di Tania Careddu

C’è un inequivocabile rapporto tra lo sviluppo sostenibile e l’eliminazione radicale della disuguaglianza fra i bambini. Talmente tanto chiaro che, quando duecento leader mondiali si sono riuniti, nel settembre 2015, per mettere nero su bianco un piano quindicennale finalizzato a raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG), non hanno potuto fare a meno di includere traguardi specifici per porre fine alle piaghe che minano l’uguaglianza: il lavoro minorile, la schiavitù, il traffico di esseri umani e la violenza contro i minori. Così da dedurre che le società sostenibili possono essere tali solo quando i bambini sono al sicuro, sani e istruiti. Equamente.

Ma la maggior parte dei dati recenti, riportati nel rapporto "La condizione dell’infanzia nel mondo 2016-La giusta opportunità per ogni bambino", redatto da Unicef, dimostra che nel mondo ci sono ancora centocinquanta milioni di bambini lavoratori, cinquantanove milioni di loro, in età da istruzione primaria, che non frequentano la scuola; quindici milioni di ragazzine sotto i diciotto anni che, ogni anno, sono costrette a sposarsi; milioni di bambini che convivono con una disabilità che ne pregiudica l’inclusione; trentasette milioni di minori, che vivono in zone colpite da gravi crisi, esclusi dall’istruzione e quasi due terzi dei bambini che vivono in luoghi colpiti da disastri climatici, senza una copertura vaccinale.

Per lavorare nelle piantagioni di cacao in Costa d’Avorio, nelle miniere di mica e nelle fornaci di mattoni in India, vendere fiori in Colombia, cucire palloni di calcio in Pakistan. Ignorando che un aumento del lavoro minorile, oltre ad annullare totalmente i diritti fondamentali di ogni bambino, determina maggiore disoccupazione tanto che, oggigiorno, per i centocinquanta milioni di minori tra i cinque e i quattordici anni che svolgono attività lavorative da grandi, ci sono duecento milioni di adulti disoccupati che, va da sé, non possono garantire una vita dignitosa ai loro figli.

Non solo. Studi economici recenti dimostrano che ogni dollaro investito nell’istruzione di qualità renderà quindici volte la somma investita nel giro di due decenni; che, in media, ogni anno di scuola in più per ogni bambino si traduce, da adulto, in un incremento di circa il 10 per cento della retribuzione e, per ogni anno di scuola in più completato dai suoi giovani, il tasso di povertà di quel paese si riduce del 9 per cento.

Di più: una ricerca risalente allo scorso anno, effettuata dalla Banca Mondiale, ha rivelato che il semplice fatto di prevenire la denutrizione nella prima infanzia getta le basi, nella vita adulta, per un aumento della retribuzione oraria pari ad almeno il 20 per cento, offrendo, la prima infanzia, se protetta dalla frequente esposizione a eventi cronicamente stressanti come la privazione alimentare e la violenza, la basilare essenziale opportunità di spezzare i cicli intergenerazionali di disuguaglianza. Che “mettono in pericolo intere società”. Parola del direttore dell’Unicef, Anthony Lake.

di Tania Careddu

Esisteva già prima dell’inizio della guerra ma con l’esplodere del conflitto, lo sfruttamento lavorativo dei bambini siriani ha assunto dimensioni preoccupanti. Finiti i risparmi delle famiglie, ridotti i servizi per i rifugiati e tagliati gli aiuti delle Nazioni Unite a causa della mancanza di fondi, i bambini sono costretti a lavorare. Poi, la difficoltà di inserirsi nelle scuole dei paesi ospitanti, insieme alle restrizioni poste dalla legge degli stessi paesi al lavoro legale degli adulti, hanno fatto il resto.

Dopo cinque anni di guerra, sei milioni di minorenni necessitano di assistenza umanitaria, più di due milioni vivono in zone difficili o sotto assedio e circa tre milioni non vanno a scuola. Così, un numero sempre più crescente di loro è obbligato a lavorare per sopravvivere e, addirittura, viene avvicinato da gruppi armati per essere assoldato come soldati, a un’età sempre più giovane e senza risparmiare le bambine, soggette, anche, specialmente in Iraq, a contrarre matrimoni temporanei consistenti nell’offerta, alla famiglia della giovane, di una dote da parte del marito che la vincola a rimanere con lui fino al termine stabilito.

Lavorano, anche per sedici ore al giorno, in agricoltura, nelle strade a vendere mercanzia, lavano le macchine, lavorano metalli e legno, raccolgono la spazzatura, lavorano come sguatteri nelle case, portano l’acqua. Cercano cibo tra i bidoni della spazzatura, chiedono l’elemosina e “raccolgono le parti del corpo di chi è stato ucciso per cremarlo”.

Scenario di riferimento, i campi profughi e le città dove si è rifugiata la maggioranza dei siriani in fuga: i paesi limitrofi, Giordania, Libano, Turchia e Kurdistan, ospitano più del 60 per cento dei siriani scappati e, a partire dal 2005, la Grecia e i Balcani sono diventati la rotta preferita dai siriani e, un anno più tardi, la chiusura della frontiera macedone con la Grecia ha limitato la rapidità del passaggio della popolazione della Siria, prospettando la possibilità di creare le condizioni per una maggiore vulnerabilità delle famiglie e dei loro bambini.

Con l’aumentare dell’incertezza sull’opportunità di raggiungere la destinazione finale del viaggio (generalmente l’Europa del Nord) e in una zona in cui è marcata la presenza di trafficanti e reti criminali, rimane alto il rischio che i bambini rifugiati possano diventare un interessante esca per lo sfruttamento lavorativo in settori illegali.

In un contesto siffatto, il lavoro dei minori diventa una risorsa fondamentale tanto da trasformarsi, per loro, in una condizione di ordinaria normalità: “qualunque tipo (di lavoro, ndr) basta che non sia pericoloso, non comprometta la reputazione o vada contro la religione. Vendere per strada – si legge nel rapporto Ci sacrifichiamo per sopravvivere. Lavoro minorile tra i bambini vittime del conflitto siriano, redatto da Terres des hommes – può dare dei problemi, si può essere scambiati per mendicanti. Inoltre, non bisogna entrare in commerci illegali, come vendere alcolici, prostituirsi o rubare, perché è contro l’Islam”.

Che rende inappropriate, per le bambine intervistate, tutte le situazioni lavorative in cui c’è promiscuità con il sesso opposto e anche perché “è responsabilità degli adulti e dei maschi lavorare, non delle femmine, specialmente se sono bambine”. Anche se “noi abbiamo più opportunità di lavoro ed è più difficile che la polizia ci venga a cercare, come fa con i maschi e con gli adulti”. Per tutti, il lavoro minorile “deve essere calibrato sulle loro capacità fisiche, non deve compromettere la loro salute e sicurezza, non deve essere pericoloso o difficile”. E non deve ostacolare la frequenza scolastica.

Ma tant’è. La drammatica e perdurante mancanza di risorse economiche e di accesso gratuito ai servizi di base sottraggono i bambini dalla possibilità di aspirare a impieghi specializzati. Da grandi.

di Tania Careddu

Il 37 per cento in più rispetto all’anno precedente. Cioè, centosettantotto mila cittadini stranieri, oltre trentacinque ogni mille residenti, hanno acquisito la cittadinanza italiana. Per matrimonio, naturalizzazione, trasmissione automatica al minore convivente da parte del genitore straniero divenuto cittadino italiano o per ius sanguinis, molti sono coloro che appartengono a comunità di antico insediamento, albanesi e marocchini in testa, e tantissimi i minorenni, il 37 per cento dei nuovi italiani.

Più di un quarto del totale, pari a quarantacinque mila, sono state le acquisizioni in Lombardia seguita dal Veneto che ne ha contate quasi ventiseimila e dall’Emilia Romagna con circa ventitremila. Scarseggiano al Sud, con Basilicata e Sardegna in testa, e risultano poche anche in Molise e Valle d’Aosta. Sono aumentate le acquisizioni di indiani, bengalesi, pakistani e tunisini mentre le domande per residenza, nel 2015, sono state presentate soprattutto da comunità a prevalenza femminile, tipo Perù, Filippine, Moldavia, Ecuador, Polonia e Ucraina, dove la maggior parte delle richiedenti risulta occupata nei servizi alla famiglia.

E nell’anno in cui l’Italia si è trovata in piena crisi rifugiati con un picco di arrivi via mare di centocinquantaquattromila migranti sbarcati, sono stati più numerosi i cittadini stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana, e quindi un’elevata stabilizzazione, di quelli che hanno raggiunto le nostre coste in modo irregolare.

E il numero è risultato, peraltro, superiore rispetto alle più recenti previsioni con un trend in aumento: dai centomila nel 2013 ai centotrentamila nel 2014, sino al picco attuale. In controtendenza rispetto al resto d’Europa: secondo gli ultimi dati disponibili Eurostat, del 2014, sono ottocentonovantamila i cittadini stranieri che hanno ottenuto la cittadinanza in uno degli Stati membri, il 9 per cento in meno rispetto all’anno precedente. Una flessione più marcata nel Regno Unito, in Spagna, in Belgio, in Grecia e in Svezia. Dietro il boom italiano, fatto di integrazione e stabilità, la Francia e i Paesi Bassi.

In generale, gli stranieri residenti in Italia sono circa cinque milioni: duecento nazionalità che nel 50 per cento dei casi appartengono a un paese europeo, nel 30 per cento a un paese dell’Unione e nel restante a stati dell’Africa occidentale e settentrionale o asiatici.

Hanno modelli insediativi molto differenti fra loro: a parte le comunità di antico insediamento, vedi quella filippina equilibrata fra i generi, e quella cinese numericamente importante e strutturata in famiglie, per alcune si parla di vere e proprie ‘specializzazioni produttive’ e per altre, è la storia della migrazione ucraina, si osserva una composizione costituita per l’80 per cento da ‘donne breadwinner’ in età adulta, oltre i cinquant’anni.

Una condizione che non interessa solo le straniere. Tutto il mondo è (il proprio) Paese.


di Tania Careddu

L’agricoltura é uno dei settori industriali con il più alto rischio di essere danneggiato dal cambiamento climatico e, però, è esso stesso responsabile di generare un’enorme quantità di emissioni di gas serra. Provenienti dalla produzione agricola intensiva, una delle principali cause del mutamento del clima, le emissioni vengono generate dalla risaie allagate, vedi il metano, o dall’utilizzo di fertilizzanti che producono protossido di azoto.

Dannose per l’ambiente quanto quelle prodotte dalla deforestazione a scopi agricoli, originano dall’approvvigionamento delle materie prime agricole e i cinque alimenti a più alta emissione sono riso, mais, soia, olio di palma e grano, che, tutti insieme, sono capaci di produrne una quantità superiore a quella prodotta da qualsiasi altro Paese, esclusi Cina e Stati Uniti.

Non solo gas nocivi. La produzione di questi alimenti ha un impatto notevole, pure, sulla scarsità di acqua in un mondo sempre più caldo. Le cui temperature, sempre più elevate, aumentano lo stress termico sul bestiame e, quando associate a una drastica riduzione delle precipitazioni, portano a una costante diminuzione dell’acqua per l’irrigazione.

Le conseguenze economiche (e sociali) per i piccoli produttori che vivono, fra l’altro, nelle regioni più vulnerabili al cambiamento climatico, sono disastrose. E si ripercuotono, anche, sulle grandi aziende alimentari. Si stima, infatti, leggendo il rapporto A qualcuno piace caldo: così l’industria alimentare nutre il cambiamento climatico, redatto da Oxfam, che le dieci maggiori aziende in questione dipendano dal lavoro di almeno cento milioni di agricoltori di piccola scala.

I quali, per primi, subiscono i danni delle calamità naturali derivanti dal mutamento climatico e sono costretti, perciò e pure perché incapaci di farsi carico dell’impennata dei costi associata al fenomeno, a vendere la loro terra rischiando di cadere nel baratro della povertà. Un danno ingente se si pensa che il cambiamento del clima ha già causato una importante flessione della produzione agricola, compresa fra l’1 e il 5 per cento di quella totale.

Con questo andamento, impossibile centrare gli obiettivi chiave dell’accordo di Parigi. L’azzeramento delle emissioni entro la metà del secolo e il contenimento dell’aumento delle temperature entro 1,5 gradi si prospettano irraggiungibili senza un’azione urgente da parte delle grandi aziende del comparto alimentare che assicuri anche un maggior sostegno agli agricoltori di piccola scala, coinvolti nella loro catena di approvvigionamento, nella resistenza agli effetti dei cambiamenti climatici.

Perciò, sebbene finora il dibattito politico e pubblico sul cambiamento del clima ha interessato, tradizionalmente, il settore energetico, il post Parigi dovrebbe essere condotto da quello alimentare. Consapevoli, le quattordici aziende alimentari (firmatarie di una lettera poco prima del summit di Parigi), che il “cambiamento climatico danneggia gli agricoltori e l’agricoltura.

La siccità, le inondazioni e le temperature sempre più alte minacciano la produzione alimentare mondiale e contribuiscono all’insicurezza alimentare”, dovrebbero concentrare i propri impegni sui fondamentali fattori socio-economici alla base della vulnerabilità al cambiamento climatico. Solo così gli accordi di Parigi non rimarranno semplicemente un stretta di mano.

di Fabrizio Casari

Emmanuel Chidi Namdi e la sua compagna erano riusciti a scappare dalla furia sterminatrice di Boko Haram, trovando riparo a Fermo, paese delle Marche, presso la struttura cattolica gestita da Don Vinicio Albanesi. Ma la scommessa di una vita nuova si è infranta mercoledì sera. Per colpa di Amedeo Mancini, 39 anni, ultrà allo stadio e fascista in strada, che ha sfogato tutta l’ignoranza nella quale è vissuto verso chi, indubbiamente, era più giusto di lui. Emmanuel e sua moglie passeggiavano nel paese che li aveva accolti quando si sono appunto imbattuti in Mancini, agricoltore di dichiarate simpatie fasciste.

La coppia di nigeriani andava per la sua strada, incolpevole di tutto tranne che di esistere. Al vederli, Mancini ha pensato bene di insultare la compagna di Emmanuel, definendola “scimmia”. Emmanuel ha reagito agli insulti rivolti alla donna come chiunque di noi avrebbe fatto: ne è scaturito uno scontro fisico, al termine del quale il corpo del profugo nigeriano è rimasto a terra senza vita.

Mancini era noto alle forze dell’ordine per precedenti di violenza e risultava tra i sospetti nelle indagini per gli attentati incendiari contro le parrocchie della zona, agli occhi dei razzisti colpevoli di fornire accoglienza ed assistenza ai migranti. Non serviva un genio investigativo per capire che andava tenuto d’occhio da vicino, che non poteva essere lasciato libero di circolare. Invece circolava eccome e, dopo l’omicidio di Emmanuel, in un primo momento era stato addirittura denunciato a piede libero (!). Solo successivamente, resasi conto del clamore suscitato dalla gravità del fatto, la Procura ha finalmente emesso un mandato di cattura e Mancini è stato arrestato. All’accusa di omicidio è stata successivamente aggiunta l’aggravante di razzismo e la speranza è che l’assassino possa risiedere a tempo indeterminato nelle patrie galere.

Non si tratta solo di una tragica fatalità, non c’è solo il rimpianto per un ignorante violento che ruba a due persone una vita che meritava di essere vissuta. Quanto avvenuto a Fermo racconta, benché con un epilogo drammatico, quanto succede tutti i giorni in molta parte dell’Italia. Dove i manutengoli di una destra che predica e pratica l’odio razziale, sostenuta da giornali indegni e politicanti ignobili, tentano di ridurre il Paese a un arena.

Bisognerebbe allora chiedersi cosa sarebbe successo a parti invertite. Se cioè una coppia di italiani fosse stata insultata da extracomunitari, quindi picchiata e uno di essi fosse stato assassinato. Dalle colonne de Il Giornale o Libero sarebbero partiti titoli con il consueto rivolo di bava contro l’immigrazione; ipotetici editorialisti avrebbero sostenuto trattarsi della prova provata di come l’accoglienza sia sbagliata, perché lo straniero è il nemico, la sua libertà una minaccia a noi rivolta e, dunque, nei confronti degli stranieri non può che esserci rifiuto, chiusura, respingimenti, con le buone o con le cattive.

Non a caso in queste ore tra i social media e nei giornali di destra si è scatenata una gara a far parte del collegio di difesa del Mancini. Giustificazionisti dell’ultima ora, docenti del cavilliamo con nozioni di diritto pari a zero ed identico livello di educazione civica, stanno sperticandosi nel cercare di ricostruire gli eventi in chiave assolutoria per l’assassino, il cui odio per l’Islam, paradossalmente, lo ha portato ad uccidere proprio una vittima del fondamentalismo islamico come Emanuel.

L’intelligenza non si attacca, ma l’idiozia sì e le parole in libertà degli xenofobi trovano sempre un emulatore, basti ricordare come “scimmia” fu l’insulto rivolto da Calderoli, deputato della Lega guidata da Salvini, all’ex ministro Cecile Kyenge.

E infatti l’avvocato del Mancini ricorda come l’epiteto di “scimmia” non possa costituire di per sé fondamento per l’aggravante di razzismo, dal momento che lo stesso insulto è stato usato da esponenti politici mai censurati. Infatti, il Senato votò all’epoca per assolvere gli insulti al ministro Kyenge, derubricandoli a intemperanze verbali. Il che dimostra come il razzismo viaggi ormai nell’intestino di questo paese, a cominciare dalla sua classe politica di destra, ben sostenuta dai suoi giornali di riferimento, che identificano tout court l’immigrazione con l’Islam e l’Islam con il terrorismo, mentre raccontano di invasioni mai esistite.

Sono penne intinte nell’odio strumentale, armi di chi si dice conservatore solo per vergognarsi di definirsi fascista e xenofobo, che formano il mercato del senso comune distorto, delle menzogne ripetute che divengono verità. E dal momento che l’emulazione era e resta la palestra dove si allenano tutti coloro che, in mancanza di una idea propria, debbono per forza assumere quella degli altri, succede che alcuni si trovano in uno stadio o su una strada ad uccidere innocenti. Armati con quelle parole d’odio che alle vittime infliggono lutti, ai furbi garantiscono carriere e agli idioti il carcere.


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