di Tania Careddu

L’agricoltura é uno dei settori industriali con il più alto rischio di essere danneggiato dal cambiamento climatico e, però, è esso stesso responsabile di generare un’enorme quantità di emissioni di gas serra. Provenienti dalla produzione agricola intensiva, una delle principali cause del mutamento del clima, le emissioni vengono generate dalla risaie allagate, vedi il metano, o dall’utilizzo di fertilizzanti che producono protossido di azoto.

Dannose per l’ambiente quanto quelle prodotte dalla deforestazione a scopi agricoli, originano dall’approvvigionamento delle materie prime agricole e i cinque alimenti a più alta emissione sono riso, mais, soia, olio di palma e grano, che, tutti insieme, sono capaci di produrne una quantità superiore a quella prodotta da qualsiasi altro Paese, esclusi Cina e Stati Uniti.

Non solo gas nocivi. La produzione di questi alimenti ha un impatto notevole, pure, sulla scarsità di acqua in un mondo sempre più caldo. Le cui temperature, sempre più elevate, aumentano lo stress termico sul bestiame e, quando associate a una drastica riduzione delle precipitazioni, portano a una costante diminuzione dell’acqua per l’irrigazione.

Le conseguenze economiche (e sociali) per i piccoli produttori che vivono, fra l’altro, nelle regioni più vulnerabili al cambiamento climatico, sono disastrose. E si ripercuotono, anche, sulle grandi aziende alimentari. Si stima, infatti, leggendo il rapporto A qualcuno piace caldo: così l’industria alimentare nutre il cambiamento climatico, redatto da Oxfam, che le dieci maggiori aziende in questione dipendano dal lavoro di almeno cento milioni di agricoltori di piccola scala.

I quali, per primi, subiscono i danni delle calamità naturali derivanti dal mutamento climatico e sono costretti, perciò e pure perché incapaci di farsi carico dell’impennata dei costi associata al fenomeno, a vendere la loro terra rischiando di cadere nel baratro della povertà. Un danno ingente se si pensa che il cambiamento del clima ha già causato una importante flessione della produzione agricola, compresa fra l’1 e il 5 per cento di quella totale.

Con questo andamento, impossibile centrare gli obiettivi chiave dell’accordo di Parigi. L’azzeramento delle emissioni entro la metà del secolo e il contenimento dell’aumento delle temperature entro 1,5 gradi si prospettano irraggiungibili senza un’azione urgente da parte delle grandi aziende del comparto alimentare che assicuri anche un maggior sostegno agli agricoltori di piccola scala, coinvolti nella loro catena di approvvigionamento, nella resistenza agli effetti dei cambiamenti climatici.

Perciò, sebbene finora il dibattito politico e pubblico sul cambiamento del clima ha interessato, tradizionalmente, il settore energetico, il post Parigi dovrebbe essere condotto da quello alimentare. Consapevoli, le quattordici aziende alimentari (firmatarie di una lettera poco prima del summit di Parigi), che il “cambiamento climatico danneggia gli agricoltori e l’agricoltura.

La siccità, le inondazioni e le temperature sempre più alte minacciano la produzione alimentare mondiale e contribuiscono all’insicurezza alimentare”, dovrebbero concentrare i propri impegni sui fondamentali fattori socio-economici alla base della vulnerabilità al cambiamento climatico. Solo così gli accordi di Parigi non rimarranno semplicemente un stretta di mano.

di Fabrizio Casari

Emmanuel Chidi Namdi e la sua compagna erano riusciti a scappare dalla furia sterminatrice di Boko Haram, trovando riparo a Fermo, paese delle Marche, presso la struttura cattolica gestita da Don Vinicio Albanesi. Ma la scommessa di una vita nuova si è infranta mercoledì sera. Per colpa di Amedeo Mancini, 39 anni, ultrà allo stadio e fascista in strada, che ha sfogato tutta l’ignoranza nella quale è vissuto verso chi, indubbiamente, era più giusto di lui. Emmanuel e sua moglie passeggiavano nel paese che li aveva accolti quando si sono appunto imbattuti in Mancini, agricoltore di dichiarate simpatie fasciste.

La coppia di nigeriani andava per la sua strada, incolpevole di tutto tranne che di esistere. Al vederli, Mancini ha pensato bene di insultare la compagna di Emmanuel, definendola “scimmia”. Emmanuel ha reagito agli insulti rivolti alla donna come chiunque di noi avrebbe fatto: ne è scaturito uno scontro fisico, al termine del quale il corpo del profugo nigeriano è rimasto a terra senza vita.

Mancini era noto alle forze dell’ordine per precedenti di violenza e risultava tra i sospetti nelle indagini per gli attentati incendiari contro le parrocchie della zona, agli occhi dei razzisti colpevoli di fornire accoglienza ed assistenza ai migranti. Non serviva un genio investigativo per capire che andava tenuto d’occhio da vicino, che non poteva essere lasciato libero di circolare. Invece circolava eccome e, dopo l’omicidio di Emmanuel, in un primo momento era stato addirittura denunciato a piede libero (!). Solo successivamente, resasi conto del clamore suscitato dalla gravità del fatto, la Procura ha finalmente emesso un mandato di cattura e Mancini è stato arrestato. All’accusa di omicidio è stata successivamente aggiunta l’aggravante di razzismo e la speranza è che l’assassino possa risiedere a tempo indeterminato nelle patrie galere.

Non si tratta solo di una tragica fatalità, non c’è solo il rimpianto per un ignorante violento che ruba a due persone una vita che meritava di essere vissuta. Quanto avvenuto a Fermo racconta, benché con un epilogo drammatico, quanto succede tutti i giorni in molta parte dell’Italia. Dove i manutengoli di una destra che predica e pratica l’odio razziale, sostenuta da giornali indegni e politicanti ignobili, tentano di ridurre il Paese a un arena.

Bisognerebbe allora chiedersi cosa sarebbe successo a parti invertite. Se cioè una coppia di italiani fosse stata insultata da extracomunitari, quindi picchiata e uno di essi fosse stato assassinato. Dalle colonne de Il Giornale o Libero sarebbero partiti titoli con il consueto rivolo di bava contro l’immigrazione; ipotetici editorialisti avrebbero sostenuto trattarsi della prova provata di come l’accoglienza sia sbagliata, perché lo straniero è il nemico, la sua libertà una minaccia a noi rivolta e, dunque, nei confronti degli stranieri non può che esserci rifiuto, chiusura, respingimenti, con le buone o con le cattive.

Non a caso in queste ore tra i social media e nei giornali di destra si è scatenata una gara a far parte del collegio di difesa del Mancini. Giustificazionisti dell’ultima ora, docenti del cavilliamo con nozioni di diritto pari a zero ed identico livello di educazione civica, stanno sperticandosi nel cercare di ricostruire gli eventi in chiave assolutoria per l’assassino, il cui odio per l’Islam, paradossalmente, lo ha portato ad uccidere proprio una vittima del fondamentalismo islamico come Emanuel.

L’intelligenza non si attacca, ma l’idiozia sì e le parole in libertà degli xenofobi trovano sempre un emulatore, basti ricordare come “scimmia” fu l’insulto rivolto da Calderoli, deputato della Lega guidata da Salvini, all’ex ministro Cecile Kyenge.

E infatti l’avvocato del Mancini ricorda come l’epiteto di “scimmia” non possa costituire di per sé fondamento per l’aggravante di razzismo, dal momento che lo stesso insulto è stato usato da esponenti politici mai censurati. Infatti, il Senato votò all’epoca per assolvere gli insulti al ministro Kyenge, derubricandoli a intemperanze verbali. Il che dimostra come il razzismo viaggi ormai nell’intestino di questo paese, a cominciare dalla sua classe politica di destra, ben sostenuta dai suoi giornali di riferimento, che identificano tout court l’immigrazione con l’Islam e l’Islam con il terrorismo, mentre raccontano di invasioni mai esistite.

Sono penne intinte nell’odio strumentale, armi di chi si dice conservatore solo per vergognarsi di definirsi fascista e xenofobo, che formano il mercato del senso comune distorto, delle menzogne ripetute che divengono verità. E dal momento che l’emulazione era e resta la palestra dove si allenano tutti coloro che, in mancanza di una idea propria, debbono per forza assumere quella degli altri, succede che alcuni si trovano in uno stadio o su una strada ad uccidere innocenti. Armati con quelle parole d’odio che alle vittime infliggono lutti, ai furbi garantiscono carriere e agli idioti il carcere.

di Tania Careddu

Più di dieci morti e centinaia e centinaia di braccianti (solo nell’ultimo anno), senza distinzione di nazionalità, sfruttati per far funzionare la filiera agroalimentare. Opaca e soggetta a scarsi controlli, dalla cui mancata trasparenza sono in pochi a uscirne indenni. Troppo riduttivo attribuirne le responsabilità al capolarato il quale, invece, uno dei tanti anelli della catena che permette alle aziende di comprimere i costi, è solo l’effetto della mancata trasparenza della Grande Distribuzione Organizzata (GDO) e del ruolo distorto delle organizzazioni dei produttori (OP) che agiscono come moderni feudatari, dimostrando che il costo dei prodotti agricoli (vedi soprattutto arance) riduce in povertà i piccoli produttori e lascia marcire il made in Italy.

Le cause, piuttosto, sono da ricercarsi nella strutturalità del fenomeno, dal quale traggono diretto vantaggio proprio le aziende e interi settori dell’agricoltura: funzionale al sistema produttivo, lo sfruttamento è nelle mani dell’imprenditore. Di quello meno qualificato, chiuso in quel circolo vizioso tra prodotti sostituibili, scarsa qualità e innovazione inesistente, che risolve le proprie disfunzioni con l’uso di manodopera ricattabile. Evadendo tasse e contributi, l’uso degli attualissimi e abusati voucher ne è un esempio, spinge nel baratro l’intera economia, aziende virtuose comprese.

Una dinamica, frutto di un mercato selvaggio e abbandonato a se stesso, che coinvolge una lista di soggetti e pratiche: dai fornitori e subfornitori alla gestione dei trasporti delle merci dai magazzini fino alle piattaforme della grande distribuzione, dalla politica dei prezzi adottata a quella aziendale e di certificazione volte a verificare la condotta dei fornitori nei confronti dei lavoratori.

E’ l’estrema frammentarietà della produzione che non permette a nessuno di essere certo delle condizioni di lavoro e che rende difficile la ricostruzione dell’intera filiera, tenendo conto anche del fatto che produttori dai sistemi occulti e illegali agiscono fuori dal controllo delle aziende e che il settore logistico e del trasporto è caratterizzato da ampie zone d’ombra, humus favorevole alle infiltrazioni criminali.

E per effetto della crisi, secondo quanto si legge nel Rapporto Filiera Sporca. La raccolta dei rifugiati. Trasparenza di filiera e responsabilità sociale delle aziende, sul mercato vince chi fa il prezzo (spesso spia dell’illegalità) più basso e la leva su cui comprimere i costi è, da sempre, quella del lavoro.

E così, la maggior parte delle aziende opera in una zona grigia, dove l’evasione contributiva la fa da padrona: una giornata lavorativa costa circa sessant’otto euro al giorno ma a rispettare questo parametro sono in pochi; in genere, i lavoratori risultano formalmente assunti ma il compenso quotidiano scende sotto i cinquanta euro, con picchi al ribasso; le buste paga sono perfette ma i braccianti sono costretti a restituire una parte dei soldi percepiti; e ultimamente è diventata una prassi persino riprendersi i bonus Irpef di ottanta euro introdotti dall’attuale governo.

Il ricorso al lavoro nero, poi, è un meccanismo perfettamente oliato, incentivato dal sistema dei sussidi di disoccupazione: le cooperative agricole funzionano come agenzie interinali per i produttori e i commercianti ma anziché lavorare per loro, i braccianti sono utilizzati al nero da altre aziende, maturando le giornate contributive per il sussidio; al loro posto, però, nelle campagne di raccolta, le cooperative mandano forza lavoro straniera pagata a trenta centesimi a cassetta di raccolto. Totale: dieci o quindici euro al giorno.

E’ quanto succede nella zona di Mineo, territorio di aranci e centri per gli immigrati, dove richiedenti asilo non assumibili perché privi di permesso di soggiorno, sostituiscono la regolarità. E’ lì che si annida lo sfruttamento: in quelle zone grigie che nessuno riesce (vuole) tracciare.

di Tania Careddu

Quattrocento e settantanove. Tanti sono stati, nel corso del 2015, gli atti intimidatori ai danni di sindaci, assessori, consiglieri comunali e municipali, amministratori regionali e personale della Pubblica Amministrazione. Una media di quaranta minacce al mese, più o meno una ogni diciotto ore, con un’impennata del 33 per cento rispetto all’anno precedente.

Sebbene sia un fenomeno che coinvolge l’intero territorio nazionale, quello della minaccia agli amministratori locali è più riscontrabile al Sud, isole comprese. La Sicilia, con novant’uno atti intimidatori, capeggia la classifica italiana, con un aumento del 30 per cento rispetto al 2014, e in Sardegna, al quinto posto, sono stati censiti cinquanta casi, soprattutto nel corso delle campagne elettorali.

Fra queste regioni, il secondo posto della graduatoria spetta alla Campania, record di aumenti pari al 42 per cento, con settantaquattro episodi; al terzo posto, la Puglia con sessantadue casi e al quarto, Calabria e Lazio, con un incremento del 118 per cento, probabilmente a seguito dell’inchiesta Mondo di mezzo (più comunemente, Mafia Capitale). Di contro, nel Nord Est si registra una leggera flessione, con in testa, sempre, il Veneto. Napoli, Roma, Palermo, Agrigento e Cosenza, le città maggiormente sotto tiro.

Invio di lettere minatorie con proiettili e parti di animali morti, furti e incendi (che rimane il modo più adoperato) in sedi di comitati elettorali e di auto di proprietà dei candidati, strappo e imbrattamenti di manifesti elettorali, minacce verbali e aggressioni fisiche, scritte offensive sui muri delle città, telefonate minatorie, spari contro le abitazioni, profanazione di tombe di famiglia, le modalità più utilizzate per minacciare. E nel mirino sono finite anche biblioteche, uffici anagrafe, uffici protocollo, scuole, auto della Polizia Municipale, mezzi di ditte incaricate alla raccolta dei rifiuti e piantagioni di alberi da frutto.

Minacce dirette o indirette, prendendo di mira collaboratori o parenti, nel 2015, sono state indirizzate soprattutto ai vicesindaci e agli assessori comunali aventi specifiche deleghe. I quali, spesso, sono stati oggetto, pure, di minacce verbali e aggressioni fisiche, in spazi pubblici, da soggetti, il più delle volte, pregiudicati o affetti da patologie psichiche e da problemi di tossicodipendenza.

Le motivazioni? A detta degli aggressori, secondo quanto riporta la cronaca e l’ultimo rapporto Amministratori sotto tiro, redatto da Avviso Pubblico, perché infastiditi dal dover rispettare una regola o dal dover corrispondere una sanzione prevista dalla legge, oppure per questioni relative all’accoglienza degli immigrati nel territorio comunale o per la possibilità, paventata dalle amministrazioni comunali, di attuare progetti per il loro inserimento sociale o professionale.

Su questioni in materia di appalti, di concessioni di licenze commerciali, balneari o demaniali, di gestione o smaltimento rifiuti, di parchi o riserve naturali, di sanità, le intimidazioni sono riconducibili a organizzazioni criminali. Ma gli autori, tutti, il più delle volte, rimangono ignoti. E perciò impuniti.

di Tania Careddu

Un dattero di mare impiega circa ottant’anni per raggiungere dimensioni di appena dieci centimetri e la sua estrazione comporta la frantumazione di un ampio tratto di roccia. Con la conseguenza di una grave alterazione dell’ecosistema marino. Oltre che dalla pesca illegale, nell’ambito della quale, nel 2015, sono stati commessi seimila e ottocentodieci reati, è aggredito anche dalla cattiva depurazione e dagli carichi selvaggi, contando 4542 infrazioni, tante quante, più o meno, quelle legate al ciclo del cemento. In totale, 18.471 illeciti, due e mezzo per ogni chilometro di costa, ai danni del mare italiano. Troppi, e per giunta, in aumento del 27 per cento rispetto all’anno precedente.

La metà di questi sono stati compiuti nelle regioni del Sud, quelle a “tradizionale presenza mafiosa”, secondo quanto si legge nel dossier Mare Monstrum 2016 di Legambiente: Campania, Sicilia, Calabria e Puglia, le zone nemiche del mare per eccellenza, insieme al Lazio che, rispetto alle rilevazioni precedenti, nelle quali si collocava al settimo posto delle graduatorie, conquista il podio. Terzo per il cemento illegale e nella pesca di frodo, quarto per infrazioni al codice della navigazione e quinto per l’inquinamento delle acque e del suolo.

In barba alle regole edilizie, alla naturale bellezza del paesaggio e alla qualità dei manufatti, i litorali italiani sono deturpati dai frutti dell’abusivismo edilizio, rintracciabile, a differenza del resto d’Europa, solo nel mar Mediterraneo. Dove, dal 2001 al 2011, sono sorti diciottomila nuovi edifici e, nella seconda metà del secolo scorso, pure industrie chimiche e petrolchimiche, porti turistici e infrastrutture commerciali, autostrade e reti ferroviarie. Alterazioni profonde dell’ecosistema terrestre e marino, che si sono aggiunte agli storici ecomostri.

Pizzo Sella a Palermo, in cui un milione di metri quadrati di cemento hanno devastato un’area a vincolo idrogeologico alle spalle del mare di Mondello; il villaggio di Lesina, a Torre Mileno in provincia di Foggia, caratterizzato da un insediamento a pochi metri dal bagnasciuga, senza reti fognarie né allacci; l’albergo, mai finito, di Aloha Mare ad Acireale, all’interno della riserva naturale della Timpa; Capo Colonna a Crotone, puntellato di villette e condomini abusivi, in una zona a connotazione archeologica; e le case abusive di Ischia, in un territorio estremamente fragile.

Tutti reati che, oltre a deturpare irreversibilmente il paesaggio, pesano sull’inquinamento marino. Il 21 per cento dei maggiori comuni, eccezion fatta per le virtuose Sardegna, Basilicata, Puglia, Toscana e Marche, presenta una rete fognaria non allacciata a un depuratore, fondamentale per garantire la rimozione di scarichi inquinanti che si riversano nei corsi d’acqua o direttamente in mare. Tanto che, ai sensi della conformità europea, il Belpaese sconta un ritardo decennale, commisurabile a ben quattrocent’ottanta milioni di euro l’anno di sanzioni.

Meno evidente degli ecomostri ma altrettanto nefasta, la pesca di frodo. Che pesa, oltretutto, sulla salute dei consumatori e sull’economia italiana. Prodotti ittici catturati senza licenza, sia perché sottomisura sia perché presi in periodi non consentiti dalla legge, spacciati per freschi ma conservati in pessime condizioni igieniche. Merce non tracciata o scaduta, frodi commerciali, vendita di prodotti vietati od omesse informazioni nel commercio al dettaglio, alimentano il mercato nero e aggrediscono le specie protette, tonno e datteri in primis.

E’ nemica del mare anche la navigazione fuorilegge, quella praticata dai diportisti che non rispettano i divieti a tutela della aree marine più delicate. E lo fanno sette natanti ogni giorno. Una marea.


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