di Tania Careddu

Mangiare ogni giorno, tutti e bene, è stato il simbolo del benessere raggiunto. Ma oggi le diete riflettono sia accentuate disuguaglianze sia nuove esigenze e valori, raccontando uno spaccato dell’evoluzione della società italiana. Dagli anni sessanta fino ai novanta, la possibilità per tutti di mangiare nel quotidiano gli alimenti della dieta mediterranea rappresentò la fine della scarsità e l’età adulta del ceto medio. A questo si aggiunse la sicurezza alimentare, sia come certezza d’accesso ad adeguate quantità sia in termini di quella igienico-sanitaria dei cibi.

Poi, con l’avvento del nuovo millennio, prese quota una nuova centralità nel rapporto con l’alimentazione, ponendo particolare attenzione alla tracciabilità, alla qualità e alla sicurezza degli alimenti e senza trascurare gli impatti sociali, culturali e ambientali. Ma è con la crisi del 2007 che lo scenario cambia drasticamente.

Imponendo, secondo quanto si legge nel dossier Italiani a tavola: cosa sta cambiando, redatto dal Censis, una sobrietà dei consumi: prima ancora che dai valori e dagli stili di vita, infatti, le differenze a tavola dipendono dalla disponibilità economica delle famiglie e se l’Italia del ceto medio era quella di una dieta nutrizionalmente equilibrata per tutti, l’Italia delle disuguaglianze sociali presenta una differenziata capacità di accedere a una dieta completa in relazione alla propria condizione finanziaria.

Minacciando l’equilibrio nutrizionale, spesso messo in crisi, anche, dalle lusinghe delle neofalsità alimentari che demonizzano cibi base (carne compresa) in cambio di quelli non appartenenti al virtuoso sentiero nutrizionale mediterraneo. Prodotti artefatti, iperelaborati, ottenuti a seguito di complessi processi industriali proposti come alternative ai prodotti naturali con possibili conseguenze negative sulla salute e aumentando il rischio di sviluppare patologie, vedi diabete, obesità e colesterolo (oltreché di alimentare disuguaglianze nella sanità).

La presunta irresistibile attrattiva delle nuove tendenze delle diete meat free, sostituendo le proteine animali con quelle a più alto costo e a più basso contenuto di nutrienti o ricorrendo a integratori alimentari, fondate su sedicenti ragioni culturali, fa i conti, però, con la riduzione del potere d’acquisto che va a braccetto con una diminuzione delle possibilità di scelta alimentare da parte dei ceti meno abbienti a detrimento delle varietà, salubrità e qualità nutrizionali dei cibi consumati.

Ed esasperando sempre di più il cosiddetto Food Social Gap per cui, detto all’italiana, se la fettina per tutti è stata, per lungo tempo, simbolicamente l’emblema del ceto medio e benestante, la fettina solo per chi può permettersela è l’immagine pericolosa delle nuove fratture sociali.

A conferma che lo sbriciolamento del ceto medio è ormai arrivato anche sulle tavole degli italiani che sono il luogo di una profonda evidente iniquità.

di Fabrizio Casari

Abbiamo visto il peggio di cui siamo capaci nella manifestazione degli abitanti di Goro, paesello nella zona di Ferrara. Che si sono mobilitati, sono scesi in strada ed hanno alzato barricate per impedire che un piccolo gruppo di migranti, composto da 12 donne e 8 bambini, venissero allocati nel loro paesello. Guidati da Nicola Lodi, detto “Naomo”, leghista che definisce “diversamente bianchi” gli immigrati. Uomo dai gusti sopraffini, che indossa magliette eleganti con la scritta “a casa, a calci nel culo”. Insomma, un esponente della cultura della bassa.

Con la consueta premessa di non essere razzisti, che è la manifestazione verbale, quasi esantematica, proprio del razzismo, i prodi barricaderi contro gli ultimi hanno argomentato la loro protesta con una presunta inadeguatezza del paese ad accogliere chicchessia.

Nel caso specifico, persone in carne ed ossa, innocue ed innocenti di ogni colpa, divenuti nello spazio di ore erranti dall’orrore al nulla cosmico. I barricaderi, a favore di telecamere, hanno raccontato come non siano disponibili a soccorrere nessuno. Perché? Perché i loro sono “paesini puliti, non possono essere sporcati da nessuno”. In effetti, ci pensano loro a renderli sudici.

Giustamente la Diocesi ha definito l'adunanza “una notte ripugnante”. Perché non si tratta del dovere di adempiere alle disposizioni prefettizie in termini di accoglienza, non è questo il problema. Quando un’ordinanza lede i diritti di una comunità, ribellarsi è giusto, oltre che legittimo. Ma nel caso specifico riuscire a voltare le spalle a chi ha solo la disperazione come bagaglio, a una manciata di donne e bambini in cerca di rifugio, abbisogna di grande coraggio.

Quello che non si è avuto prima. Perché non si ricordano manifestazioni o lotte della popolazione di Goro per avere ciò di cui lamentano l’assenza: un centro sanitario in primo luogo, una stazione di carabinieri. Si sono invece affrettati a dichiarare che il pericolo veniva dal fatto che le donne, prima o poi, avrebbero portato i loro mariti. Allora, dicono, questi potrebbero insidiare la “civile convivenza” del paesello. Una sorta di riedizione ignorante del ratto delle Sabine? La paura di socializzare con qualcuno migliore di loro? E poi “la roba”, che è loro. Le tasse, che le pagano loro. Dimenticando magari i trasferimenti dello Stato centrale agli Enti Locali. Quelli li paghiamo tutti noi, anche per far esistere Goro e Gorino.

In quelle pseudo barricate cialtrone c’è soprattutto quello che non si dice. Nemmeno troppo malcelata, emerge una sorta di estetica del rifiuto. Oscena, perché riconosce il proprio potere solo nei confronti di chi non ne dispone. Perché decide di sfogare le sue frustrazioni verso chi soffre di ben altre privazioni. Cosìimputado agli ultimi alle colpe dei primi, sollevandosi loro, nel contempo, da ogni partecipazione e responsabilità.

Eppure siamo certi che, ove ce ne fosse bisogno, tutti noi correremmo in aiuto degli abitanti di questo paesello senza chiederci se possiamo o no. Per i migranti, fortunatamente, non c'è solo Goro. A Napoli si sono affrettati a scendere in piazza solo per apporre striscioni di benvenuto a chi sta peggio, molto peggio di loro. Lezioni meridionali di civiltà.

C’è ancora, da qualche parte, chi sa rendere grande una comunità, fornendo una lezione ad un grumo nauseabondo di abitanti egoisti e infinitamente più piccoli del loro piccolo paesello.

di Tania Careddu

Tra nuovo Codice degli appalti, proposta di legge in discussione alla commissione del Senato sulla ristorazione collettiva e la recente sentenza della Corte d’Appello di Torino sulla legittimità di portare il pranzo da casa, le mense scolastiche sono nell’occhio del ciclone. Qualità, sicurezza, igiene, trasparenza, costi, sprechi, rifiuti e rette, gli indicatori che stabiliscono l’efficienza o meno del servizio di ristorazione scolastica. Che, però, in una scuola su quattro non avviene in un locale mensa ma utilizzando aule normalmente adibite alle attività ordinarie.

Quando presente, comunque, non eccelle dal punto di vista della sicurezza: circa una scuola su tre ha l’impianto elettrico e antincendio solo parzialmente adeguati, oltre un terzo non è dotata di porte con apertura antipanico, una su dieci presenta segni di fatiscenza e nel 14 per cento si rileva la presenza di barriere architettoniche negli accessi.

Rumorose, male e scarsamente arredate, secondo i dati rilevati lo scorso giugno dai carabinieri dei Nas, riportati nel dossier "Mensa a scuola: costi, qualità e…nuove prospettive", redatto da CittadinanzAttiva. In una mensa su quattro sono state riscontrate gravi irregolarità e per trentasette è stata disposta la chiusura. Tra le principali violazioni penali, cinquantotto riguardano la frode in pubbliche forniture, ventitré il commercio di alimenti nocivi, dieci di quelli in cattivo stato di conservazione.

Tra quelle amministrative, seicentonovantacinque hanno come oggetto le carenze igienico-strutturali, ventuno l’assenza di tracciabilità nell’etichettatura degli alimenti e otto l’inottemperanza alla normativa sul divieto di fumo. Risultato: quattromila e duecentossessantaquattro chilogrammi di cibi sequestrati per pessimo stato di conservazione, alterati e privi di etichettatura e tracciabilità.

Però, se l’86 per cento degli alunni ignora (comprensibilmente) la provenienza dei prodotti, docenti e genitori apprezzano il rispetto della stagionalità e l’utilizzo di quelli biologici: il cibo è qualitativamente buono e sufficiente per due insegnanti su tre e oltre la metà dei bambini confessa di lasciare una parte dei cibi, non rinunciando quasi mai a gelato e pizza, pane e carne. Meno amati, verdure, minestre e pesce. Avanzi che, secondo un’indagine condotta dall’Osservatorio sulla ristorazione collettiva e nutrizione, nel 12,6 per cento di un pasto cucinato per ciascun alunno, si trasformano in spreco, e sono quantificabili in circa diciotto centesimi a pasto.

Considerato in poco più di quattro euro e cinquanta  il prezzo unitario medio del pasto per la ristorazione scolastica a carico delle aziende di ristorazione collettiva che lo erogano, ogni anno una famiglia tipo spende oltre settecento euro per pagare la mensa scolastica.

Con differenze tra Nord e Sud: Livorno e Ferrara sono al primo posto nella top ten delle città più care, Barletta è quella più economica, insieme a molti altri capoluoghi del meridione, eccezion fatta per Potenza e Tempio Pausania, che rientrano fra le dieci città più costose.

Oltre che un’opportunità preziosa per garantire un pasto corretto ed equilibrato, tralasciando la presenza negli istituti di distributori automatici di bevande e snack tutt’altro che salutari, la mensa rappresenta pure un’importante occasione di socializzazione, essendo un’esperienza positiva per la stragrande maggioranza degli studenti che possono “mangiare con calma, fare una pausa, disporre di un ambiente piacevole e di un menu vario”. Non gliene vogliano le mamme italiane.

di Tania Careddu

I dati più recenti diffusi dall’Istat, dicono che l’economia sommersa, insieme alle attività illegali, vale duecentoundici miliardi di euro, con un’incidenza sul prodotto interno lordo pari al 13 per cento ma fornendo apporti molto limitati alla dinamica complessiva. La rilevazione si riferisce al 2014. Con un contributo particolarmente elevato, quasi del 40 per cento, nel settore dei servizi, nel commercio, nei trasporti, nella ristorazione e nelle costruzioni; in quei settori, cioè, la cui produzione è rivolta anche ai consumatori ed è certamente più limitato negli ambiti che hanno le imprese come mercato di riferimento.

Imputabile essenzialmente all’utilizzo di occupazione non regolare, dinamica strutturale del mercato del lavoro italiano. Vuoi per l’andamento dell’economia, vuoi per gli interventi normativi volti a regolamentare sia il mercato sia l’attività degli stranieri non residenti, l’economia non osservata ufficialmente conta tre milioni e seicentosessantasette mila lavoratori in nero, con un ritorno alle cifre pre-crisi, soprattutto per l’aumento del lavoro dipendente. “Un vero e proprio esercito - sostiene il coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA, Paolo Zabeo - che non paga né tasse né contributi. E’ evidente che chi pratica queste attività irregolari fa concorrenza sleale nei confronti degli operatori economici che operano alla luce del sole e non possono o non vogliono evadere”.

Una crescita generalizzata che non ha risparmiato nessun settore, anche se, a esser generosi, l’unico lieve calo rispetto agli anni precedenti è visibile nell’agricoltura: in progressivo aumento, dunque, nell’industria, nelle costruzioni e nel commercio, l’economia non osservata è eterogenea nel comparto dei servizi. Il quale comprende, però, sia le attività della Pubblica Amministrazione che quelle private e delle famiglie (dove gli irregolari sono più diffusi).

“Come dimostrano i dati presentati dall’Istat - aggiunge Zabeo - con la crisi economica, l’economia sommersa ha subito un forte incremento. In questi ultimi anni, molti pensionati al minimo e chi ha perso il lavoro non hanno avuto alternative: per mandare avanti la famiglia hanno dovuto ricorrere a piccoli lavoretti per far quadrare i magri bilanci famigliari”.

Pesano nei conti nazionali (e sono in lieve aumento) anche le attività illegali, vedi il traffico di stupefacenti, i servizi di prostituzione e il contrabbando di tabacco, e si va alimentando anche l’indotto del settore dei trasporti e del magazzinaggio. Di tutta questa enorme mole di denaro esente da tassazione, nella composizione del PIL, cento miliardi sono entrati dall’evasione fiscale, altri settantacinque dall’impiego di lavoro irregolare (agevolato pure dai voucher) e il resto da affitti senza contratti, mance e paghe fuori busta.

Con l’atavica differenza, anche in questo contesto, fra il Nord e il Sud della Penisola. “Nel Mezzogiorno, per esempio - conclude Zabeo - possiamo affermare che il sommerso costituisce un vero e proprio ammortizzatore sociale. Sia chiaro, nessuno di noi vuole giustificare il lavoro nero, spesso legato a doppio filo con forme inaccettabili di sfruttamento, precarietà e mancanza di sicurezza nei luoghi di lavoro.

Tuttavia, quando queste forme di irregolarità non sono legate ad attività riconducibili alle organizzazioni criminali o alle fattispecie appena elencate, costituiscono, in questi momenti difficili, un paracadute per molti disoccupati o pensionati che non riescono ad arrivare alla fine del mese”. E di non osservato c’è la condizione reale in cui si trovano gli italiani. Questa si sommersa.

di Tania Careddu

E’ la seconda causa di mortalità al mondo per le minori fra i dieci e i diciotto anni. E dopo gli sconvolgimenti successivi alle Primavere arabe del 2011, e i conseguenti fenomeni migratori, la violenza sulle giovani migranti, sempre più presenti nel mondo ‘sviluppato’, è aumentata. Riducendo le bambine non solo a un target bellico ma a un vero e proprio campo di battaglia rappresentato dal loro stesso corpo.

“Prede di guerra”, non solo vengono rapite o arruolate con la forza da eserciti regolari e gruppi ribelli, e ridotte a schiave dei combattenti nei paesi in guerra, ma di fronte alla più grande crisi di rifugiati dalla seconda guerra mondiale a oggi, le ragazze, più di tutti, corrono il rischio di essere vittime di stupri e violenze, soprattutto quelle che viaggiano da sole.

Allettate da false promesse, finiscono nel giro della prostituzione, arrivano incinte sulle nostre coste e, prima di approdarvi, sono state spesso coinvolte nella pratica dei matrimoni forzati.

Sfruttamento delle piccole domestiche, matrimoni precoci e bullismo testimoniano una prevalenza del sesso femminile tra le vittime dei reati (anche in Italia). Circa undici milioni (nel mondo) svolgono lavori domestici, sette milioni in situazioni inaccettabili e quasi sei costretti a fare attività pericolose. Talvolta, nelle case in cui lavorano o nelle fabbriche subiscono percosse e abusi dai datori di lavoro.

Per milioni di loro, la violenza è parte della vita quotidiana: a opera dei genitori o dei docenti e dei coetanei nelle scuole. Viene esercitata per ottenere rispetto e disciplina: due bambine su tre (nel mondo) sono vittime, regolarmente, di punizioni corporali. E ogni dieci minuti (nel mondo) una ragazza muore a seguito di una violenza.

In Italia, secondo i dati del ministero della Giustizia, riportati nel dossier “Indifesa 2016”, redatto da Terres des Hommes, ottocentodiciassette minori di sesso maschile sono stati condannati per violenza sessuale ai danni delle loro coetanee, di cui duecentosessantasette sono stati dichiarati responsabili di sfruttamento della pornografia, che ha subito una crescita esponenziale pari a 543 per cento, e prostituzione minorile. Un incremento a tre cifre - più del 148 per cento - anche quello registrato degli atti sessuali con minori di quattordici anni.

Sebbene non manchi “la ricerca di un alibi” alla violenza, fortunatamente fra gli adolescenti, comincia a farsi strada la consapevolezza che la violenza di genere non sia tollerabile, nemmeno all’interno delle mura domestiche. Dentro (e fuori) le quali permane, però, il pregiudizio rispetto alla condizione socioeconomica (di marginalità) dell’abusante, che denota una severa distorsione informativa e della realtà.

Una deformazione che interessa anche il rapporto con quella virtuale, a tal punto che il 47,2 per cento delle ragazze dichiara che “quello che accade su internet” non avrebbe un nesso con la vita reale. Ivi comprese, quindi, le conseguenze dei propri comportamenti online, quali la condivisione di foto o video a sfondo sessuale o la circolazione di questi senza il proprio consenso o su cellulari di altri.

Non sembrerebbe, considerati i recenti fatti di cronaca che testimoniano reazioni estreme. A conferma del fatto che “vedere le proprie immagini a sfondo sessuale” circolare in rete è “grave quanto subire una violenza fisica”. Ed è tutt’altro che virtuale.


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