di Tania Careddu

Non lavorano, non studiano, non fanno formazione e sono, anche, vittime, di una condizione di svantaggio sociale. Oltre a essere NEET, quindi, provengono, pure, da contesti famigliari di disagio sociale e povertà economica. Sui tre milioni e quattrocentoventi mila giovani fuori dal circuito formativo e lavorativo, mille e settecentoquarantanove (stimati, solo durante un trimestre campione, dalla ricerca “Nel paese dei NEET”, effettuata dalla Caritas) provengono da nuclei famigliari particolarmente vulnerabili.

Principalmente stranieri, maschi, single, che vivono con i propri genitori o soli, hanno un livello scolastico molto basso: quasi la metà ha la licenza media inferiore e quasi il 9 per cento è addirittura analfabeta, soprattutto fra gli italiani, il 60 per cento dei quali ha gravi problemi legati alla sfera occupazionale e di povertà materiale.

Per quelli di origine straniera, invece, la condizione di criticità, è legata sia a confusione e insicurezza, personale e familiare, ma anche a fattori relativi al vissuto migratorio: la conclusione affrettata degli studi e il conseguente precoce inserimento nel mondo del lavoro, infatti, spesso sono imposti da motivi economici e quasi mai da un atteggiamento pregiudizialmente negativo dei genitori riguardo al valore della scuola.

Privi di ambizioni professionali e di chiare progettualità lavorative, i giovani NEET in condizioni di povertà, hanno alle spalle percorsi formativi frammentati e incompleti, complice una “debole genitorialità”: al momento delle grandi scelte formative, infatti, a fronte del grande disorientamento tipico dell’età adolescenziale, i genitori non sono stati in grado di guidare i propri figli nella giusta direzione, trasmettendo, anche, un’immagine negativa del valore dello studio, a favore di un inserimento prematuro nel mondo lavorativo. Dal canto suo, l’istituzione scolastica ha fatto la parte della grande assente, fallendo nell’interazione con il sistema famiglia.

E loro, i giovani NEET, da soli, fanno fatica a mantenere un rapporto con la realtà: derealizzandone la visione, rinviano ogni forma di responsabilità a un mittente astratto. Completamente rassegnati, logorati dall’immobilità, vivono fra un vuoto privo di immagini e un immaginario stereotipato, costruito attorno a famiglia, figli e posto fisso.

Un’inattività che sembrerebbe determinata dall’insuccesso della carriera scolastica e dalla frammentarietà di quella lavorativa, inadeguata a costruire le solide basi di un’esperienza professionale. Portatori di un vissuto, il più delle volte, frutto di un’ereditarietà famigliare che li ha cronicizzati, piuttosto, a vere e proprie carriere di disagio, incastrati in una condizione di marginalizzazione sociale che rischia, non solo, di compromettere il loro inserimento nel mondo adulto ma, pure, il loro benessere.

Condannati a una sorta di “paralisi biografica”, in condizioni di vite improntate sulla scarsità di rapporti, assenza di partecipazione sociale e politica e rischio di devianza. In una situazione di disoccupazione che, alla lunga, genera dipendenza: dalla famiglia d’origine (che non c’è), dall’assistenza e dalla comunità, strutturando una specie di “individualismo negativo”, mitigato solo dal sopravvivere delle reti, seppure indebolite, di solidarietà collettiva, tipiche della prima modernità.

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