sulle pagine delle più autorevoli testate nazionali circolano informazioni che vorrebbero gli uomini assassini delle donne per desiderio o per gelosia. Sono concetti fuorvianti?
Sono concetti pericolosi, che di fatto finiscono per giustificare e inevitabilmente produrre la violenza che dovrebbero interpretare. L’assurda idea che si possa uccidere per desiderio è un esempio clamoroso di come il linguaggio possa essere usato per confondere e, più profondamente, per diffondere l’ideologia secondo la quale il rapporto umano, in particolare il rapporto uomo donna, è per sua natura violento. Un pensiero, questo, che percorre la cultura, forse non solo quella occidentale: è il “male”, il peccato originale della religione giudaico-cristiana, ma anche l’idea filosofica che fonda il logos occidentale, per il quale al di là della ragione ci sia solo l’animalità, che dall’Illuminismo in poi diventa la “naturale” pazzia dell’essere umano che solo la ragione, appunto, può controllare. Perfino l’omicidio così diventa “passionale”, per difetto di controllo.

Cosa comporta una lettura di questo tipo?
Il pericolo è evidentemente quello di continuare a negare, per non dire a scotomizzare, la malattia mentale che è all’origine di questi delitti. Riconoscere la malattia significa poterla diagnosticare, innanzitutto, ma anche fermare, quando è possibile, prima che arrivi all’estremo. Ma significa, anche, dare una chiave di lettura alla gente, che è giustamente sgomenta e confusa di fronte alla cronaca, ormai quasi quotidiana, di questi brutali omicidi.

Eppure, non raramente, questi sono anticipati da evidenti segnali, il più delle volte, purtroppo, sottovalutati. Come mai?
Deve svilupparsi una sensibilità nuova, che porti in particolare le donne a riconoscere i segni di qualcosa che non è amore, ma malattia e violenza. Basti pensare a quello che fin qui si è potuto ricostruire del caso recentissimo di Sara, la ragazza bruciata dopo esser stata uccisa, in cui si arriva all’estremo nazista dell’annullamento, fino alla sparizione anche fisica, dell’altro. E’ l’espressione più grave della pulsione d’annullamento teorizzata da Massimo Fagioli. La lucida anaffettività qui arriva ai livelli della schizofrenia. Tutto questo era stato preceduto da un periodo di stalking che pare avesse preoccupato la ragazza, ma non abbastanza evidentemente. Va detto che ora abbiamo una legge, lo stalking è un reato, ma nessuno dice che è, prima ancora e soprattutto, malattia mentale.

Qualcuno, non ultimo l’autore del libro La scuola cattolica, finalista al Premio Strega 2016, sostiene che gli uomini sono violenti a causa dell’”invidia verso il femminile” e che per risolverla ricorrerebbero “a una brutale compensazione (…) Siccome è sempre la donna a dare inizio, l’uomo per ripicca si usurpa il diritto di porre fine, ponendosi così all’estremità opposta della vita. Il ragionamento è semplice: (…) se non posso dare la vita a qualcuno, non mi resta che levarla a qualcun altro”. Da medico, è una tesi che può essere sostenuta per spiegare la violenza degli uomini sulle donne?
Da psichiatra, non posso fare a meno di cogliere, al di là della perversione del “ragionamento semplice”, la proposizione della negazione dell’identità umana della donna: “il femminile” sarebbe la procreazione, che evidentemente è anche delle vacche, delle cagne e così via. E’ l’idea dell’inferiorità delle donne che impedisce agli uomini di riconoscere loro una libertà: di scegliere, di andarsene, di decidere della propria vita. Quest’idea, anch’essa di derivazione religiosa e filosofica, è evidentemente tanto radicata nella mente degli uomini e tanto intrinsecamente violenta da motivare, con una frequenza così tragica, l’uccisione della donna che decide di separarsi.

Mette paura la libertà?
Più profondamente, in alcuni casi, soprattutto in quelli di suicidio-omicidio, si può pensare che si muova il pensiero non cosciente della perdita irreparabile di una immagine vitale, di un mondo interno di affetti, sensazioni ed emozioni che noi tutti abbiamo vissuto nel primo anno di vita e che la donna fa riecheggiare. Questa perdita scatena nell’uomo malato, che non ha la capacità di sopportare un dolore, né la fantasia di ricreare dentro di sé un affetto, la pazzia omicida. Sono gli uomini a uccidere, in occasione della separazione, perché l’identità maschile storicamente si è costituita sulla fredda razionalità e sulla negazione dell’identità della donna.

Accade spesso che nella follia omicida contro le donne, a essere coinvolti sono anche i figli. Che succede? Qual è il nesso?
Il primo nesso è che se è vero che è il deterioramento, fino all’odio mortale o alla perdita degli affetti, che scatena la pazzia omicida, quando i bambini sono coinvolti è chiaro che è in causa l’anaffettività. Certamente tutti ricordano il caso dell’uomo che ha ucciso moglie e figli a coltellate per essere “libero” di vivere una storia con una donna della quale si era invaghito. Subito dopo è andato a vedere la partita in un bar, per poi tornare a casa e tentare di inscenare la strage per rapina.

Uccidere senza provare nemmeno un rimorso..
La donna e i figli, evidentemente, erano oggetti materiali di cui disfarsi tra un passatempo e l’altro. Appare diverso, per quanto se ne sappia ancora poco, il caso del medico di Taranto che ha ucciso moglie e figlioletto di 4 anni, per poi suicidarsi, ma è chiaro che, anche se non c’è la mostruosa fatuità del caso di Motta Visconti, non si può spiegare l’uccisione di un bambino se non si pensa l’anaffettività.

di Tania Careddu

Non è necessario risalire alla sua etimologia per capire che, da sempre, l’humus ideale per l’attecchimento della schiavitù è la vulnerabilità; ma, per capacitarsi dell’esistenza di quella moderna, bisogna fare i conti con la presenza (meglio, l’assenza) di una complessa interazione di fattori. Quando la protezione dei diritti civili e politici, la salute sociale e i diritti economici, la sicurezza personale e i modelli di migrazione lasciano a desiderare, quarantacinque milioni e ottocentomila persone, in centosessantasette paesi del mondo, si ritrovano in condizioni di schiavitù.

In India, Cina, Pakistan, Bangladesh e Uzbekistan soprattutto, dove il numero delle persone soggette a forme di schiavitù è il più alto in assoluto, e che forniscono la manodopera a basso costo per produrre beni di consumo destinati ai mercati giapponesi, nordamericani, australiani ed europei. E sono per lo più donne e bambini le vittime di lavoro forzato e di sfruttamento sessuale.

Di quell’Europa che, pur avendo la più bassa incidenza di schiavitù moderna rispetto al resto del pianeta, può contare comunque un milione e duecentoquarantatremila schiavi, il 2,7 per cento sul totale della popolazione. I dati Eurostat, riportati nella ricerca "The Global Slavery Index 2016" della Walk Free Foundation, indicano infatti che nel 65 per cento delle vittime di tratta si trova nell’Unione europea. Provengono dall’Europa dell’Est, dalla Romania, dalla Bulgaria, dalla Lituania, dalla Slovacchia, dalla Nigeria, dalla Cina e dal Brasile.

Complici il recente massiccio afflusso di rifugiati, le restrittive misure di sicurezza applicate dagli stati europei e la conseguente ricerca di vie di fuga (da guerre e conflitti interni), facilmente battute da reti criminali europee per “facilitare” il passaggio dei migranti, il profilo delle vittime della schiavitù è cambiato. Principalmente sono donne, circa l’80 per cento, e soprattutto rumene o provenienti dall’Africa subsahariana e destinate in Belgio, Francia, Spagna, Svezia, Paesi Bassi e Italia, sono state reclutate da conoscenti, amici o parenti, con la violenza, a scopo di sfruttamento sessuale.

Stessa sorte per i bambini, circa diecimila rifugiati, ora dispersi, di cui cinquemila in Italia e mille in Svezia, obbligati, anche, ai matrimoni forzati e all’accattonaggio - soprattutto i minori rom - e utilizzati, tutti, nei lavori forzati, in agricoltura e nelle fabbriche. Quelle tessili in particolare ma anche nella ristorazione, nella pesca, nella silvicoltura e nel lavoro domestico.

Oltre a lavorare per tredici ore al giorno per sei giorni alla settimana, la moderna schiavitù contempla anche il sequestro dei passaporti e la confisca dei telefoni cellulari. Succede in Polonia, in Kosovo, in Turchia, in Albania, nella Bosnia-Erzegovina e in Grecia, a causa dell’instabilità politica, della scarsa affidabilità del sistema giudiziario, per gli alti livelli di criminalità, di corruzione, di disoccupazione e di discriminazione. Insieme a Romania e Lituania, contribuiscono, con sentenze indulgenti e carente protezione delle vittime, allo sfruttamento dei soggetti vulnerabili. Mentre l’Europa di Bruxelles e Strasburgo guarda altrove.

di Tania Careddu

Che provengano dalla rete fognaria, che siano urbani dispersi o non trattati correttamente, abbandonati in acqua o in spiaggia, oppure residui industriali non smaltiti direttamente, che rimangano in superficie (il 15 per cento) o affondino negli abissi (il 70 per cento), i rifiuti marini hanno conseguenze irreparabili.

In quarantasette spiagge italiane monitorate dall’indagine Beach litter 2016, realizzata da Legambiente con il contributo di Novamont, sono stati raccolti trentatremila e cinquecento rifiuti. Settecentoquattordici ogni cento metri. Il 76 per cento di questi è di plastica, per un totale di circa venticinquemila pezzi: tappi, duemila e seicento; stoviglie usa e getta, suppergiù mille; contenitori di detersivi, reti da pesca e quelle per la raccolta dei mitili, più o meno novecento unità.

Duemila e seicentoquarantadue mozziconi di sigarette, una quantità pari a centotrentadue pacchetti, il 3 per cento in più rispetto al 2015, carta e metallo. Vetro, ceramica e calcinacci. Legno, rifiuti tessili e di gomma. Si contano quattromila cotton fioc, blister di medicinali, assorbenti e deodoranti per wc, rifiuti derivanti dalla mancata depurazione che arrivano sulle spiagge attraverso fiumi, canali e scarichi.

Piccoli, l’80 per cento di dimensioni inferiori ai venticinque centimetri, ma affatto innocui, i rifiuti generano un inquinamento irreversibile e incalcolabile. La plastica, per esempio, per effetto di onde, correnti, irradiazioni UV, si frammenta in milioni di microparticelle che, disperdendosi nell’ecosistema marino e costiero, vengono ingerite dalla fauna del mare, contaminando l’intera catena alimentare.

E così, a Fiumicino prevale la presenza di rifiuti derivanti dalla scarsa depurazione dei reflui urbani e, caso emblematico, di quelli trasportati dal Tevere; a Palermo, il 68 per cento è costituito dalla plastica ma una corposa percentuale è rappresentata da materiale da costruzione; a Trieste e a Taranto, i rifiuti sono riconducibili alla pesca.

Non sono solo un danno inestimabile per l’ecosistema ma hanno pure un impatto su tutti i settori economici. L’Unione europea stima in più di quattrocentoundici milioni di euro il costo per la pulizia di tutte le spiagge del continente e in oltre sessantuno milioni euro l’anno, l’effetto sul settore della pesca. Per non citare i danni meccanici alle imbarcazioni e alle attrezzature da pesca e quelli sul turismo provocati dal decremento del valore estetico e dell’uso pubblico dell’ambiente.

E siccome “l’ambiente marino costituisce un patrimonio prezioso che deve essere protetto, salvaguardato e, ove possibile, ripristinato, al fine ultimo di mantenere la biodiversità, preservare la diversità e la vitalità di mari e oceani che siano puliti, sani e produttivi”, non è possibile rimanere con le mani in mano.

Se, per esempio, nei comuni italiani si aumentasse il riciclaggio dei rifiuti e del packaging oltreché la riduzione, fino all’eliminazione, delle discariche, si ridurrebbero del 18,41 per cento i rifiuti marini e si ricaverebbero oltre ottantasette milioni di euro l’anno. Per non annegare, definitivamente, in un mare di guai.


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