di Tania Careddu

“La Heimweh, questa malattia così spesso mortale non è stata sinora descritta dai medici”, disse il medico svizzero Johannes Hofer, rappresentando nel termine tedesco, “il dolore di coloro che si trovano lontano dalla patria, e di coloro che temono di non rivedere più la terra natale”. Risale al 1688, la prima codificazione psichiatrica di una patologia dell’immigrazione.

Poi, a parte considerazioni aneddotiche sulla salute mentale dei migranti in Italia, le osservazioni cliniche e la ricerca scientifica sulla loro salute psichica sono relativamente recenti. Risalenti agli anni novanta, i primi dati raccolti, confermatisi nel tempo, consentono di affermare “l’effetto migrante sano”. Ossia, con buona pace di chi strizza l’occhio a rigurgiti razzisti, gli immigrati partono sani dal loro paese e sani, di norma, arrivano in quello ospite.

Prova ne sia che i tassi di ospedalizzazione per diagnosi psichiche tra i migranti sono stati sempre, nella storia della migrazione italiana, particolarmente bassi. A discapito di quanto ci si sarebbe potuto attendere per la presenza di fattori di rischio legati all’esperienza migratoria, invece, gli immigrati si ammalano in Italia, a causa delle condizioni di vita in cui sono costretti.

E, però, se questo impianto osservativo ha tenuto per oltre un ventennio, alla luce delle nuove dinamiche migratorie degli ultimi cinque anni, va rivisitato, tenendo conto del cambiamento socio-demografico: il passaggio da una migrazione ordinaria di tipo economico a una di profughi con percorsi migratori prolungati e molto duri, infatti, ha fatto emergere una diversa tipologia del migrante.

Quello dei giorni nostri si presenta, più frequentemente, con un “substrato psichico già compromesso, con una capacità di resilienza ridotta e in assenza di un progetto migratorio chiaro”, vuoi per le caratteristiche demografiche riferibili a minimi livelli di istruzione e alle condizioni di emarginazione sociale pre-migratoria, vuoi per quelle psicologiche, con alcuni ricoveri precedenti alla partenza.

Che rendono il richiedente asilo più vulnerabile (ora rispetto al passato) allo stress da transculturazione: la capacità di gestire una situazione nuova, spesso non comprensibile a prima vista, con una complessità di stimoli elevata, non è scontata.

Il progetto migratorio, poi, fa la sua grossa parte nel determinare la loro resilienza, considerato che a esso è ancorato il sistema motivazionale degli immigrati: non è così per i migranti forzati dell’ultimo quinquennio per i quali i fattori di espulsione dalla madrepatria dominano su quelli di attrazione nel paese d’approdo.

Il quale, spesso, non è neppure frutto di una scelta consapevole e, per di più, non è accogliente, offrendo un supporto sociale lacunoso, fatto che, insieme all’aver subito traumi nel paese d’origine, tende a peggiorare il livello di sofferenza psicopotalogica. E così, sono aumentati i disturbi psichici tra gli immigrati e del 50 per cento i loro ricoveri, secondo quanto riporta il dossier "rapporto sulla protezione internazionale in Italia 2016" redatto dalla Caritas..

Ebbene, si, partono sani, cosa abbastanza ovvia se si considera quanto impegnativo sia il percorso migratorio e quanta buona salute (mentale) richieda per essere affrontato. E’ qui che si ammalano.

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