di Tania Careddu

Non è necessario risalire alla sua etimologia per capire che, da sempre, l’humus ideale per l’attecchimento della schiavitù è la vulnerabilità; ma, per capacitarsi dell’esistenza di quella moderna, bisogna fare i conti con la presenza (meglio, l’assenza) di una complessa interazione di fattori. Quando la protezione dei diritti civili e politici, la salute sociale e i diritti economici, la sicurezza personale e i modelli di migrazione lasciano a desiderare, quarantacinque milioni e ottocentomila persone, in centosessantasette paesi del mondo, si ritrovano in condizioni di schiavitù.

In India, Cina, Pakistan, Bangladesh e Uzbekistan soprattutto, dove il numero delle persone soggette a forme di schiavitù è il più alto in assoluto, e che forniscono la manodopera a basso costo per produrre beni di consumo destinati ai mercati giapponesi, nordamericani, australiani ed europei. E sono per lo più donne e bambini le vittime di lavoro forzato e di sfruttamento sessuale.

Di quell’Europa che, pur avendo la più bassa incidenza di schiavitù moderna rispetto al resto del pianeta, può contare comunque un milione e duecentoquarantatremila schiavi, il 2,7 per cento sul totale della popolazione. I dati Eurostat, riportati nella ricerca "The Global Slavery Index 2016" della Walk Free Foundation, indicano infatti che nel 65 per cento delle vittime di tratta si trova nell’Unione europea. Provengono dall’Europa dell’Est, dalla Romania, dalla Bulgaria, dalla Lituania, dalla Slovacchia, dalla Nigeria, dalla Cina e dal Brasile.

Complici il recente massiccio afflusso di rifugiati, le restrittive misure di sicurezza applicate dagli stati europei e la conseguente ricerca di vie di fuga (da guerre e conflitti interni), facilmente battute da reti criminali europee per “facilitare” il passaggio dei migranti, il profilo delle vittime della schiavitù è cambiato. Principalmente sono donne, circa l’80 per cento, e soprattutto rumene o provenienti dall’Africa subsahariana e destinate in Belgio, Francia, Spagna, Svezia, Paesi Bassi e Italia, sono state reclutate da conoscenti, amici o parenti, con la violenza, a scopo di sfruttamento sessuale.

Stessa sorte per i bambini, circa diecimila rifugiati, ora dispersi, di cui cinquemila in Italia e mille in Svezia, obbligati, anche, ai matrimoni forzati e all’accattonaggio - soprattutto i minori rom - e utilizzati, tutti, nei lavori forzati, in agricoltura e nelle fabbriche. Quelle tessili in particolare ma anche nella ristorazione, nella pesca, nella silvicoltura e nel lavoro domestico.

Oltre a lavorare per tredici ore al giorno per sei giorni alla settimana, la moderna schiavitù contempla anche il sequestro dei passaporti e la confisca dei telefoni cellulari. Succede in Polonia, in Kosovo, in Turchia, in Albania, nella Bosnia-Erzegovina e in Grecia, a causa dell’instabilità politica, della scarsa affidabilità del sistema giudiziario, per gli alti livelli di criminalità, di corruzione, di disoccupazione e di discriminazione. Insieme a Romania e Lituania, contribuiscono, con sentenze indulgenti e carente protezione delle vittime, allo sfruttamento dei soggetti vulnerabili. Mentre l’Europa di Bruxelles e Strasburgo guarda altrove.

di Tania Careddu

Che provengano dalla rete fognaria, che siano urbani dispersi o non trattati correttamente, abbandonati in acqua o in spiaggia, oppure residui industriali non smaltiti direttamente, che rimangano in superficie (il 15 per cento) o affondino negli abissi (il 70 per cento), i rifiuti marini hanno conseguenze irreparabili.

In quarantasette spiagge italiane monitorate dall’indagine Beach litter 2016, realizzata da Legambiente con il contributo di Novamont, sono stati raccolti trentatremila e cinquecento rifiuti. Settecentoquattordici ogni cento metri. Il 76 per cento di questi è di plastica, per un totale di circa venticinquemila pezzi: tappi, duemila e seicento; stoviglie usa e getta, suppergiù mille; contenitori di detersivi, reti da pesca e quelle per la raccolta dei mitili, più o meno novecento unità.

Duemila e seicentoquarantadue mozziconi di sigarette, una quantità pari a centotrentadue pacchetti, il 3 per cento in più rispetto al 2015, carta e metallo. Vetro, ceramica e calcinacci. Legno, rifiuti tessili e di gomma. Si contano quattromila cotton fioc, blister di medicinali, assorbenti e deodoranti per wc, rifiuti derivanti dalla mancata depurazione che arrivano sulle spiagge attraverso fiumi, canali e scarichi.

Piccoli, l’80 per cento di dimensioni inferiori ai venticinque centimetri, ma affatto innocui, i rifiuti generano un inquinamento irreversibile e incalcolabile. La plastica, per esempio, per effetto di onde, correnti, irradiazioni UV, si frammenta in milioni di microparticelle che, disperdendosi nell’ecosistema marino e costiero, vengono ingerite dalla fauna del mare, contaminando l’intera catena alimentare.

E così, a Fiumicino prevale la presenza di rifiuti derivanti dalla scarsa depurazione dei reflui urbani e, caso emblematico, di quelli trasportati dal Tevere; a Palermo, il 68 per cento è costituito dalla plastica ma una corposa percentuale è rappresentata da materiale da costruzione; a Trieste e a Taranto, i rifiuti sono riconducibili alla pesca.

Non sono solo un danno inestimabile per l’ecosistema ma hanno pure un impatto su tutti i settori economici. L’Unione europea stima in più di quattrocentoundici milioni di euro il costo per la pulizia di tutte le spiagge del continente e in oltre sessantuno milioni euro l’anno, l’effetto sul settore della pesca. Per non citare i danni meccanici alle imbarcazioni e alle attrezzature da pesca e quelli sul turismo provocati dal decremento del valore estetico e dell’uso pubblico dell’ambiente.

E siccome “l’ambiente marino costituisce un patrimonio prezioso che deve essere protetto, salvaguardato e, ove possibile, ripristinato, al fine ultimo di mantenere la biodiversità, preservare la diversità e la vitalità di mari e oceani che siano puliti, sani e produttivi”, non è possibile rimanere con le mani in mano.

Se, per esempio, nei comuni italiani si aumentasse il riciclaggio dei rifiuti e del packaging oltreché la riduzione, fino all’eliminazione, delle discariche, si ridurrebbero del 18,41 per cento i rifiuti marini e si ricaverebbero oltre ottantasette milioni di euro l’anno. Per non annegare, definitivamente, in un mare di guai.

di Tania Careddu

In Italia ne sono stati attivati quattro con la finalità di identificare, registrare e rilevare le impronte digitali dei migranti sbarcati sulle coste, ma gli hotspot, centri previsti dall’Agenzia europea delle Migrazioni per la gestione delle frontiere esterne all’Unione europea, sono privi di una cornice giuridica. Questo perché nessun atto normativo, né italiano né europeo, disciplina quanto avviene al loro interno. L’unica normativa di riferimento resta la Legge Puglia del 1995, che regolamenta però solo le operazioni di primo soccorso e di accoglienza.

L’unico documento cui fare capo è, perciò, la Roadmap, una tabella di marcia con il compito di chiarire il flusso organizzativo, di carattere specificamente politico, senza valore normativo. Sempre più spesso, in Italia, a determinare l’effettivo status giuridico dei migranti non sono leggi ma circolari della Pubblica Amministrazione.

E, sebbene i dati presentati dai report periodici dell’Unione europea indichino un successo nel controllo degli stranieri in entrata, con un incremento dei valori percentuali dal 36 all’87 per cento in seguito all’applicazione dell’approccio hotspot, all’aumento delle identificazioni non ha corrisposto un’effettiva redistribuzione di persone verso altri paesi.

L’obiettivo dell’orientamento hotspot non può prescindere dalla distinzione (superflua e superficiale) tra richiedenti asilo e migranti irregolari: un’operazione che, effettuata ai valichi di frontiera attraverso sommarie interviste, è espletata dalla Polizia di Stato, alla quale, invece, la legge attribuisce solo il compito di ‘ricezione’ delle domande d’asilo. E non anche quella delicata di decidere, spettante alle Commissioni territoriali che possono vagliare la storia del singolo, lo status giuridico del migrante e la sua possibilità di accedere alla richiesta di protezione internazionale.

Ma al confine è tutto molto veloce, dura il tempo di una firma sul foglio-notizie che riporta i dati anagrafici degli stranieri nella fase di pre-registrazione ma che, spesso, è l’anticamera del decreto di respingimento, pur avendo loro fatto domanda d’asilo e senza aver capito nulla di quanto è accaduto e nemmeno essere entrati in contatto con nessuno che li abbia informati sui diritti di cui potevano godere in Italia.

Moltissimi respingimenti hanno coinvolto gruppi di persone, senza alcuna valutazione delle situazioni individuali e i decreti del caso, emessi dalle questure, sono stati scritti su moduli prestampati tutti identici, in palese violazione della legge anche per il fatto che sono basati su presunte dichiarazioni delle quali non esiste copia in mano al diretto interessato.

Tutto è condotto secondo una prassi spontanea, al netto di una regolamentazione legale: le interviste vengono effettuate oltre che in un momento poco opportuno per i migranti, appena arrivati, in condizioni di pesante stress fisico e psichico, anche in un setting non certo adeguato alla vulnerabilità in cui versano; mancano, nelle procedure hotspot, nonostante la Corte di Cassazione abbia ribadito il dovere della Pubblica Amministrazione di renderli edotti, uno spazio e un tempo specificamente dedicati all’attività di informativa legale. Da cui dipende, però, il loro futuro.

Al momento, secondo quanto si legge nel dossier Hotspot, il diritto negato, redatto da Oxfam, all’interno degli hotspot, il presente riserva trattamenti inumani di trattenimento e coercizione. Quelli irregolari non sono i migranti.

di Tania Careddu

Sono più di diecimila i bambini accolti, ogni anno in Italia, con scopi terapeutici. E, negli ultimi venti anni, oltre cinquecentoventimila. Dal disastro di Chernobyl (evento in cui il Belpaese ha cominciato ad aprire le porte ai minori stranieri per motivi di cura e di svago) ad oggi, i programmi solidaristici per ospitarli sono diventati sempre più numerosi e più strutturati. Prevedono soggiorni di ‘risanamento’, per un massimo di centoventi giorni l’anno, consistenti nell’assunzione di alimenti sani, soggiorni in luoghi salubri, cure mediche e controlli preventivi.

Oltre a ciò vi sono programmi di ‘socializzazione’ basati sull’accoglienza in un ambiente sereno, con una quotidianità di cura, basati sulla condivisione del principio di solidarietà. L’obiettivo é trasformare la paura di luoghi sconosciuti e lontani in una possibilità, per i bambini che provengono da aree a rischio, soprattutto dal punto di vista sanitario, di incontro e confronto.

Quelli ospitati nel 2015 provengono, principalmente, dalla Bielorussia e, a seguire ma con grande distacco numerico, dalla Bosnia Erzegovina, dalla Federazione Russa e dall’Algeria e hanno un’età che oscilla fra gli otto e i dodici anni. Coloro che arrivano dai paesi dell’ex Jugoslavia, provengono, in genere, da strutture di accoglienza; gli altri, da contesti famigliari.

Anche in Italia vengono accolti, quasi sempre, soprattutto nei centri urbani sotto di diecimila abitanti, da genitori o da famiglie senza figli, con un’età superiore ai cinquant’anni considerato che la scelta di ospitarli impatta sull’organizzazione della vita quotidiana e sulla gestione dell’economia domestica.

Secondo quanto si legge nel report "Minori stranieri. Il fenomeno dell’accoglienza temporanea in Italia nel 2015", realizzato dalla Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di integrazione del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, le regioni italiane più generose verso questo tipo di accoglienza sono quelle del Nord Ovest: in testa la Lombardia, poi Veneto, Emilia Romagna e Piemonte, nelle quali trova accoglienza oltre un terzo dei minori, seguite dalle Isole e dal Sud. Carente il Centro Italia, eccezion fatta per il Lazio.

Ma non tutto è così semplice. In più occasioni, i percorsi di risanamento sono stati demonizzati da più parti, sia perché letti come un sistema che provoca danni nei bambini abbandonati che nel loro paese vivono in orfanotrofio e, per poche settimane l’anno, conoscono, ancor prima dell’affetto di una famiglia, il consumismo sfrenato.

Perciò, seppur migliorati sotto il profilo fisico, tornerebbero malati sotto quello psicologico, inquinati nell’atteggiamento mentale e culturale. Viene poi messo l’accento anche su un altro aspetto: intorno al fenomeno dell’accoglienza temporanea si creerebbe un indotto che interessa numerosi attori.

Si muovono, infatti, quasi tutti gli alberghi della Bielorussia quando accolgono le famiglie italiane; si incrementa anche buona parte del fatturato della compagnia aerea Belaria e un gran numero di interpreti, traduttori e accompagnatori (anche improvvisati) ‘sfruttano’ il fenomeno, rendendo i bambini solo uno strumento. Utile anche, a volte a bypassare le lungaggini per l’adozione. Ma questo è un capitolo a parte.

di Tania Careddu

Aumenta l’età ed è più stabile la condizione professionale, per entrambi i partner delle coppie che si sottopongono alla procreazione medialmente assistita. Coppie che, dopo tre anni circa di tentativi per ottenere una gravidanza, scanditi da un tempo pari, in media, ai primi quindici mesi di dubbi e domande relativi alla difficoltà di concepire un figlio e dai successivi dieci mesi (minimo) prima di rivolgersi a un medico, in genere il ginecologo di fiducia, hanno un livello d’istruzione più alto e una condizione professionale più certa.

Per metà di loro, e sono sempre di meno rispetto a una ricerca precedente, effettuata nel 2008, la diagnosi di infertilità ha una causa specifica, e per le restanti, il motivo rimane inspiegato: il percorso diagnostico è articolato, soprattutto per le coppie del Sud e delle Isole, in cui l’individuazione della ragione dell’infertilità è sempre meno definita.

Eterogeno, invece, nell’intera penisola, il protrarsi dei tempi di attesa per accedere al trattamento: meno di tre mesi per le coppie che si sono rivolte a un centro privato, fino ai sei per quelle che hanno optato per uno convenzionato e oltre gli undici per quelle che hanno scelto una struttura pubblica.

La scelta, per la maggior parte dei pazienti intervistati nell’indagine “Diventare genitori oggi: il punto di vista delle coppie in PMA”, realizzata dal Censis, è stata condizionata dalla buona fama, e, in percentuali decisamente inferiori, perché è vicino casa o perché lo ha consigliato il medico curante. Ma c’è, pure, chi è stato orientato dai risultati delle ricerche su internet o perché economicamente più conveniente.

Che sia la FIVET omologa, quella a cui fa ricorso il 60,9 per cento delle coppie, o l’ICSI omologa per il 42,3 per cento del campione (ma non è trascurabile la percentuale di coloro che effettuano la crioconservazione dei gameti o il crio-transfer da scongelamento), il costo non è per tutti accessibile. Sebbene, soprattutto al Nord, le cure siano sostenute dal costo del ticket, il 35,4 per cento delle coppie ha pagato di tasca propria, principalmente al Centro, al Sud e nelle Isole, spendendo, occhio e croce, quattromila euro.

Ma tant’è. Loro, in linea di massima, sono soddisfatte. Meno dal punto di vista degli aspetti psicologici e relazionali sia per le difficoltà legate alla complessità del percorso, in cui è frequente l’assenza di un unico riferimento che possa guidare la coppia nel tempo, sia per l’incapacità dei centri, dove è riscontrabile una carenza informativa, di dare risposte alle problematiche di un vissuto così intimo.

E se il primo tentativo fallisce, fonte di frustrazione che impatta notevolmente nel vissuto della coppie, il 65,4 per cento di queste intende riprovarci e solo il 31 per cento contempla la possibilità della strada dell’adozione, che diventa, invece, sempre più concreta all’aumentare del grado di istruzione.

E la metà delle coppie ammette che il problema dell’infertilità sia un pensiero costante, motivo di disagio sia a causa della medicalizzazione di alcuni aspetti della vita intima, vedi la sessualità, sia per la sensazione di percepirsi diversi dagli altri e per la scarsa comprensione da parte dei familiari e degli amici più vicini. Quelli stessi che, però, scendono in piazza per difendere la possibilità di selezionare l’embrione.


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