di Tania Careddu

Raddoppiata in meno di dieci anni, la povertà si è allargata a macchia d’olio, tanto che oggi otto milioni e trecentomila persone residenti in Italia fanno i conti con questa condizione e quattro milioni e seicentomila con un tenore di vita tale da non potersi permettere le spese essenziali.

E, dopo otto anni di crisi economica, non è solo uno stato di pochi sfortunati. Perché il dato più reale in Italia dice che, sempre più spesso, il lavoro non basta a mettere al riparo da ristrettezze e indigenza. Cosicché non è sufficiente essere disoccupati per essere poveri: attualmente, una famiglia operaia (che conta su un solo stipendio) su dieci non può aspirare a un livello di vita minimamente accettabile e anche la bassa intensità di lavoro traducibile nella crescita di contratti da poche ore a settimana ha fatto aumentare il numero di lavoratori poveri.

Ciò accanto a particolarità tutte nostrane, quali il più alto tasso di giovani che non studiano e non lavorano e la più bassa percentuale di donne che continuano a lavorare dopo la maternità.

Un connubio, quello fra crisi economica e carenza occupazionale, che ha ridotto al lastrico le famiglie (sei su cento vivono un disagio economico che impedisce la soddisfazioni di bisogni di sussistenza) giovani, quelle numerose (una su cinque vive in condizioni di povertà assoluta) e quelle con bambini (sotto i sei anni, sono raddoppiati coloro che sono in una condizione di grave deprivazione materiale).

L’aumento della povertà non è cosa dei giorni nostri: resiste al tempo e si conferma una tendenza assodata da circa un trentennio. Nel 2008, l’Ocse dichiarava che “l’impatto di più ampie disparità di reddito salariale sulla disuguaglianza del reddito è stato attenuato da un più alto tasso di occupazione”, la crescita occupazionale ne attutiva le conseguenze sul corpo sociale.

Ma oggi, la distruzione dei posti di lavoro ha eliminato anche quell’ultimo freno all’espansione della povertà, che si è diffusa con maggiore facilità tra chi era collocato in posizione già fragile sul mercato del lavoro, giovani in primis. Quelli con figli in particolare, stritolati tra le spire di un circolo vizioso in cui povertà materiale e difficoltà di accesso all’istruzione si alimentano vicendevolmente.

Tutta italiana poi - almeno entro i confini europei - la povertà femminile: è più che raddoppiato, in un decennio - secondo quanto si legge sul minidossier “Poveri noi”, redatto da Openpolis, in collaborazione con ActionAid - il numero di donne in povertà assoluta, pesando su di loro l’annosa problematica di conciliare lavoro e famiglia, la carenza di politiche per la promozione dell’impiego femminile, la differenza salariale tra i sessi, le barriere culturali che le relegano (esclusivamente) al lavoro di cura e la scarsa applicazione del diritto alla maternità.

Per intenderci, in Danimarca lavora l’81,5 per cento delle donne con tre figli, in Italia il 41,9 per cento di quelle con un figlio. I conti (non) tornano.

di Tania Careddu

L’inganno è rappresentato dalla prospettiva di condizioni di lavoro o di esercizio di attività del tutto diverse da quelle in cui si troveranno poi, realmente, a essere coinvolte, le vittime di tratta (migranti) e quasi sempre si accompagna alla privazione dei loro documenti identificativi. Oltre ai più noti casi di sfruttamento, ai quali si aggiunge quello multiplo - donne costrette a prostituirsi e a spacciare o uomini obbligati a vendere merce al dettaglio e a elemosinare - appaiono, negli ultimi anni, nuove forme di tratta finalizzate all’accattonaggio forzato e alle economie criminali.

Adulti e bambini costretti a spacciare sostanze stupefacenti, borseggiare, rubare nelle case, vendere prodotti, per lo più contraffatti, per strada, verosimilmente a favorire, a loro volta, attività di immigrazione clandestina nonché permettere l’ottenimento di benefici economici collegati alle politiche di welfare. Talvolta con una sorta di continnuum tra le varie attività criminali forzate svolte, il fenomeno è multiforme e dai confini non facilmente distinguibili.

Sono cambiate anche le modalità (mimetiche) con cui viene gestito l’asservimento delle vittime: oltre all’ambiguità che, sempre più spesso, avvolge l’operato dei soggetti che, muovendosi al confine tra solidarietà e profitto personale, offrono accoglienza al momento dell’arrivo, per la complessità degli scenari (dell’immigrazione) e degli ambiti di sfruttamento, l’approccio è sempre più persuasivo e sempre meno esplicitamente violento.

A gestire la tratta e lo sfruttamento ad altre attività illecite sono, sempre più di frequente, gruppi criminali fortemente radicati nei paesi di destinazione dei migranti, con molti collegamenti transnazionali e spiccate capacità di abbinare la tratta ad altre faccende illecite e anche lecite, vedi il riciclaggio di denaro sporco attraverso attività commerciali regolari.

E le vittime, sempre e da sempre, costituiscono il punto debole del circuito criminale. Generalmente giovani stranieri non organici alle organizzazioni criminali, sono a maggior rischio di sfruttamento perché alcuni fattori - vedi il caso di giovani portatori di handicap provenienti dalla Bulgaria o dalla Romania oppure di giovani nigeriani che hanno contratto un debito (per arrivare in Italia) con trafficanti italiani - inficiano con la loro capacità di autodeterminazione.

L’indigenza, le difficili situazioni familiari, le scarse competenze linguistiche, la bassa scolarizzazione, la mancanza di esperienza professionale, l’attitudine alla vita in strada, oltre alle enormi difficoltà di ingresso legale nel Belpaese, sono tutti elementi che innalzano il rischio di finire in situazioni di coinvolgimento in attività illegali. Senza averne la minima percezione e nemmeno dello sfruttamento subìto. Che diventa esponenziale perché fa affidamento sull’incapacità e l’impossibilità di reagire.

Secondo il rapporto Minori sfruttati e vittime di tratta tra vulnerabilità e illegalità, redatto in conclusione di un progetto europeo, il 54 per cento delle vittime è stato reclutato con false promesse, il 41 per cento ha ricevuto un’offerta di lavoro, il 3 per cento è stato venduto - la cifra pattuita viene stabilita sulla base di canoni quali la bellezza o la capacità di commettere furti - e l’1 per cento è stato rapito.

di Tania Careddu

Nel mondo, settecentoquarantotto milioni di esseri umani, uno su otto, non hanno accesso all’acqua potabile e due miliardi e mezzo, un terzo della popolazione globale, vivono senza servizi igienico-sanitari di base. Con la seguente drammatica conseguenza: circa metà delle malattie che colpiscono la popolazione dei paesi più vulnerabili è dovuta proprio all’inadeguato accesso all’acqua.

Due le cause: il ripetersi sempre più frequente di catastrofi naturali e l’aumento esponenziale di conflitti. Sempre più legati all’impatto dei cambiamenti climatici, i disastri naturali, triplicati in trent’anni, per gli effetti a opera dell’uomo (meno vulnerabile) del riscaldamento globale, hanno generato inondazioni ma siccità in molte regioni povere del pianeta

E in quelle già fragili e politicamente instabili, l’escalation di conflitti coinvolge un terzo della popolazione più indigente, vittima di attacchi terroristici, della distruzione di infrastrutture di vitale importanza - principalmente idriche come pozzi sia a uso pubblico sia famigliare - e, perciò, priva di ogni accesso ai servizi di base.

Oltre alle crisi climatiche, però, sono soprattutto le guerre a determinare la sete. Secondo quanto si legge nel briefing #Savinglives: emergenza acqua, redatto da Oxfam, è il bacino del lago Ciad, dove oltre sei milioni di persone sono senza acqua né cibo a subire gli effetti più devastanti. In Iraq dieci milioni di individui, metà dei quali bambini, hanno un disperato bisogno di aiuti umanitari per ottenere la fornitura di acqua potabile e servizi igienici.

La Siria, paese al collasso con settemila esseri umani in fuga ogni giorno ha Aleppo priva di acqua e fortemente carente di strutture sanitarie. in Yemen vivono ventuno milioni di persone, di cui quattordici milioni in cerca di acqua, colpite da una guerra che, facendo cadere sotto i bombardamenti sauditi numerose infrastrutture idriche e fognarie, ha favorito l’impennata dei prezzi del carburante necessario ad alimentare i generatori che pompano acqua nei villaggi e per le coltivazioni.

In Sudan, più di quattro milioni e mezzo di uomini e donne sono afflitti dalla siccità a causa della riduzione delle piogge provocata dal ciclone El Nino che ha colpito duramente i raccolti e la disponibilità di fonti idriche sicure, e la popolazione ha accesso a soli tre litri di acqua al giorno pro capite, meno di un terzo della quantità minima raccomandata dagli standard internazionali. Ad Haiti, oltre ottocentomila persone sono rimaste senza acqua, in seguito alla violenza dell’uragano Matthew e in Sud Sudan, più di cinque milioni soffrono la scarsità di acqua in seguito alla crisi etnica e politica che ha ferito il paese nel 2013.

La scarsità d’acqua origina un circolo vizioso: una drastica riduzione di raccolti genera, per mancanza di foraggio, il deperimento e la morte del bestiame, fondamentale per il sostentamento di tutte queste comunità e inoltre le carcasse degli animali finiscono a inquinare le pochi fonti di acqua rimaste. Senza contare i rischi per la salute: si moltiplicano i casi di colera - solo a Haiti se ne sospettano duemila casi - e altre malattie infettive come il dengue. Principali vittime sono i bambini, tanto che ormai, ogni anno, ne muoiono ottocento mila.

Di questo passo, se non verranno messe a punto azioni volte a garantire la fornitura dell’acqua in un contesto globale efficace di regolamentazione politica, economica e giuridica, il suo possesso provocherà conflitti territoriali. E mondiali.

di Tania Careddu

Nel 2015, l’Italia ha destinato alla cooperazione allo sviluppo quasi quattro miliardi di euro per finanziare, appunto, iniziative volte a sviluppare il potenziale delle risorse umane e migliorare le condizioni di vita dei paesi beneficiari. La legge italiana la definisce come “parte integrante e qualificante della politica estera” e regola i trasferimenti di risorse alle nazioni del mondo che non hanno raggiunto determinati standard economici, sociali e di sviluppo.

Ottenendo, per tutto ciò, il dodicesimo posto fra i quindici principali donatori mondiali e con l’obiettivo di destinare lo 0,7 per cento annuo del proprio reddito nazionale lordo entro il 2030, secondo gli obiettivi ufficiali stabiliti dall’OCSE e riportati nel minidossier Cooperazione Italia, redatto da Openpolis, in collaborazione con Oxfam.

E anche se la gestione del budget totale risulta ancora troppo frammentata tra i vari ministeri, i fondi sono diretti a intervenire su: istruzione, salute, approvvigionamento idrico e servizi igienico-sanitari. Comprendono la messa a punto di programmi per la pubblica amministrazione e la società civile, per le infrastrutture economiche coinvolgendo settori quali l’energia, le banche e i servizi finanziari e per il business, i trasporti.

Nel documento di programmazione datato 2015-2017 sono state fissate (anche) le attività a cui dare una precedenza negli investimenti. Spiccano l’agricoltura, l’istruzione e la salute. E, però, verificando la distribuzione dei fondi stanziati nel 2015 emerge sia che a queste attività (prioritarie) è andato, in totale, il 19,30 per cento delle risorse, rendendo il livello di frammentazione degli aiuti allo sviluppo ancora troppo elevato sia che le voci, che non hanno nessun rilievo nella programmazione ufficiale, assorbono parti consistenti degli stanziamenti.

Compare poi la voce ‘rifugiati nel paese donatore’, che si riferisce a risorse che non solo non arrivano nei paesi da aiutare dal punto di vista economico (potrebbero contribuire a intervenire sulle cause strutturali all’origine dei flussi migratori)  ma anzi, non escono dallo Stato (Italia) che mette a disposizione i fondi, sottraendo così risorse ad attività mirate alla crescita di paesi ancora molto svantaggiati.

Pur riconoscendo l’importante ruolo che il Belpaese svolge nel rispondere ai bisogni delle persone in arrivo, questa pratica di contabilizzazione rischia di deviare ingenti somme di denaro destinate alla lotta alla povertà nei paesi più indigenti. Insomma, i conti non tornano: quello che è un aspetto di politica interna viene addebitato all’esterno e la quantità di risorse che rimane nei confini nazionali, negli ultimi anni, arriva a toccare quote sempre più consistenti, fino a sfiorare i novecentosessanta milioni nel 2015.

E, così facendo, l’Italia si aggiudica il quinto posto nella rosa dei paesi OCSE, per spesa, in termini assoluti, destinata alla gestione dei rifugiati. Mancano, oltretutto, dettagli nella rendicontazione cosicché è impossibile rintracciare particolari sul tipo di progetti (eventualmente) realizzati o informazioni sulle amministrazioni che li finanziano. Bell’affare.

di Tania Careddu

Una pena umana, in grado di rieducare. A questo, tra l’altro sancito dal dettato costituzionale, dovrebbe puntare il sistema penitenziario italiano. Che, invece, è ancora legato a una vecchia, dell’epoca fascista, concezione del carcere. Punitivo e marginalizzante. Rendere inoffensivi i criminali, certo, ma reinserirli nella società è meno scontato. Con il risultato, oltre che affatto etico, di produrre recidivi dal costo sociale ed economico - mantenimento di forza lavoro inattiva e spese giudiziarie - non trascurabile.

E se un detenuto, scontata la pena e tornato in libertà, ricomincia a delinquere, come spesso succede a chi passa direttamente dal carcere alla vita civile, significa che il sistema penitenziario è incapace. Oltre che di contenere - vedi il sovraffollamento e i suicidi - pure di rieducare.

Prova ne sia il dato che l’Italia resti l’unico grande paese europeo dove oltre la metà dei condannati sconta la pena in carcere senza valutare il ricorso alle pene alternative. Le quali, invece, imponendo di lavorare per ripagare il danno inflitto, facilitano il (graduale) reinserimento nella società e contengono le recidive tanto che, secondo vecchi dati, il tasso di queste era pari al 68 per cento tra i detenuti contro il 19 per cento di chi aveva scontato la pena nei servizi sociali.

Però i detenuti che hanno un’occupazione stabile (lavoranti, in gergo penitenziario, maggiormente occupati nelle produzioni e riparazioni di capi di abbigliamento, nelle falegnamerie, nei panifici e nei call center) sono una minoranza e sono, oltretutto, diminuiti tra i primi anni novanta e il 2012 – annus horribilis, in cui meno di un detenuto su cinque svolgeva un lavoro – e solo quattro su cento frequentano corsi di formazione professionale, la cui partecipazione è, anch’essa, scesa ulteriormente dagli inizi degli anni novanta, dimezzandosi.

Il budget, secondo quanto riportato nel minidossier Dentro o fuori, redatto da Openpolis, destinato alle misure alternative è pari a circa il 5 per cento delle risorse dell’amministrazione penitenziaria anche se, rispetto al 2011, sono aumentati del 29 per cento l’affidamento in prova ai servizi sociali, fuori dagli istituti di pena, del 20 per cento la detenzione domiciliare e aumentano, in misura consistente, i condannati ai lavori di pubblica utilità.

Misura che, dal 2014, avendo il legislatore italiano mutuato dai sistemi penali occidentali, l’istituto della messa alla prova, viene utilizzata solo per le violazioni del codice della strada, nel 94 per cento dei casi, o per reati minori e non come reale alternativa al carcere per altri reati.

Non è da escludere che il nostro attempato sistema dimostri più resistenze a formare (e a riformarsi) per una caratteristica strutturale: il personale non ha una formazione eterogenea e i suoi dipendenti sono in massima parte agenti di custodia; carente, quindi, la presenza di insegnanti, educatori, mediatori culturali e psicologi.

Confermato il persistente orientamento del sistema penitenziario italiano: anche nel 2016, isolare i cinquantaquattromila detenuti delle centonovantatre carceri nostrane. Che efferato delitto.


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