di Tania Careddu

La sanità italiana non gode di ottima salute. Sia per l’inefficienza del sistema sanitario nazionale sia per i costi. Talmente proibitivi che le spese sanitarie sono diventate out of pocket: farmaci, case di cura, visite specialistiche e cure odontoiatriche hanno portato oltre trecentomila famiglie al di sotto della soglia di povertà. Soprattutto quelle calabresi, siciliane, abruzzesi e campane. Capovolgendo la classifica, molto meglio in Piemonte, in Trentino Alto Adige e in Emilia Romagna.

Nel 2015, la spesa sanitaria pro capite desumibile dagli enti sanitari locali è stata pari a mille e ottocentoventinove euro: più performanti, in tal senso, le regioni del Mezzogiorno - in testa Campania, Sicilia e Calabria - e, negativamente, il Trentino Alto Adige, la Valle d’Aosta e il Molise. Si aggiunga che il management delle aziende ospedaliere e delle strutture sanitarie è oneroso: nel 2016, il costo è ammontato a trecentoundici milioni di euro, con un incremento dell’1 per cento rispetto all’anno precedente.

Indennità, rimborsi, ritenute erariali e contributi previdenziali per gli organi istituzionali pesano. Ad emettere più mandati di pagamento sono il Trentino Alto Adige, l’Abruzzo, la Valle d’Aosta, la Sicilia e il Veneto; più parsimoniose, le Marche, la Campania, la Toscana e la Calabria. Che è, pure, la regione che guida la graduatoria del comparto sanitario pubblico più avezzo a liti.

Le spese legali da contenzioso e da sentenze sfavorevoli sostenuti dal settore sanitario italiano ammontano, solo nell’anno appena passato e soprattutto da parte delle strutture sanitarie meridionali nelle quali si concentra circa il 60 per cento delle spese legali complessive, a più di centonovantuno milioni di euro, circa cinquecentoventitre mila euro al giorno, con una spesa pro capite pari a poco più di tre euro.

E, talvolta, per non incorrere nelle inefficienze del sistema sanitario della regione di residenza, la mobilità sanitaria la fa da padrona. Infedeltà da primato per la Basilicata, i cui residenti scelgono di curarsi e ricoverarsi fuori dai confini regionali, con un indice di fuga pari al 24 per cento. Mentre i più fedeli si rivelano i lombardi, con solo un 4 per cento di ricoveri fuori regione, a conferma anche del fatto che a ospitare il maggior numero di degenti non residenti sono le regioni del Nord. In primis, la Lombardia con settantotto mila ricoveri extraregionali, l’Emilia Romagna con cinquantaquattro mila, il Veneto con ventotto mila, seguite da Lazio e Toscana.

Certo, perché se la vox populi è la fonte sempre più attendibile e circa un italiano su tre si dichiara soddisfatto dell’assistenza medica e infermieristica, del vitto e dei servizi igienici, i più appagati vivono in Trentino Alto Adige, immediatamente seguiti dai residenti in Valle d’Aosta e in Emilia Romagna.

Che svetta sul podio delle regioni con un sistema sanitario d’eccellenza, insieme alla Lombardia e al Piemonte. Sono tutte del Sud, invece, le regioni che si contraddistinguono per inefficienza: maglia nera alla Sardegna, alla Basilicata e alla Campania, con la Calabria che si conferma quella più malata.

Ma questo federalismo sanitario è nocivo per la salute degli italiani tanto che circa dieci milioni di loro non si sono potuti occupare della propria salute perché, secondo quanto si legge in un sondaggio effettuato da Demoskopika, “curarsi fuori costa troppo, non fidandosi del sistema sanitario della regioni in cui si vive”. Così, nel 2016, una famiglia su due ha rinunciato alle cure, oltre che per motivi economici, anche per le lunghe liste d’attesa, per l’impossibilità di assentarsi dal luogo di lavoro, in attesa di una risoluzione spontanea del problema o per paura.

di Tania Careddu

Lo si può definire un annus horribilis, quello appena concluso, per l’andamento infortunistico sul lavoro. Dopo decenni di contrazione del fenomeno, il 2016 ha segnato un rallentamento della dinamica favorevole, prospettando un bilancio con un saldo che, dopo tanti meno, è destinato (forse) a cambiare di segno.

Per il momento, i dati dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi sul Lavoro rivelano un incremento delle denunce di infortuni di circa cinquemila e duecento unità, passando dagli oltre cinquecentottantaduemila del 2015 ai cinquecento e ottantasei mila e seicento dello scorso anno. Stesso trend per le malattie professionali, con un più 2,9 per cento, raggiungendo le quasi cinquantaseimila unità.

Con ritmi frenetici, tanto che, dal 2008 a oggi, le denunce sono raddoppiate e, nel contesto, sono cresciute in maniera esponenziale quelle collegate alle patologie dell’apparato muscolo-scheletrico, mentre quelle tradizionali – respiratorie, cutanee, ipoacusie da rumore e tumori - più diffuse, sono stabili o leggermente diminuite.

Così come, fortunatamente, le morti bianche: un calo consistente di centoquarantacinque unità. Sono state novecentotrentacinque quelle avvenute nel 2016, comprese, ultime in ordine cronologico, quelle di Messina, con tre operai deceduti mentre lavoravano all’interno di una cisterna di una nave ancorata al porto della città siciliana.

Sebbene da un punto di vista strettamente tecnico non si possa sostenere la correlazione o un corrispondenza strettamente misurabile tra fine della crisi economica, aumento della produzione e dell’occupazione e crescita degli infortuni, tuttavia è innegabile che un aumento del monte-lavoro (espresso in numero di occupati e di ore lavorate) equivalga a un aumento dell’esposizione al rischio.

Il tentativo di rilancio della ripresa economica si è solo concentrato sulla riduzione dei costi e ha innescato una progressiva accelerazione dei ritmi di lavoro, del grado di utilizzo degli impianti, dell’assunzione di personale temporaneo, precario e (probabilmente) inesperto. Tutti elementi che incidono negativamente sugli standard di sicurezza abituali e possono generare situazioni di pericolo.

A ragion del vero, infatti, segnali di ripresa si stanno manifestando principalmente nell’area della produzione manifatturiera, nei servizi alle imprese e nei trasporti; proprio quei settori, insieme alla metalmeccanica e alla fabbricazione di autoveicoli, in cui si sono registrati i peggioramenti nel trend degli incidenti. Calano, invece, secondo i dati INAIL, quelli verificatisi in agricoltura.

Una stima però, quest’ultima, che l’Osservatorio indipendente di Bologna, che dal 2008 conteggia i morti e gli incidenti sul lavoro, senza annullare le partite IVA e le restanti posizioni lavorative inesistenti per le statistiche ufficiali, non conferma. Anzi, segnala un aumento dei decessi del 31 per cento, considerando i braccianti non assicurati e perciò non risultanti nelle liste INAIL, al pari dei lavoratori nell’edilizia con il 19,6 per cento di morti bianche. Ma bianche o nere che siano, sono ancora troppe.


di Tania Careddu

E’ un circolo vizioso: la deprivazione materiale porta alla povertà educativa e viceversa. Con uno svantaggio che si trasmette di generazione in generazione e con effetti che possono durare tutta la vita. Cosicché i bambini provenienti da famiglie indigenti hanno meno (o per nulla) probabilità di conseguire risultati buoni nel percorso scolastico, di prendere parte ad attività culturali e sociali, di svilupparsi dal punto di vista emotivo ma anche di realizzare la propria identità.

Non è pregiudiziale: i dati, riportati nel dossier “Sconfiggere la povertà educativa. Fino all’ultimo bambino” redatto da Save the children, dimostrano la stretta correlazione tra gli scarsi risultati educativi dei bambini e il basso livello socio-economico (e d’istruzione) dei genitori.

In particolare - e tralasciando numeri, calcoli e conti - diversi studi hanno dimostrato il ruolo cruciale che l’occupazione delle madri, aumentandone l’autonomia e l’autostima, svolge nel favorire il benessere dei figli nei primi anni di vita e nel lungo termine. Limitando l’abbandono scolastico che, oltre a disegnare un futuro privo di opportunità professionali, comporta un enorme rischio di esclusione sociale e povertà di relazioni.

Già a tre anni è rilevabile uno svantaggio nello sviluppo cognitivo ed emotivo dei minori provenienti da famiglie più disagiate e, in assenza di interventi adeguati entro i cinque anni, il divario aumenta ulteriormente. Sono oltre un milione, cioè un bambino su dieci, quelli colpiti da povertà assoluta e, per quella educativa, il 20 per cento dei quindicenni non raggiunge la soglia minima di competenza in lettura e il 25 per cento in matematica.

Una povertà che limita l’accesso al tempo pieno fruibile solo dal 30 per cento degli alunni delle classi della scuola primaria. Che priva moltissimi di loro delle possibilità di giocare in uno spazio pulito e li costringe ad aree urbane degradate e cementificate. Che produce eserciti di disconnessi culturali, ossia bambini tra i sei e i diciassette anni che non vanno mai al cinema, non sfogliano mai le pagine di un libro e non fanno sport.

Eppure, lo sanno anche loro che “la cultura è importante perché ti permette di scegliere cosa vuoi fare nella vita e di riuscire a farlo. E’ la base di tutto. La musica è importante perché ti apre la mente. Mi è piaciuto molto andare a un concerto con mamma. Mi sono sentito parte di qualcosa di importante e magico”, ha confessato un bambino italiano agli operatori di Save the children. E conoscono anche l’antidoto: “Quando diventerò un genitore voglio insegnare ai miei figli a sognare, perseverare, far in modo che le cose accadono”.

Perché non accada, invece, che “alcune persone si sentono escluse perché non partecipano a quello che succede. E’ importante che i compagni di classe non facciano distinzione tra chi è ricco e chi è povero”. Come a dire che l’uguaglianza parte dal basso.

di Tania Careddu

Ventinove milioni e mezzo di tonnellate: a tanto ammonta la produzione di rifiuti urbani in Italia nel 2015, con una generazione procapite pari a quattrocento e ottantasette chilogrammi. La mole sembrerebbe consistente ma, secondo quanto si legge nel rapporto "Rifiuti urbani 2016" dell’Ispra, in undici regioni della Penisola, soprattutto in Umbria, Liguria, Vento e Lazio, fra il 2014 e l’anno seguente, si osserva una riduzione (per le variabili socio-economiche). In Emilia Romagna, Toscana, Valle d’Aosta, invece, quella pro capite è superiore alla media nazionale a differenza della Basilicata, del Molise e della Calabria, in cui si registrano i valori minimi.

Rifiuti smaltiti per il 47,5 per cento dalla raccolta differenziata che riduce, come è noto, le quantità destinate alle discariche, sistemi che, oltre a essere pericolosi fonti di inquinamento per la salute dei territori e dei suoi abitanti, alimenta affari illeciti e impedisce lo sviluppo di un circolo virtuoso.

Il Veneto e il Trentino Alto Adige, le regioni più civili con una raccolta differenziata al di sopra del 65 per cento, asticella fissata dalla normativa per il 2012 mentre la peggiore è la Sicilia, sotto il 13 per cento. Ma, fortunatamente, l’Italia comincia a essere sempre più (lentamente) orientata al riciclaggio, che nel suo insieme copre il 44 per cento, con il sistema di discariche che ha ridotto la sua utilità di cinque punti percentuali, interessando ormai, sebbene ancora nel 2015 siano state smaltite un milione e rotti di tonnellate senza un preventivo e idoneo controllo, solo il 26 per cento dei rifiuti urbani prodotti, con il 19 per cento di questi che, ancora purtroppo, finiscono in cenere.

E (sempre fortunatamente) si fa sempre più strada il recupero biologico della materia scartata: l’evoluzione delle tecnologie di trattamento consente di riusare, dal compostaggio, energie rinnovabili sotto forma di biogas e di stabilizzare le biomasse prima del loro utilizzo agronomico.

Per quanto riguarda, poi, l’import/export dei rifiuti, sono circa duecentomila tonnellate quelli importati nel 2015.Principalmente dalla Svizzera, con oltre settantaquattromila tonnellate, corrispondente al 36,3% del totale importato; seguono la Francia con il 17,6% e la Germania con il 15,6%.

Circa la metà dei rifiuti provenienti dalla Svizzera, costituiti prevalentemente da rifiuti di imballaggio in vetro, sono destinati ad impianti di recupero e lavorazione del vetro situati, perlopiù, in Lombardia. Che è la regione che importa la maggiore quantità di rifiuti, oltre ottantasette mila tonnellate, il 42,6% del totale importato, seguita dalla Campania con circa quarantacinquemila tonnellate e dal Veneto con ventinovemila tonnellate.

Chissà se riuscirà, il Belpaese, a centrare l’obiettivo ‘discarica zero’ proposto dalla Commissione europea. All’Istituto Superiore per la Ricerca e la Protezione Ambientale sono fiduciosi tanto da pensare che il suddetto obiettivo potrebbe, addirittura, essere raggiunto prima della sua scadenza. Nel 2020.

di Tania Careddu

Quelli ad alta velocità aumentano (del 276 per cento rispetto al 2007) ma quelli che si muovono sui binari della rete ordinaria, gli intercity e i treni regionali si sono ridotti, in seguito ai tagli, pari al 26,2 per cento, dal 2010 a oggi, sui trasferimenti da parte dello Stato al servizio ferroviario in questione. Al di fuori dell’alta velocità - sono state introdotte altre quattro corse sulla Roma-Milano - il parco treni circolante, soprattutto nel tacco dello Stivale, è troppo scarso, vecchio e lento rispetto alle necessità.

Per capienza, per età, per la carenza di orari adatti all’utenza pendolare, per la (scarsa) frequenza dei convogli e per le condizioni delle stazioni. Per di più, in sedici regioni sono aumentate le tariffe e diminuiti i collegamenti in quindici di queste.

Quelle con i treni più vetusti sono l’Abruzzo, dove i più vecchi hanno più di quindici anni, la Basilicata e la Sicilia, forse la peggiore, in cui la linea ferroviaria presenta quattrocentoventinove corse contro le duemila e trecento della Lombardia. E, come non bastasse, negli ultimi quindici anni si sono ridotte del 41 per cento, con treni che viaggiano sempre più lentamente, tanto che gli attuali tempi di percorrenza sono addirittura superiori a quelli di venti anni fa.

La tratta più inadeguata del 2016, la Roma-Ostia Lido che, spostando circa centomila tra studenti e lavoratori (e con un bacino d’utenza tale che si potrebbero raddoppiare i pendolari se il servizio fosse di qualità) è sempre soggetta a guasti tecnici tra corse che saltano e ritardi periodici, priva di personale ferroviario, informazioni e biglietterie. Per non parlare, poi, della linea metropolitana della Capitale, soprattutto la B, utilizzata da oltre trecentoquarantacinque mila passeggeri che soffre di problemi tecnici, proponendo tempi d’attesa medi di quindici minuti.

E, cambiando la tratta, che si chiami Circumvesuviana, Reggio Calabria-Taranto, Genova-Acqui Terme, Treviso-Portogruaro, Bari-Martina Franca-Taranto, Pescara-Roma, pur con le dovute differenze il disagio non muta. Soppressioni delle corse che arrivano a quasi il 50 per cento dei treni giornalieri, servizio interrotto per l’esigenza di effettuare svariati interventi di manutenzione, rallentamenti vari ed eventuali.

Per non dire dei livelli di comfort dei pendolari: desolanti vista l’assenza di climatizzatori nella stragrande maggioranza delle carrozze, dei guasti frequenti a finestrini, porte e servizi igienici.

Manca, secondo quanto denuncia il rapporto Le dieci linee pendolari peggiori, redatto da Legambiente, una strategia di potenziamento complessivo, al di fuori dell'alta velocità, che permetta di migliorare l’offerta a partire dalle grandi città e dalle situazioni più difficili sulle linee secondarie, in particolare del Sud.

Perché se è innegabile che in alcune Regioni, attraverso i contratti con Trenitalia, stia avvenendo un miglioramento del parco treni circolante con mezzi nuovi, il problema è che sono troppo pochi quelli in circolazione e talmente datati e fiacchi da essere la causa dello scarso utilizzo del trasporto ferroviario.


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