di Tania Careddu

Che ne è dei rifugiati arrivati in Italia ma mai entrati nel sistema istituzionale di accoglienza o usciti senza che il loro percorso di inclusione sociale si sia compiuto? Che dipenda da una cronica carenza di posti o da modalità emergenziali - e mai ordinarie - di gestione, di fatto è una disumana condizione di marginalità.

Meno di diecimila persone, in possesso di forme di protezione internazionale o umanitaria, vengono private, in maniera definitiva, del diritto alla salute e a condizioni di vita dignitose. Ignorate dalle istituzioni, non presenti in nessuna lista, le persone in fuga da guerre e persecuzioni trovano rifugio negli insediamenti informali.

Caratterizzati da forme più o meno accentuate di autogestione e da nessun pagamento del canone di locazione (?), due sono le tipologie di insediamento. Da una parte, quelli nei luoghi all’aperto dei migranti appena arrivati in Italia e in attesa di accedere alla procedura di asilo e al sistema di accoglienza previsto dalla legge.

Respinti ripetutamente dalle questure ad ogni tentativo di formalizzare la domanda di asilo, costretti ad attendere, per settimane o mesi, la risposta che non c’è, sostano all’interno di vecchi silos o a ridosso delle stazioni ferroviarie, nei sottopassaggi o nelle aree boschive della città.

Dall’altra, quelli presso edifici in disuso, container e baraccopoli, abitati dai rifugiati presenti nel Belpaese da diversi anni, mai presi in carico dal sistema di accoglienza oppure usciti senza aver terminato un efficace iter di inserimento sociale. Una permanenza annosa ha autorizzato a occupare, soprattutto in seguito alla chiusura del programma di accoglienza straordinaria Emergenza Nord Africa, immobili in disuso. Per organizzarsi si danno regole di autogestione, che accentuano forme di autoesclusione e di autoghettizzazione a causa del disinteresse da parte delle istituzioni, a partire dagli enti locali.

Dell’uno o dell’altro tipo, tutti gli insediamenti destano preoccupazione per le condizioni di (in)vivibilità con ripercussioni sulla salute della popolazione presente. Privi di connessione alla rete idrica per l’acqua potabile e a quella elettrica, presentano criticità anche per la mancata raccolta dei rifiuti e l’inadeguatezza del loro smaltimento.

Di più e più grave: nonostante per la legislazione italiana, i richiedenti asilo e i rifugiati abbiano diritto all’assistenza sanitaria pubblica a parità di condizioni con il cittadino italiano, il 98 per cento dei migranti degli insediamenti informali non è iscritto al Sistema Sanitario Nazionale. Le occupazioni abusive e la mancata assegnazione della residenza anagrafica costituiscono un ostacolo nell’accesso ai servizi sanitari territoriali, in una popolazione con difficoltà di spostamento anche per la carenza di risorse economiche.

Ma la mobilità continua sul territorio nazionale, determinata dalle condizioni di precarietà sociale, pregiudica, anch’essa, il diritto di avvalersi dei servizi sanitari pubblici locali. E pensare che le condizioni economiche svantaggiate permetterebbero loro di essere esenti, solo per il periodo in cui non sono autorizzati, dalla normativa vigente, allo svolgimento delle attività lavorative, dal pagamento del ticket sanitario. Peccato che, scaduto tale termine, cade anche il diritto all’esenzione, indipendentemente dal fatto che abbiano o meno trovato un’occupazione o i mezzi di sostentamento.

Eppure, secondo quanto riporta Medici Senza Frontiere, nel suo rapporto "Fuoricampo", il 50,6 per cento ha avuto almeno un problema di salute nell’ultimo mese e al 31 per cento è stato negato l’accesso alle cure. E anche quando “queste persone abbiano la possibilità di iscriversi al SSN e avere un medico di famiglia, la maggior parte di loro non riesce a farlo: mancano le informazioni sulle procedure di iscrizione, manca la volontà di ascoltare, di spiegare.

Quello che sconcerta di più è il livello di depressione di moltissimi giovani che va dall’apatia a vere e proprie forme psichiatriche, con manie di persecuzione e deliri”. Ma mai come quelli degli (onni)potenti.

di Tania Careddu

Carburante di una macchina che genera ricchezza, fondata sullo sfruttamento indiscriminato di risorse ambientali, e di un sistema diffuso di illegalità su scala globale: sua maestà, il petrolio. Insieme a gas e risorse minerarie costituisce il settore a maggior rischio di malaffare nel mondo.

Con un tasso del 25 per cento di corruzione percepita, la propensione al malaffare è dovuta, essenzialmente, all’enorme sproporzione tra la forza contrattuale ed economica agita dai singoli titolari o gestori degli impianti e la debolezza politica e finanziaria dei territori in cui sono ubicate le piattaforme estrattive.

Con l’intraprendenza economica di cui sono capaci, i primi riescono ad aggirare leggi e processi democratici per spostare enormi somme di denaro in capo a pochi soggetti in grado di organizzare il malaffare e per ‘estorcere’, a costi irrisori, risorse pubbliche alle comunità locali.

Così, singoli colossi finanziari si calano facilmente in contesti sociali permeabili alle pratiche corruttive, sia per ragioni attribuibili alla presenza di strutture criminali sia per la scarsa tenuta degli apparati politico-istituzionali.

Complici una normativa di tutela ambientale incoerente e astratta ed un sistema di controlli del tutto inadeguato al settore, gli interessi privati (di alti dirigenti d’azienda, manager, funzionari pubblici, faccendieri e, perché no, amici di famiglia) sviliscono il ruolo della pubblica amministrazione. Aggiungi le ragioni di mercato, tipo la volatilità dei prezzi e l’aumento della domanda, oltreché i sistemi produttivi caratterizzati da scarsa trasparenza e da logiche individuali, e l’affare è presto fatto.

Un affair che, in Italia, solo negli ultimi due anni e mezzo, ha condotto sotto indagine novantadue persone. Capi d’imputazione? Corruzione, truffa, associazione a delinquere. Grazie all’inadeguatezza della normativa (almeno fino all’entrata in vigore della recente legge 68/2015 sugli ecoreati, che ha introdotto nel codice penale sei delitti ambientali più una serie di aggravanti), la sproporzione delle forze all’interno delle aule dei tribunali, le prescrizioni a fagiolo e gli emendamenti chirurgici, la filiera dell’illegalità del petrolio si estende. E anche all’ambito fiscale, con l’ evasione delle accise sui carburanti per decine e decine di milioni di euro, stando a quanto si legge nel rapporto “Sporco petrolio”, redatto da Legambiente.

Secondo un copione che comparve, per la prima volta (in questo settore), fra il 1973 e il 1980, documentato da La Repubblica del 1995, “il petroliere che forniva i moduli falsi, si metteva in tasca cinquanta o sessanta lire per ogni chilo di prodotto venduto illegalmente.

Per timbrarlo, la Guardia di Finanza pretendeva venti lire al chilo e altrettante l’ufficio tecnico delle imposte di fabbricazione, che si impegnavano a proteggere il trasporto della benzina in cambio di una tangente di ottanta lire al chilo da spartire a metà. All’erario furono sottratti duemila miliardi”. E la storia di inquinare l’economia, oltreché l’ambiente, continua.

di Tania Careddu

In Bielorussia, in Cina e in Vietnam è segreto di Stato. Nella Corea del Nord, nel Laos, in Malesia, in Siria e nello Yemen, le informazioni a riguardo sono soggette a restrizioni governative. Ma bastano le notizie a disposizione per poter sostenere che la pena di morte è utilizzata ancora, nel 2015, in maniera preoccupante.

E sebbene quattro Paesi - Repubblica del Congo, Figi, Madagascar e Suriname - l’abbiano abolita qualsiasi sia il reato, milleseicentoquattro persone sono state messe a morte, cinquecentosettantatre in più rispetto all’anno precedente. L’89 per cento del totale delle esecuzioni è avvenuto in soli tre Paesi: Arabia Saudita, in cui sono aumentate del 76 per cento, Iran con un incremento del 31 per cento, e Pakistan, dove sono state le più numerose mai registrate.

Ciad e Oman hanno rimesso in moto la macchina della morte dopo anni senza uccisioni; idem il Bangladesh, l’India, l’Indonesia e il Sud del Sudan. Decapitazioni, fucilazioni e impiccagioni, le pratiche più utilizzate; sparita, almeno nel 2015, la lapidazione.

E non solo è la pratica più disumana del mondo, ma, la pena capitale, viene addirittura applicata contravvenendo (regolarmente) al diritto e agli standard internazionali. Su individui che non hanno ancora compiuto diciotto anni; per reati che non raggiungono la soglia dei ‘reati più gravi’, tipo quelli economici, come la corruzione, per rapina a mano armata, adulterio, stupro, rapimento e ‘offese al profeta dell’Islam’; dopo procedimenti penali che non hanno rispettato le procedure internazionali sul giusto processo; e su persone con disabilità mentali e intellettive.

Usata in risposta alle minacce, reali o percepite, alla sicurezza pubblica e a quella dello Stato, per reati legati al terrorismo o per aver guidato una presunta organizzazione terroristica, per far fronte a un’’emergenza nazionale’ relativa ai decessi legati alla droga.

Fortunatamente, i Paesi che ancora contemplano la pena capitale stanno diventando una minoranza e la tendenza complessiva di lungo termine è verso l’abolizione della stessa: la Mongolia ha approvato un nuovo codice penale che entrerà in vigore a settembre di quest’anno, il governatore della Pennsylvania ha istituito, a febbraio, una moratoria sulle esecuzioni, la Malesia ha annunciato riforme per rivedere le leggi riguardanti la pena di morte con mandato obbligatorio, Burkina Faso, Corea del Sud, Guinea e Kenya hanno preso in esame leggi mirate all’abolizione.

E anche all’interno delle istituzioni, cominciano a farsi sentire voci dissonanti. Come quella di un giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, Stephen Breyer, riportata nel dossier Condanne a morte ed esecuzioni 2015, redatto da Amnesty International, che, il 29 giugno, dichiarava: “Probabilmente la pena di morte, in sé e per sé, costituisce in questo momento una ‘punizione crudele e disumana’ proibita dalla legge”.

E, poco prima di lui, il 16 giugno, il presidente della Mongolia, Tsakhiagiin Elbegdorj: “Il fondamento della giustizia è il rispetto per la dignità umana. In nessuna circostanza, la pena capitale può essere accettabile”. Intanto, a fine 2015, ventimila e duecentonovantadue persone erano (ancora) detenute nei bracci della morte.


di Tania Careddu

Ostacoli materiali, organizzativi, gestionali e culturali. Sono le barriere sanitarie che penalizzano, nelle strutture ospedaliere italiane, le persone affette da disabilità intellettive, sensoriali e motorie. I dati, secondo la ricerca “Indagine conoscitiva sui percorsi ospedalieri delle persone con disabilità”, commissionata dall’associazione Spes contra spem, sono poco confortanti.

Solo in un terzo degli ospedali è previsto un flusso prioritario per i pazienti con disabilità. Solo il 16 per cento ha un punto di accoglienza destinato a loro; nessuna struttura ha mappe a rilievo per i non vedenti e solo il 10 per cento circa è dotato di percorsi tattili. I display luminosi sono presenti nel 57,8 per cento delle strutture, ma solo il 12,4 per cento di queste ha locali o percorsi adatti per visitare i pazienti con disabilità intellettiva nei pronto soccorso.

Soltanto il 21,7 per cento, poi, ha appositi spazi per l’assistenza delle persone con disabilità cognitiva, bisognose di una maggiore attenzione e tranquillità al fine di essere collaborative e non oppositive nel percorso di cura.

Uniche note positive: la grandissima maggioranza degli ospedali garantisce la permanenza del caregiver oltre l’orario previsto per le visite e l’apertura a incontri, sebbene saltuari e non strutturati, tra il vertice degli ospedali e le rappresentanze delle associazioni familiari dei disabili.

Barriere insormontabili negli ospedali del Mezzogiorno e che segnano l’ennesimo divario (nel diritto alla cura) tra Nord e Sud, dove gli ospedali, tranne iniziative isolate, ancora non prevedono alcun percorso di cura personalizzato. Una situazione, quella italiana, in linea con il contesto europeo, in cui, secondo una ricerca condotta qualche anno fa, i pazienti con disabilità ricoverati nelle strutture ospedaliere, sono deceduti non a causa di patologie ma per carenze o trattamenti clinici non appropriati. Morti evitabili con una migliore organizzazione e con un approccio medico adeguato a questo tipo di pazienti.

I quali, per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, hanno il doppio delle possibilità di trovare operatori impreparati e strutture inadeguate, e per i quali è tre volte più alta la probabilità che venga negato l’accesso alle cure e quadruplicata quella che vengano trattati senza rispettare la loro dignità.

Non solo rappresentano un disagio concreto ma le barriere sanitarie generano, anche, una disparità di trattamento sanitario. Che, al di là delle scarse misure pratiche di cui (non) si dotano gli ospedali, è deficitario dell’umano rispetto del malato e carico di dimensioni di pregiudizio nell’accesso alle cure.

“Paradossalmente, in ospedale, una persona con disabilità rischia di diventare disabile due volte, perché per avere diritti uguali a tutti gli altri ha bisogno di risposte diverse”, afferma il presidente di Spes contra spem, Luigi Vittorio Berlini. Che continua: “Prendersi cura di una persona significa riconoscere che davanti ho una persona con la sua dignità. E’ solo diversa, non più complicata delle altre”.

Eppure “due strutture sanitarie su tre sono impreparate ad accogliere persone con disabilità”, ammette il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Walter Ricciardi. Aggiungendo che “è un dato, quello fornito da questo studio, che deve farci riflettere sull’importanza di insistere nella costruzione di un sistema che punti alla centralità della persona nei servizi di cura e assistenza”.

di Liliana Adamo

In campo c’è un fenomeno meteorologico chiamato El Niño e il global warming, vale a dire il surriscaldamento globale e il cambiamento climatico in rapporto causa/effetto, è biunivoco: se il global warming aumenta le probabilità che si sviluppi un El Niño, questo, a sua volta, moltiplica gli effetti dello stesso cambiamento climatico, rilasciando una grande quantità di calore sull’Oceano Pacifico.

Con elevate temperature dei mari raddoppia, quindi, l’eventualità che si produca un "super El Niño". E se un "super El Niño" provoca un importante incalorimento sulla superficie del Pacifico, il fenomeno si ripercuote sull’intero sistema climatico mondiale; di conseguenza, sulle stagioni dei raccolti. In pratica, un micidiale effetto domino.

Nell’anno più caldo mai registrato, il 2015-16, gli effetti del super El Niño, abbondantemente previsti da agenzie internazionali, quali ONU e Oxfam, si sono via via intensificati. L’andamento lento e progressivo di siccità e carestia colpisce soprattutto le aree più deboli del pianeta e le notizie sono state del tutto ignorate dai potenti network dell’informazione, stando pur certi che se ciò avvenisse, il disastro della fame si sarà già riversato sulla sorte di milioni di persone.

I paesi su cui pende questa minaccia sono stati individuati da qualche tempo: le aree povere del mondo accusano ormai gli effetti del super El Niño; i loro raccolti sono andati in rovina, i prezzi degli alimenti di base, aumentati vertiginosamente. E c’è da paventare che eventi climatici così estremi s’intensificheranno in un futuro prossimo con conseguenze sociali, politiche, economiche, facilmente prevedibili.

Eppure, nonostante la drammaticità complessiva, non si delinea niente di nuovo all’orizzonte. Da una ventina d’anni a questa parte, esistono documenti secretati dalla Cia che tracciano possibili scenari dovuti a un probabile (allora) innalzamento delle temperature globali. L’avvisaglia si è materializzata con il formarsi del super El Niño; si rende urgente quindi, una risposta umanitaria immediata nei paesi già in stallo.

Nel dicembre dello scorso anno, l’ONG Oxfam, ha richiesto uno sforzo internazionale a coordinare le varie emergenze, evitando, possibilmente, i fallimenti verificati nel 2011 nel Corno d’Africa, dove un sistema d’aiuti lento e sconclusionato gravò oltremodo una popolazione stremata, in un surplus di sofferenza diffusa.

Oltre le guerre in Siria, Sudan e Yemen, nessuno dice che il 2016 sarà il clima a trascinare il sistema umanitario sotto una pressione mai registrata finora; che il super El Niño lascerà interi paesi dell’Africa Meridionale, America Latina e Caraibi, ad affrontare fame, penuria d’acqua e pandemie.

Nei dettagli, come si presenta la situazione? La siccità sta colpendo ovunque; nel sud dell’Africa si registra uno stentato ciclo delle piogge, il più secco degli ultimi trentacinque anni. Stanno morendo centinaia d’animali, d’allevamento e allo stato brado.

Il prezzo del mais è schizzato alle stelle, quasi il 40% in più, in Zambia, il 73% in Malawi, in Mozambico e Zimbabwe 50%, 1005 in Sudafrica. I paesi più colpiti sono Zimbabwe, Malawi, Zambia, Sudafrica, Mozambico, Botswana e Madagascar. Il governo dello Zambia ha vietato le esportazioni di mais con pesanti ripercussioni economiche per gli importatori, i quali avevano già saldato la merce per un valore pari a ventidue milioni di euro.

Secondo il World Food Programme, nella sola Africa meridionale, circa quarantanove milioni di persone potrebbero essere coinvolte nell’incombenza siccità di una tale portata mai censita prima. Quaranta milioni di persone nelle campagne e nove nelle aree urbane, tra le più indigenti della popolazione; e va considerando che in questi paesi già quattordici milioni di persone soffrono la fame.

Pessime notizie anche sul fronte della sicurezza agroalimentare: per scongiurare la crisi, il Sudafrica ha allentato le restrizioni vigenti sulla distribuzione dei cereali OGM. Stimando che circa il 90% del mais prodotto nel paese è geneticamente modificato, ogni nuova “qualità” deve ottenere l’approvazione statale, prima d’importazione e coltivazione. Con un decreto del febbraio scorso, il governo sudafricano autorizza lo stoccaggio di mais OGM per accrescere il tonnellaggio sulle importazioni; antecedente alla delibera, tale stoccaggio era severamente proibito, evitando, in questo modo, la contaminazione di specie non ammesse.

Una fenomenologia legata all’arma a doppio taglio dei cambiamenti climatici che coinvolge un numero impressionante di persone. Si parla di sessanta milioni circa, secondo le agenzie umanitarie delle Nazioni Unite.

Gli effetti devastanti de El Niño non si fermeranno in Sudafrica, Corno d’Africa, Africa Orientale (dove, in paesi come Etiopia, Somalia, Eritrea, Gibuti e Sud Sudan, già dodici milioni di persone sono soggette a una grave mancanza nutrizionale), compromessa anche l’area dell’America Centrale, nel cosiddetto “corridoio della siccità” (in particolare in Guatemala, Honduras, El Salvador).

Qui, le comunità si trovano a fronteggiare la peggiore crisi idrica degli ultimi decenni e la stima si aggira intorno ai 3,5 milioni di persone.

A rischio sono perfino i paesi del Pacifico mentre, rovescio della medaglia, alla siccità si alterneranno difformità climatiche, precipitazioni violente e cicloni. E, nei prossimi anni, sarà peggio. La Conferenza sul clima di Parigi si è chiusa mesi orsono, con unanime soddisfazione tra le parti. Ora, che fare?





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