di Tania Careddu

Esisteva già prima dell’inizio della guerra ma con l’esplodere del conflitto, lo sfruttamento lavorativo dei bambini siriani ha assunto dimensioni preoccupanti. Finiti i risparmi delle famiglie, ridotti i servizi per i rifugiati e tagliati gli aiuti delle Nazioni Unite a causa della mancanza di fondi, i bambini sono costretti a lavorare. Poi, la difficoltà di inserirsi nelle scuole dei paesi ospitanti, insieme alle restrizioni poste dalla legge degli stessi paesi al lavoro legale degli adulti, hanno fatto il resto.

Dopo cinque anni di guerra, sei milioni di minorenni necessitano di assistenza umanitaria, più di due milioni vivono in zone difficili o sotto assedio e circa tre milioni non vanno a scuola. Così, un numero sempre più crescente di loro è obbligato a lavorare per sopravvivere e, addirittura, viene avvicinato da gruppi armati per essere assoldato come soldati, a un’età sempre più giovane e senza risparmiare le bambine, soggette, anche, specialmente in Iraq, a contrarre matrimoni temporanei consistenti nell’offerta, alla famiglia della giovane, di una dote da parte del marito che la vincola a rimanere con lui fino al termine stabilito.

Lavorano, anche per sedici ore al giorno, in agricoltura, nelle strade a vendere mercanzia, lavano le macchine, lavorano metalli e legno, raccolgono la spazzatura, lavorano come sguatteri nelle case, portano l’acqua. Cercano cibo tra i bidoni della spazzatura, chiedono l’elemosina e “raccolgono le parti del corpo di chi è stato ucciso per cremarlo”.

Scenario di riferimento, i campi profughi e le città dove si è rifugiata la maggioranza dei siriani in fuga: i paesi limitrofi, Giordania, Libano, Turchia e Kurdistan, ospitano più del 60 per cento dei siriani scappati e, a partire dal 2005, la Grecia e i Balcani sono diventati la rotta preferita dai siriani e, un anno più tardi, la chiusura della frontiera macedone con la Grecia ha limitato la rapidità del passaggio della popolazione della Siria, prospettando la possibilità di creare le condizioni per una maggiore vulnerabilità delle famiglie e dei loro bambini.

Con l’aumentare dell’incertezza sull’opportunità di raggiungere la destinazione finale del viaggio (generalmente l’Europa del Nord) e in una zona in cui è marcata la presenza di trafficanti e reti criminali, rimane alto il rischio che i bambini rifugiati possano diventare un interessante esca per lo sfruttamento lavorativo in settori illegali.

In un contesto siffatto, il lavoro dei minori diventa una risorsa fondamentale tanto da trasformarsi, per loro, in una condizione di ordinaria normalità: “qualunque tipo (di lavoro, ndr) basta che non sia pericoloso, non comprometta la reputazione o vada contro la religione. Vendere per strada – si legge nel rapporto Ci sacrifichiamo per sopravvivere. Lavoro minorile tra i bambini vittime del conflitto siriano, redatto da Terres des hommes – può dare dei problemi, si può essere scambiati per mendicanti. Inoltre, non bisogna entrare in commerci illegali, come vendere alcolici, prostituirsi o rubare, perché è contro l’Islam”.

Che rende inappropriate, per le bambine intervistate, tutte le situazioni lavorative in cui c’è promiscuità con il sesso opposto e anche perché “è responsabilità degli adulti e dei maschi lavorare, non delle femmine, specialmente se sono bambine”. Anche se “noi abbiamo più opportunità di lavoro ed è più difficile che la polizia ci venga a cercare, come fa con i maschi e con gli adulti”. Per tutti, il lavoro minorile “deve essere calibrato sulle loro capacità fisiche, non deve compromettere la loro salute e sicurezza, non deve essere pericoloso o difficile”. E non deve ostacolare la frequenza scolastica.

Ma tant’è. La drammatica e perdurante mancanza di risorse economiche e di accesso gratuito ai servizi di base sottraggono i bambini dalla possibilità di aspirare a impieghi specializzati. Da grandi.

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