di Tania Careddu

“E’ garantita a tutti i detenuti e internati la piena libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne i riti”, dice l’articolo ventisei della legge 354 del 1975, garantendo la scelta di avvalersi dell’assistenza spirituale in un’ottica di pluralismo religioso.

Nell’ordinamento carcerario l’attività dei cappellani cattolici è assicurata da norme specifiche che ne istituzionalizzano la figura anche per le altre confessioni. Che sono tante, fatta salva la distinzione tra quelle che negli anni hanno raggiunto un’intesa con lo Stato italiano (culti ammessi, ndr) e quelle che, di volta in volta, devono chiedere l’intervento di un proprio ministro nella casa di reclusione. Ma è stato comunque riconosciuto il valore positivo che il credo, le pratiche e i legami religiosi possono avere nei percorsi riabilitativi.

Posto che i cambiamenti demografici in atto in Italia influenzano inevitabilmente, in modo diretto, la composizione della popolazione detenuta, divenuta complessa e composita, ciò non può non interessare l’aspetto religioso.

Se nei primi anni novanta gli stranieri rappresentavano poco più del 15 per cento dei carcerati, oggi raggiungono il 35 per cento del totale. Rappresentato per lo più dalla componente maghrebina - marocchini, tunisini, algerini - e considerando anche i reclusi di provenienza asiatica e dall’Africa nera, si può stimare che più di un detenuto su tre sia di religione musulmana.

Accanto ai cristiani di diverse confessioni, indù, sikh e buddisti, il credo islamico è, in percentuale, quello prevalente nelle carceri della Penisola. Oltre che per la sua significativa presenza, anche per la sua sostanzialità: l’elemento che la distingue rispetto alle altre fedi è rintracciabile nelle sue specifiche caratteristiche di proselitismo e radicalismo.

E’ noto che il carcere costituisca un contesto che favorisce, di per sé, processi di radicalizzazione di fronte a una situazione di sopravvivenza; qui l’integralismo religioso offre un forte senso di appartenenza, rappresentando un meccanismo di difesa. A ciò si aggiunga che il rapporto tra la privazione della libertà e l’essere musulmano in un quadro contraddistinto da rigidità burocratiche e vincoli vari, nonché da carenza di risorse, risulta durissimo per loro (e per tutti gli stranieri, complici le difficoltà linguistiche e l’esclusione sociale e culturale di partenza).

Tanto più che, a differenza di altri paesi europei, vedi Francia e Inghilterra, secondo quanto si legge nel papier “L’Islam nelle carceri italiane”, redatto da ISMU, l’Islam vissuto in carcere non è sovrapponibile a quello del resto della società italiana. L’esperienza della reclusione, la gravità del reato commesso, il senso di colpa, il fallimento del progetto migratorio e il vissuto criminale possono sostenere un (ri)avvicinamento alla fede che può ridare un senso alla loro esistenza.

Oltreché un ordine, perché scandisce i ritmi del calendario e della giornata, oltre a collocare i comportamenti in una sorta di griglia simbolica, innescando così un beneficio psicologico e un rafforzamento identitario. Che passa anche attraverso il diritto (riconosciuto) del detenuto a godere di una dieta rispettosa delle prescrizioni della propria fede religiosa.

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