di Tania Careddu

Nell’attuale italiana dove, dettata dalle difficoltà di disponibilità di accoglienza, l’emergenza la fa da padrona, l’attenzione e la sensibilità rispetto alle condizioni di salute dei migranti forzati, pur godendo degli stessi diritti degli immigrati regolarmente presenti, passa in secondo piano.

Alle difficoltà di ordine generale si sommano delle grosse criticità in termini di armonizzazione delle prassi territoriali - in mano agli enti provinciali e comunali - nel fornire assistenza sanitaria, per garantire la quale deve essere assicurata la presenza di operatori sanitari e di sostegno socio-psicologico presso le strutture di accoglienza.

Ma dai centri di primo approdo fino a quelli governativi per richiedenti asilo, se ne sente la mancanza con annessi e connessi del caso: assenti, spesso, i servizi di etno-psichiatria; le tessere sanitarie, più di qualche volta, non vengono fornite e l’erogazione delle medicine prescritte, non sempre viene assolta e, allorquando, i costi sono a carico del paziente.

Che, fra le problematicità più comuni, soffre di autolesionismo per dar voce alle sue incertezze e attirare l’attenzione; sebbene in assenza di prescrizioni da parte di medici specializzati, spesso assenti nei centri, utilizza in modo massiccio psicofarmaci; subisce la carenza del rapporto medico-paziente tanto da percepire il personale sanitario come agenti di custodia di cui è opportuno diffidare.

Si rileva certamente, secondo quanto si legge nel documento “Diritti e condizioni di salute dei migranti forzati”, redatto dall’ISMU, una mappa disomogenea, a livello nazionale, in termini di presa in carico del migrante forzato. Con un elemento, però, che relativamente alla difficoltà nell’accesso alle cure, li accomuna tutti, da Nord a Sud dello Stivale: la barriera linguistica, senza considerare che tanti di loro sono addirittura analfabeti.

Per gli operatori dei centri, le difficoltà di identificare e prendere in carico le problematiche psico-patologiche dei migranti forzati dipendono da tre ordini di fattori. Il primo è legato alla possibile non conoscenza della psicoterapia e dei suoi effetti benefici da parte del migrante; il secondo riguarda i tabù culturali rispetto alla condivisioni di eventi personali e il terzo è riconducibile alla normalizzazione degli eventi violenti (subìti).

E sebbene, in un contesto di ostica governabilità del sistema di arrivi, distribuzione e integrazione dei migranti in questione nel territorio italiano non consenta di venire in possesso di un patrimonio informativo dettagliato, le singole storie dei migranti sono sufficientemente rappresentative e permettono di generalizzare sui loro comportamenti e condizioni di salute.

Sulle quali si può agevolmente sostenere che non costituiscono rischio per la salute pubblica (se non in forma del tutto marginale) e che sono caratterizzate, per lo più, da malattie cardiovascolari, infezioni respiratorie, disidratazione, ipertermia e fratture. Certamente più sanabili di quelle (mentali) che originano dalla (sana) popolazione autoctona.

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