di Tania Careddu

Sono i più ricchi del mondo, contribuiscono per metà all’economia globale ma ospitano meno del 9 per cento dei rifugiati e richiedenti asilo. Che, invece, trovano riparo, assistenza sanitaria, lavoro e istruzione nei Paesi più poveri del pianeta, minandone la già precaria stabilità interna. Giordania, Turchia, Territori Occupati Palestinesi, Pakistan, Libano e Sud Africa, che contano meno del 2 per cento sull’economia globale, si fanno carico di circa dodici milioni di migranti, circa la metà del totale.

Di contro, Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Cina e Giappone, tutte insieme, ne ospitano suppergiù un milione e quattrocento mila. Cavandosela piuttosto, nel 2015, con la donazione a favore dell’UNHCR di una somma  pari più o meno a due miliardi di dollari, ma continuando a esternalizzare il controllo delle frontiere.

Non solo un uso distorto degli aiuti, dunque, ma anche incoerente vista la fornitura di armi (che ha provocato un aumento del 10 per cento nella vendita globale), da parte di Stati Uniti e Regno Unito soprattutto, ai Paesi che guidano coalizioni belliche, vedi Arabia Saudita, responsabili delle crisi umanitarie e della fuga delle popolazioni. Di più: spesso, gli accordi politici fra le grandi potenze contravvengono allo spirito della Convenzione sui rifugiati del 1951. Tanto per citarne uno, a marzo quello fra Unione Europea e Turchia, che scambia rifugiati con concessioni politiche ed esternalizza alla Turchia il controllo dei propri confini, per l’Europa ha scatenato un effetto domino.

Perchè se l’Europa può respingere i siriani, il Kenya, per esempio, può fare lo stesso con i somali. Senza dimenticare la solerzia dei governi europei a collaborare con i regimi del Sudan e dell’Eritrea per fermare i flussi migratori, ricorrendo alle ‘leve necessarie’, secondo quanto emerso dal Consiglio dell’Unione Europea riunitosi lo scorso giugno, e riportato nel dossier “La misera accoglienza dei ricchi del mondo”, redatto da Oxfam. Rispetto ai palestinesi, poi, degli oltre cinque milioni di rifugiati, le sei potenze mondiali ne accolgono solo due milioni.

Una sproporzione che fa il paio con le opportunità di reinsediamento, cioè la pratica che consentirebbe ai rifugiati di ricostruirsi una vita: nel 2015, il totale di questi era di circa cinquantasette mila persone, vale a dire meno del 6 per cento di coloro che avrebbero avuto bisogno di ricorrere a questa procedura.

E però, ciò che fanno i governi non sempre trova corrispondenza nell’opinione della popolazione: stando a quanto riportato da una recente ricerca di Amnesty International, dalla Cina agli Stati Uniti, la maggior parte delle persone è favorevole all’accoglienza dei profughi che scappano da guerre e persecuzioni e chiede interventi più cospicui ai propri rappresentanti politici.

E nemmeno l’Italia eccelle: quest’anno ne ha accolto solo lo 0,6 per cento del totale, quasi centotrentacinque mila rispetto agli oltre settecentotrentacinque mila della Germania. E invece “sarebbe prioritario - afferma la presidente di Oxfam Italia, Maurizia Iachino - che i governi con economie più forti si impegnassero a portare cambiamenti sostanziali nei Paesi in via di sviluppo, dove la maggior parte dei profughi di tutto il mondo sta vivendo in una provvisorietà senza prospettive”. Che paese, l’America!, scriveva Frank McCourt. E gli altri?

di Tania Careddu

Troppo spesso connesse esclusivamente a fragili situazioni politiche e a conflitti endemici, le comunità di fede islamica immigrate nel nostro Paese, rivelano invece, mille volti. Il mondo islamico, caratterizzato da un’ampia varietà di diversificazioni linguistiche, etniche e culturali, dovute alla sua storia secolare, a parte la tradizionale separazione tra sciiti e sunniti, è composto da una serie di correnti mistiche, sette e gruppi minori.

Immaginato stereotipicamente come una fede, rappresenta invece anche un codice etico, una prassi sociale, culturale e politica, rifiutando quella visione mitologica corrispondente di frequente a quella imposta da frange fondamentaliste dell’islamismo radicale. Con il risultato di essere percepita come una religione intrinsecamente violenta. Senza sfumature. Totalitaria e totalizzante, a tutti i costi.

In Italia, premettendo che su circa sei milioni di presenze straniere i musulmani rappresentano meno di un terzo del totale, sfatando il pregiudizio secondo cui la maggior parte degli immigrati lo professa, l’Islam si presenta come un’evidente complessità sociologica e conta più differenze che similitudini.

Prima di tutto per la pluralità dei Paesi di provenienza, circa dieci: Marocco in testa, seguito da Albania, Bengala, Tunisia, Egitto, Pakistan e Senegal. Poi perché, se nei contesti di migrazione genericamente la religione funge da fattore aggregante, nel caso specifico è filtrata attraverso le diverse culture, rendendola un sistema fluido e plurale e tutt’altro che monolitico. Senza dimenticare l’apporto, in questo senso, delle seconde generazioni e il significativo aumento degli italiani convertiti.

Una varietà di storie e vissuti che tende a influenzare anche l’atteggiamento verso la società italiana incidendo, ovviamente, sulle modalità di integrazione nel Belpaese. Aspetto, anche questo, che caratterizza l’islam nella sua pluralità. Si spiega così il costituirsi di strutture associative generalmente connesse all’origine nazionale: tutelano il profilo identitario e, contemporaneamente, difendono la diffusione dell’Islam nel territorio adottivo, soprattutto nell’Italia settentrionale, Lombardia ed Emilia Romagna capolista, seguite dal Veneto e dal Piemonte.

E l’insediamento in Italia ha imposto, certamente, svariate trasformazioni tanto nella pratica religiosa quanto nell’appartenenza e nelle modalità di dirsi ed essere musulmani. Le cause? La mancanza di strutture e di possibilità effettive di esercitare la fede e il diverso modo di vivere la religiosità in un ambiente in cui l’islam è credo minoritario. Proiettando, i contesti circostanti, messaggi e immagini diverse da cui si è stati precedentemente socializzati.

Tutto ciò, rintracciabile nel papier “Il volto plurale dell’Islam: sunniti e sciiti tra Paesi d’origine e contesti di migrazione”, redatto dall’ISMU, sarebbe sufficiente per poter sostenere che chi rivendica la violenza perpetrata in nome della fede religiosa, nasconde, piuttosto, la propria malattia mentale dietro l’Islam. Non c’è Dio che tenga.

di Tania Careddu

C’è un inequivocabile rapporto tra lo sviluppo sostenibile e l’eliminazione radicale della disuguaglianza fra i bambini. Talmente tanto chiaro che, quando duecento leader mondiali si sono riuniti, nel settembre 2015, per mettere nero su bianco un piano quindicennale finalizzato a raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG), non hanno potuto fare a meno di includere traguardi specifici per porre fine alle piaghe che minano l’uguaglianza: il lavoro minorile, la schiavitù, il traffico di esseri umani e la violenza contro i minori. Così da dedurre che le società sostenibili possono essere tali solo quando i bambini sono al sicuro, sani e istruiti. Equamente.

Ma la maggior parte dei dati recenti, riportati nel rapporto "La condizione dell’infanzia nel mondo 2016-La giusta opportunità per ogni bambino", redatto da Unicef, dimostra che nel mondo ci sono ancora centocinquanta milioni di bambini lavoratori, cinquantanove milioni di loro, in età da istruzione primaria, che non frequentano la scuola; quindici milioni di ragazzine sotto i diciotto anni che, ogni anno, sono costrette a sposarsi; milioni di bambini che convivono con una disabilità che ne pregiudica l’inclusione; trentasette milioni di minori, che vivono in zone colpite da gravi crisi, esclusi dall’istruzione e quasi due terzi dei bambini che vivono in luoghi colpiti da disastri climatici, senza una copertura vaccinale.

Per lavorare nelle piantagioni di cacao in Costa d’Avorio, nelle miniere di mica e nelle fornaci di mattoni in India, vendere fiori in Colombia, cucire palloni di calcio in Pakistan. Ignorando che un aumento del lavoro minorile, oltre ad annullare totalmente i diritti fondamentali di ogni bambino, determina maggiore disoccupazione tanto che, oggigiorno, per i centocinquanta milioni di minori tra i cinque e i quattordici anni che svolgono attività lavorative da grandi, ci sono duecento milioni di adulti disoccupati che, va da sé, non possono garantire una vita dignitosa ai loro figli.

Non solo. Studi economici recenti dimostrano che ogni dollaro investito nell’istruzione di qualità renderà quindici volte la somma investita nel giro di due decenni; che, in media, ogni anno di scuola in più per ogni bambino si traduce, da adulto, in un incremento di circa il 10 per cento della retribuzione e, per ogni anno di scuola in più completato dai suoi giovani, il tasso di povertà di quel paese si riduce del 9 per cento.

Di più: una ricerca risalente allo scorso anno, effettuata dalla Banca Mondiale, ha rivelato che il semplice fatto di prevenire la denutrizione nella prima infanzia getta le basi, nella vita adulta, per un aumento della retribuzione oraria pari ad almeno il 20 per cento, offrendo, la prima infanzia, se protetta dalla frequente esposizione a eventi cronicamente stressanti come la privazione alimentare e la violenza, la basilare essenziale opportunità di spezzare i cicli intergenerazionali di disuguaglianza. Che “mettono in pericolo intere società”. Parola del direttore dell’Unicef, Anthony Lake.

di Tania Careddu

Esisteva già prima dell’inizio della guerra ma con l’esplodere del conflitto, lo sfruttamento lavorativo dei bambini siriani ha assunto dimensioni preoccupanti. Finiti i risparmi delle famiglie, ridotti i servizi per i rifugiati e tagliati gli aiuti delle Nazioni Unite a causa della mancanza di fondi, i bambini sono costretti a lavorare. Poi, la difficoltà di inserirsi nelle scuole dei paesi ospitanti, insieme alle restrizioni poste dalla legge degli stessi paesi al lavoro legale degli adulti, hanno fatto il resto.

Dopo cinque anni di guerra, sei milioni di minorenni necessitano di assistenza umanitaria, più di due milioni vivono in zone difficili o sotto assedio e circa tre milioni non vanno a scuola. Così, un numero sempre più crescente di loro è obbligato a lavorare per sopravvivere e, addirittura, viene avvicinato da gruppi armati per essere assoldato come soldati, a un’età sempre più giovane e senza risparmiare le bambine, soggette, anche, specialmente in Iraq, a contrarre matrimoni temporanei consistenti nell’offerta, alla famiglia della giovane, di una dote da parte del marito che la vincola a rimanere con lui fino al termine stabilito.

Lavorano, anche per sedici ore al giorno, in agricoltura, nelle strade a vendere mercanzia, lavano le macchine, lavorano metalli e legno, raccolgono la spazzatura, lavorano come sguatteri nelle case, portano l’acqua. Cercano cibo tra i bidoni della spazzatura, chiedono l’elemosina e “raccolgono le parti del corpo di chi è stato ucciso per cremarlo”.

Scenario di riferimento, i campi profughi e le città dove si è rifugiata la maggioranza dei siriani in fuga: i paesi limitrofi, Giordania, Libano, Turchia e Kurdistan, ospitano più del 60 per cento dei siriani scappati e, a partire dal 2005, la Grecia e i Balcani sono diventati la rotta preferita dai siriani e, un anno più tardi, la chiusura della frontiera macedone con la Grecia ha limitato la rapidità del passaggio della popolazione della Siria, prospettando la possibilità di creare le condizioni per una maggiore vulnerabilità delle famiglie e dei loro bambini.

Con l’aumentare dell’incertezza sull’opportunità di raggiungere la destinazione finale del viaggio (generalmente l’Europa del Nord) e in una zona in cui è marcata la presenza di trafficanti e reti criminali, rimane alto il rischio che i bambini rifugiati possano diventare un interessante esca per lo sfruttamento lavorativo in settori illegali.

In un contesto siffatto, il lavoro dei minori diventa una risorsa fondamentale tanto da trasformarsi, per loro, in una condizione di ordinaria normalità: “qualunque tipo (di lavoro, ndr) basta che non sia pericoloso, non comprometta la reputazione o vada contro la religione. Vendere per strada – si legge nel rapporto Ci sacrifichiamo per sopravvivere. Lavoro minorile tra i bambini vittime del conflitto siriano, redatto da Terres des hommes – può dare dei problemi, si può essere scambiati per mendicanti. Inoltre, non bisogna entrare in commerci illegali, come vendere alcolici, prostituirsi o rubare, perché è contro l’Islam”.

Che rende inappropriate, per le bambine intervistate, tutte le situazioni lavorative in cui c’è promiscuità con il sesso opposto e anche perché “è responsabilità degli adulti e dei maschi lavorare, non delle femmine, specialmente se sono bambine”. Anche se “noi abbiamo più opportunità di lavoro ed è più difficile che la polizia ci venga a cercare, come fa con i maschi e con gli adulti”. Per tutti, il lavoro minorile “deve essere calibrato sulle loro capacità fisiche, non deve compromettere la loro salute e sicurezza, non deve essere pericoloso o difficile”. E non deve ostacolare la frequenza scolastica.

Ma tant’è. La drammatica e perdurante mancanza di risorse economiche e di accesso gratuito ai servizi di base sottraggono i bambini dalla possibilità di aspirare a impieghi specializzati. Da grandi.

di Tania Careddu

Il 37 per cento in più rispetto all’anno precedente. Cioè, centosettantotto mila cittadini stranieri, oltre trentacinque ogni mille residenti, hanno acquisito la cittadinanza italiana. Per matrimonio, naturalizzazione, trasmissione automatica al minore convivente da parte del genitore straniero divenuto cittadino italiano o per ius sanguinis, molti sono coloro che appartengono a comunità di antico insediamento, albanesi e marocchini in testa, e tantissimi i minorenni, il 37 per cento dei nuovi italiani.

Più di un quarto del totale, pari a quarantacinque mila, sono state le acquisizioni in Lombardia seguita dal Veneto che ne ha contate quasi ventiseimila e dall’Emilia Romagna con circa ventitremila. Scarseggiano al Sud, con Basilicata e Sardegna in testa, e risultano poche anche in Molise e Valle d’Aosta. Sono aumentate le acquisizioni di indiani, bengalesi, pakistani e tunisini mentre le domande per residenza, nel 2015, sono state presentate soprattutto da comunità a prevalenza femminile, tipo Perù, Filippine, Moldavia, Ecuador, Polonia e Ucraina, dove la maggior parte delle richiedenti risulta occupata nei servizi alla famiglia.

E nell’anno in cui l’Italia si è trovata in piena crisi rifugiati con un picco di arrivi via mare di centocinquantaquattromila migranti sbarcati, sono stati più numerosi i cittadini stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana, e quindi un’elevata stabilizzazione, di quelli che hanno raggiunto le nostre coste in modo irregolare.

E il numero è risultato, peraltro, superiore rispetto alle più recenti previsioni con un trend in aumento: dai centomila nel 2013 ai centotrentamila nel 2014, sino al picco attuale. In controtendenza rispetto al resto d’Europa: secondo gli ultimi dati disponibili Eurostat, del 2014, sono ottocentonovantamila i cittadini stranieri che hanno ottenuto la cittadinanza in uno degli Stati membri, il 9 per cento in meno rispetto all’anno precedente. Una flessione più marcata nel Regno Unito, in Spagna, in Belgio, in Grecia e in Svezia. Dietro il boom italiano, fatto di integrazione e stabilità, la Francia e i Paesi Bassi.

In generale, gli stranieri residenti in Italia sono circa cinque milioni: duecento nazionalità che nel 50 per cento dei casi appartengono a un paese europeo, nel 30 per cento a un paese dell’Unione e nel restante a stati dell’Africa occidentale e settentrionale o asiatici.

Hanno modelli insediativi molto differenti fra loro: a parte le comunità di antico insediamento, vedi quella filippina equilibrata fra i generi, e quella cinese numericamente importante e strutturata in famiglie, per alcune si parla di vere e proprie ‘specializzazioni produttive’ e per altre, è la storia della migrazione ucraina, si osserva una composizione costituita per l’80 per cento da ‘donne breadwinner’ in età adulta, oltre i cinquant’anni.

Una condizione che non interessa solo le straniere. Tutto il mondo è (il proprio) Paese.



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