di Tania Careddu

Quattrocentosettantotto miliardi di euro di spesa pubblica annua per il sistema di protezione sociale vanno tutelati. Ad una impostazione di teoria economica che non prevede investimenti pubblici, con la scusa di una situazione economica (critica) che ha modificato lo scenario, si sommano inefficienze, sprechi, comportamenti opportunistici, fino alla corruzione e al malaffare, lo stato sociale smarrisce del tutto il senso e il consenso che merita.

Prevale l’opinione che la crisi del welfare sia dovuta anche a una generosità cieca, riferibile al passato, del sistema: troppi sprechi, nella sanità, per esempio, con tanti accertamenti inutili, analisi di laboratorio, consumo di farmaci; nell’assistenza sociale con pensioni di invalidità troppo facilmente concesse; nell’istruzione con troppo personale nella scuola o presunto spreco di materiale didattico.

Ma per la maggior parte degli italiani, pari al all’86,8 per cento, il dissenso più intollerabile nasce dal sospetto della presenza di frodi, con soggetti che beneficiano di prestazioni a cui non avrebbero diritto, oltre che con il passaggio di ingenti flussi economici di risorse con quote di sommerso (in soldoni, pagamenti in nero di visite mediche specialistiche, di ripetizioni scolastiche o dello stipendio delle badanti). E con il lapalissiano effetto di non riuscire più a contenere le disuguaglianze sociali, in un contesto già caratterizzato da un restringimento di risorse pubbliche imposto da un taglio delle spese.

L’opacità della destinazione delle risorse, da una parte, fa pensare a un meccanismo di sottrazione delle stesse direttamente ai cittadini; dall’altra, favorisce comportamenti opportunistici e uso inappropriato dei soldi pubblici. Oltre a consentire un uso strumentale e demagogico della (mancata) trasparenza quale grimaldello per attaccare il welfare tout court.

E, invece, “il welfare italiano è stato da sempre piattaforma di sicurezza per le famiglie, garantendo le spalle coperte. Questo, il suo significato più importante e questa la sua principale funzione. Se le famiglie come soggetto di welfare garantiscono risposte mirate e quotidiane ai bisogni sociali, è importante metterle nelle condizioni di capire chi, dove, in che modo e con quali risorse possano sostenerle.

La trasparenza nell’uso delle risorse non è una clava contro il welfare ma uno strumento per renderlo migliore”, ha detto il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, presentando il rapporto “La forza della trasparenza nel sistema di welfare”.

“Trasparenza significa chiarezza nei costi, nei ruoli e, soprattutto, nelle aspettative” ha incalzato il presidente del Forum Ania Consumatori, Pier Ugo Andreini, destinatario della ricerca. Il quale ha concluso: “Il welfare è un patto sociale tra cittadini finalizzato a proteggere il proprio benessere e a tutelare il futuro proprio e, spesso anche, dei figli. Come tutti i patti, il principio di trasparenza nelle informazioni e di eticità nei comportamenti è fondamentale per il suo buon funzionamento”.

di Tania Careddu

Parole d’ordine: controllo e condivisione delle responsabilità. Ma, a poco più di un anno dall’attuazione dell’approccio hotspot, rimangono solo l’ordine e il controllo. Della condivisione dei migranti e dei rifugiati politici, soltanto parole. Si, perché, pensato con l’obiettivo di distribuire i richiedenti asilo nei vari stati dell’Unione Europea, per poter valutare, solo successivamente, le loro domande d’asilo, l’approccio hotspot si è rivelato solo un rattoppo. Di più. Ha messo in luce l’incapacità dei leader europei, che lo hanno ideato, di pianificare e concordare la necessaria riforma del sistema d’asilo dell’Ue.

Se quei leader hanno, dunque, una responsabilità politica, le autorità italiane rispondono di quella diretta, intervenendo in maniera repressiva per prevenire spostamenti verso altri Paesi europei e aumentando, di conseguenza, il numero dei rimpatri. Spingendosi, per ottenere il maggior numero di identificazioni previste (e tanto auspicate dall’Unione europea), oltre i limiti ammissibili dal diritto internazionale dei diritti umani.

L’attuazione di misure coercitive, sotto la pressione delle istituzioni europee hanno sollecitato l’Italia ad “accelerare gli sforzi, anche sul piano legislativo, per fornire un quadro giuridico più solido” in tal senso, al fine di costringere le persone che non vogliono fornire le impronte digitali è diventata la regola, attraverso la detenzione prolungata e l’uso della forza fisica.

E, però, trascurando che, secondo la legislazione italiana, le autorità di polizia sono autorizzate a prelevare con la forza “capelli o saliva” di persone soggette a indagine penale ma - sempre - tutelando “il rispetto della dignità personale del soggetto” e a seguito dell’autorizzazione del pubblico ministero. E che nessuna normativa fa riferimento al rilevamento forzato delle impronte digitali, se non una circolare del ministero dell’Interno che, secondo quanto si legge nel report "Hotspot Italia", redatto da Amnesty International, consentirebbe un uso proporzionato della forza (rivelatosi, il più delle volte, inutile di fronte alla non opposizione della maggior parte dei migranti).

E se un utilizzo limitato della forza potrebbe essere giustificato per controllare soggetti che agiscono aggressivamente contro le autorità di polizia, viola certamente il divieto internazionale di tortura e altri trattamenti disumani l’inflizione volontaria di sofferenza fisica, dolore, anche psicologico, per costringere le persone a obbedire all’ordine di un’autorità. Che nei punti di crisi (hotspot) italiani succede.

Screening (con l’obiettivo di separare i richiedenti asilo dai “migranti irregolari”) dello status di tutti gli esseri umani sbarcati nei porti italiani: viziati, anticipati e rapidi, avvenuti immediatamente dopo gli sbarchi e di fronte a soggetti non pienamente in grado di sostenere un dialogo informato (anche sul piano legale). Compromettendone l’esercizio del diritto di chiedere asilo: è, infatti, obbligo di legge e parte dei doveri dell’Italia sul piano internazionale fornire informazioni a chiunque possa voler fare richiesta di protezione internazionale.

Per agevolare il rilevamento delle impronte digitali e l’identificazione dei nuovi arrivati, spesso, sono sottoposti alla detenzione (arbitraria), nonostante l’assenza di una base legale, un ordine formale di trattenimento, la convalida di un giudice e la possibilità di contestarne la legittimità. E con la minaccia di non essere rilasciati fino ad avvenuta collaborazione.

Subiscono, inoltre, provvedimenti di espulsione immotivati che, sovente, al giudizio delle istituzioni europee risultano addirittura insufficienti. E pensare che il principio di non refoulement costituisce la pietra miliare del diritto dei rifugiati.

di Tania Careddu

Non lavorano, non studiano, non fanno formazione e sono, anche, vittime, di una condizione di svantaggio sociale. Oltre a essere NEET, quindi, provengono, pure, da contesti famigliari di disagio sociale e povertà economica. Sui tre milioni e quattrocentoventi mila giovani fuori dal circuito formativo e lavorativo, mille e settecentoquarantanove (stimati, solo durante un trimestre campione, dalla ricerca “Nel paese dei NEET”, effettuata dalla Caritas) provengono da nuclei famigliari particolarmente vulnerabili.

Principalmente stranieri, maschi, single, che vivono con i propri genitori o soli, hanno un livello scolastico molto basso: quasi la metà ha la licenza media inferiore e quasi il 9 per cento è addirittura analfabeta, soprattutto fra gli italiani, il 60 per cento dei quali ha gravi problemi legati alla sfera occupazionale e di povertà materiale.

Per quelli di origine straniera, invece, la condizione di criticità, è legata sia a confusione e insicurezza, personale e familiare, ma anche a fattori relativi al vissuto migratorio: la conclusione affrettata degli studi e il conseguente precoce inserimento nel mondo del lavoro, infatti, spesso sono imposti da motivi economici e quasi mai da un atteggiamento pregiudizialmente negativo dei genitori riguardo al valore della scuola.

Privi di ambizioni professionali e di chiare progettualità lavorative, i giovani NEET in condizioni di povertà, hanno alle spalle percorsi formativi frammentati e incompleti, complice una “debole genitorialità”: al momento delle grandi scelte formative, infatti, a fronte del grande disorientamento tipico dell’età adolescenziale, i genitori non sono stati in grado di guidare i propri figli nella giusta direzione, trasmettendo, anche, un’immagine negativa del valore dello studio, a favore di un inserimento prematuro nel mondo lavorativo. Dal canto suo, l’istituzione scolastica ha fatto la parte della grande assente, fallendo nell’interazione con il sistema famiglia.

E loro, i giovani NEET, da soli, fanno fatica a mantenere un rapporto con la realtà: derealizzandone la visione, rinviano ogni forma di responsabilità a un mittente astratto. Completamente rassegnati, logorati dall’immobilità, vivono fra un vuoto privo di immagini e un immaginario stereotipato, costruito attorno a famiglia, figli e posto fisso.

Un’inattività che sembrerebbe determinata dall’insuccesso della carriera scolastica e dalla frammentarietà di quella lavorativa, inadeguata a costruire le solide basi di un’esperienza professionale. Portatori di un vissuto, il più delle volte, frutto di un’ereditarietà famigliare che li ha cronicizzati, piuttosto, a vere e proprie carriere di disagio, incastrati in una condizione di marginalizzazione sociale che rischia, non solo, di compromettere il loro inserimento nel mondo adulto ma, pure, il loro benessere.

Condannati a una sorta di “paralisi biografica”, in condizioni di vite improntate sulla scarsità di rapporti, assenza di partecipazione sociale e politica e rischio di devianza. In una situazione di disoccupazione che, alla lunga, genera dipendenza: dalla famiglia d’origine (che non c’è), dall’assistenza e dalla comunità, strutturando una specie di “individualismo negativo”, mitigato solo dal sopravvivere delle reti, seppure indebolite, di solidarietà collettiva, tipiche della prima modernità.

di Tania Careddu

“E’ garantita a tutti i detenuti e internati la piena libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne i riti”, dice l’articolo ventisei della legge 354 del 1975, garantendo la scelta di avvalersi dell’assistenza spirituale in un’ottica di pluralismo religioso.

Nell’ordinamento carcerario l’attività dei cappellani cattolici è assicurata da norme specifiche che ne istituzionalizzano la figura anche per le altre confessioni. Che sono tante, fatta salva la distinzione tra quelle che negli anni hanno raggiunto un’intesa con lo Stato italiano (culti ammessi, ndr) e quelle che, di volta in volta, devono chiedere l’intervento di un proprio ministro nella casa di reclusione. Ma è stato comunque riconosciuto il valore positivo che il credo, le pratiche e i legami religiosi possono avere nei percorsi riabilitativi.

Posto che i cambiamenti demografici in atto in Italia influenzano inevitabilmente, in modo diretto, la composizione della popolazione detenuta, divenuta complessa e composita, ciò non può non interessare l’aspetto religioso.

Se nei primi anni novanta gli stranieri rappresentavano poco più del 15 per cento dei carcerati, oggi raggiungono il 35 per cento del totale. Rappresentato per lo più dalla componente maghrebina - marocchini, tunisini, algerini - e considerando anche i reclusi di provenienza asiatica e dall’Africa nera, si può stimare che più di un detenuto su tre sia di religione musulmana.

Accanto ai cristiani di diverse confessioni, indù, sikh e buddisti, il credo islamico è, in percentuale, quello prevalente nelle carceri della Penisola. Oltre che per la sua significativa presenza, anche per la sua sostanzialità: l’elemento che la distingue rispetto alle altre fedi è rintracciabile nelle sue specifiche caratteristiche di proselitismo e radicalismo.

E’ noto che il carcere costituisca un contesto che favorisce, di per sé, processi di radicalizzazione di fronte a una situazione di sopravvivenza; qui l’integralismo religioso offre un forte senso di appartenenza, rappresentando un meccanismo di difesa. A ciò si aggiunga che il rapporto tra la privazione della libertà e l’essere musulmano in un quadro contraddistinto da rigidità burocratiche e vincoli vari, nonché da carenza di risorse, risulta durissimo per loro (e per tutti gli stranieri, complici le difficoltà linguistiche e l’esclusione sociale e culturale di partenza).

Tanto più che, a differenza di altri paesi europei, vedi Francia e Inghilterra, secondo quanto si legge nel papier “L’Islam nelle carceri italiane”, redatto da ISMU, l’Islam vissuto in carcere non è sovrapponibile a quello del resto della società italiana. L’esperienza della reclusione, la gravità del reato commesso, il senso di colpa, il fallimento del progetto migratorio e il vissuto criminale possono sostenere un (ri)avvicinamento alla fede che può ridare un senso alla loro esistenza.

Oltreché un ordine, perché scandisce i ritmi del calendario e della giornata, oltre a collocare i comportamenti in una sorta di griglia simbolica, innescando così un beneficio psicologico e un rafforzamento identitario. Che passa anche attraverso il diritto (riconosciuto) del detenuto a godere di una dieta rispettosa delle prescrizioni della propria fede religiosa.

di Tania Careddu

Vitali per la sopravvivenza, il benessere e la salute dell’uomo, gli ecosistemi si sono evoluti fino a essere autosufficienti. E fino a quando la pressione umana non è intervenuta a ridurre il loro capitale naturale a un ritmo più incalzante di quello necessario al reintegro. La conversione di habitat naturali in favore dell’agricoltura, lo sfruttamento eccessivo della pesca, l’inquinamento delle risorse di acqua dolce da parte delle industrie, l’urbanizzazione e le pratiche agricole e di pesca non sostenibili, sono le cause del depauperamento del suddetto capitale.

Con conseguenze destinate a moltiplicarsi nel tempo: aumentano l’insicurezza alimentare e idrica, i prezzi di molte materie prime e la competizione per le risorse territoriali e idriche. Inasprendo conflitti e migrazioni, generando cambiamenti climatici e vulnerabilità ai disastri naturali, vedi inondazioni e siccità, e contribuendo a un calo generale nella salute fisica e mentale degli uomini.

I cui modelli globali di consumo e produzione interferiscono con il sistema naturale della terra quando si spingono oltre i “confini planetari”, interdipendenti fra loro. Imponendo sulla natura una pressione sproporzionata perché si appropriano di una quota di risorse della terra maggiore di quanto sia equo.

Già evidenti, le conseguenze di questo “overshoot” (sorpasso): gli habitat e le popolazioni delle specie sono in declino e il carbonio nell’atmosfera si sta accumulando a causa sia della combustione di carbonio, petrolio e gas naturale sia per l’uso di beni ad alta intensità energetica.

Il clima sta cambiando rapidamente, gli oceani si stanno acidificando e interi biomi (porzioni di biosfera, individuate e classificate in base al tipo di vegetazione dominante, ndr) stanno scomparendo, facendo diventare sempre più inospitale il pianeta per gli esseri umani.

Oltreché per le altre specie viventi, le quali, secondo l’Indice del pianeta vivente, riportato nel dossier Living Planet 2016, redatto da WWF, che misura lo stato della biodiversità attraverso i dati sulle popolazioni di varie specie di vertebrati, dal 1970 al 2012, sono calate del 58 per cento, con una tendenza media annua del 2 per cento.

Così, le popolazioni di specie terrestri sono diminuite del 38 per cento, quelle d’acqua dolce dell’81 per cento e quelle marine del 36, minacciate dalla perdita e dal degrado dell’habitat, dallo sfruttamento fuori misura delle specie, dall’inquinamento, dalle specie invasive, dalle malattie e dal cambiamento climatico.

Confini planetari: nove limiti che non si possono superare per non avere effetti drammatici e irreparabili sulla terra. E ora che quattro - livello di ossido di carbonio nell’atmosfera, livello di fosforo e azoto negli oceani, deforestazione e tasso di estinzione - di quei nove sono stati varcati? Dio salvi il pianeta.


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