di Tania Careddu

Isolato per la prima volta nel 1947 in una scimmia della foresta di Zika, in Uganda, il virus, che si trasmette tramite le zanzare, ha provocato piccole epidemie sporadiche in Africa e nel Sud-est asiatico. Fino ad aprile 2015, quando è comparso in Brasile e si è, piano piano, diffuso in diversi Paesi delle Americhe. Con il rischio di tre o quattro milioni di contagi.

Il primo febbraio 2016, a detta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, è emergenza internazionale di salute pubblica. Con l’obiettivo specifico di uno sforzo coordinato contro di esso. E verso il diritto alla salute. Spesso negato. Soprattutto nelle periferie del mondo.

Dove malattie altrove curabili, diventano epidemie mortali. Debellabili non solo attraverso un intervento sanitario ma con un approccio multidimensionale, più complesso ma più incisivo, che tenti di ridurre anche la povertà e di incentivare l’universalità dell’istruzione primaria.

Dati recenti dicono che le malattie infettive varcano velocemente i confini nazionali. Perciò, oggi, le malattie infettive restano una minaccia globale: pressione demografica, cambiamento climatico, incremento della mobilità della popolazione a livello mondiale potrebbero contribuire all’insorgere di nuove forme di epidemia.

Come non ricordarsi della SARS, nel 2003, comparsa in un viaggiatore a Hong Kong e propagatasi in ventinove Paesi, colpendo più di ottomila persone o dell’influenza H1N1, nel 2009, che ha seminato oltre diciottomila morti in tutto il mondo? Le malattie infettive sono, però, causa dell’uno per cento dei decessi nei Paesi industrializzati e il 40 per cento di quelli dei Paesi in via di sviluppo.

Dove le comunità sono più vulnerabili, più esposte al rischio e con minore accesso alle misure preventive, ai servizi diagnostici e alle cure. Dove i sistemi sanitari sono fragili, privi di fondi sufficienti a renderli funzionali, delle risorse umane necessarie, degli strumenti e dei materiali per rispondere alle diverse patologie, il livello delle norme igienico-sanitarie basso, la consapevolezza inferiore.

Sono vere e proprie crisi umanitarie, sociali ed economiche. Sono lo specchio delle disuguaglianze del mondo. Di un mondo che deve fare i conti con la corruzione nel sistema sanitario pubblico, che è costretto a pagare di più rispetto alle tariffe prestabilite, più o meno simboliche, o a corrispondere una tariffa di prestazione supplementare ai professionisti.  Che operano con retribuzioni troppo basse e sono in numero esiguo (il numero dei medici è fortemente sbilanciato nel mondo).

L’accesso ai medicinali è ostico: quelli essenziali sono spesso costosi e non sempre di qualità, acquistati spesso da privati o al mercato nero o ai banchi del mercato vero e proprio. Gli investimenti sulla sanità in questi Paesi a basso reddito, sono troppo limitati e molti interventi sono stati resi possibili grazie a donatori esterni.

Ma con la crisi finanziaria, i contributi degli Stati sono drasticamente diminuiti, i tagli al budget dell’OMS sono stati inevitabili e ne hanno risentito le strutture incaricate di far fronte alle grandi epidemie, le procedure dell’OMS per reclutare personale in caso di emergenza sono lunghe e complicate.

Portare aiuti finanziari, materiali e umani nell’emergenza è indispensabile ma, si chiede la Caritas nel dossier “Salute negata”, quando le organizzazioni internazionali che contribuiscono alla lotta contro le epidemie lasciano i Paesi interessati o diminuiscono i fondi e le risorse a disposizione, che succederà?

di Alessandro Iacuelli

E' come nei peggiori incubi. In una Regione ambientalmente disastrata come la Campania, in una grande città come Napoli, la terza d'Italia per numero di abitanti, succede che un appalto pubblico, per smaltire l'amianto gettato qua e là in giro in decenni di incuria, venga affidato ad un soggetto già condannato in primo e in secondo grado di giudizio a sette anni di reclusione per traffico illecito di rifiuti speciali, peraltro con l'aggravante del disastro ambientale. Il soggetto inquinatore diventa così soggetto bonificatore, pagato con soldi pubblici.

Sono passati esattamente dieci anni da quando, proprio qui su Altrenotizie, scrivemmo della ditta Pellini di Acerra, all'indomani dell'arresto dei tre gestori, i fratelli Giovanni, Salvatore e Cuono Pellini: "Dal Veneto, arrivavano ad Acerra fanghi tossici e rifiuti di ogni tipo, soprattutto chimici, che la ditta Pellini stoccava e rivendeva come fertilizzanti che finivano per fertilizzare i terreni agricoli.

Il tutto, secondo le accuse della Procura, con la complicità" di un soggetto all'epoca in servizio presso i Carabinieri di Acerra; infatti il Salvatore Pellini era appartentente all'Arma con il grado di maresciallo e, secondo le sentenze di primo e secondo grado, ha sfruttato la sua posizione per favorire l'attività criminale dell'azienda di famiglia.

Il 29 gennaio 2015, la IV sezione penale di Corte d’Appello di Napoli ha condannato a sette anni di reclusione i tre fratelli, aumentando le pene rispetto alla sentenza di primo grado, per il reato di disastro ambientale aggravato. Si chiamano ecomafie, anche se l'aggravante mafiosa non è stata riconosciuta nella sentenza.

Nel frattempo i tre fratelli avevano già dato vita ad una nuova azienda, la ATR, pronta a “trattare” circa 400 mila tonnellate annue di rifiuti tossici e industriali (la maggior parte dei quali provenienti da fuori regione) in località Pantano, dove già sorgono l’inceneritore A2A, la ex Montefibre e la centrale da combustione a biomasse Friel.

Verso la fine del 2014, la Regione Campania aveva temporaneamente "sospeso" il progetto dell’azienda di smaltimento rifiuti riconducibile sempre ai Pellini è riconducibile, nel frattempo la sospensione è terminata, e l'ATR aveva iniziato a lavorare in Basilicata, infatti il primo ottobre 2006 il direttore dell’Agenzia regionale per la protezione dell’Ambiente di Basilicata, Aldo Schiassi, assegna mediante cottimo fiduciario l’affidamento definitivo del servizio di manutenzione della rete piezometrica nel sito d’interesse nazionale della Val Basento alla ditta ATR Srl di Acerra.

Veniamo ai giorni nostri. Il comune di Napoli indice una gara da 204.750 euro per la rimozione su chiamata e per lo smaltimento di eternit e amianto abbandonato fraudolentemente sul territorio comunale, occorre quindi un'azienda specializzata nella rimozione e nello smaltimento corretto del pericolosissimo materiale. ATR ha sconfitto la concorrenza, una sola altra impresa aveva risposto alla richiesta di manifestazione di interesse, in virtù di un ribasso del 44,9%. Lavorerà, dunque, per 112.776 euro.

Giovanni Pellini, uno dei tre fratelli, è socio di ATR insieme ai parenti Ilenia e Domenico Pellini, a Maddalena Crispo ed a Luca Piscitelli. Posseggono un quinto delle quote ciascuno. Amministratore unico e rappresentante legale, un nome nuovo, incensurato, non con le mani sporche di traffici e di ecomafie; direttore tecnico un altro nome nuovo e "pulito" preso da fuori regione.

Per carità, in Italia i gradi di giudizio sono tre, e nessuno vuole imbastire un processo mediatico a Giovanni Pellini, tuttavia da parte del comune di Napoli sarebbe forse stata opportuna una maggiore cautela nell'affidare un appalto su una materia delicata, prima di dare soldi pubblici ai privati. Così non è stato. La commissione aggiudicatrice? Tutta interna al comune di Napoli: i direttori del settore Ambiente e del settore Igiene e Decoro ed un amministrativo.

Il verbale della gara, fa rabbrividire, e sprofondare nell'incubo: ATR è stata premiata dalla commissione unicamente in virtù del maggior ribasso e dopo avere esaminato "la regolarità della documentazione presentata, contenente l’autodichiarazione sul possesso dei requisiti previsti dal codice dei contratti, nonché quella relativa all’assenza di cause ostative ed alla sottomissione al protocollo di legalità". Tutto in regola, per la commissione, nonostante la presenza tra i soci di un condannato in Appello per traffico di rifiuti, con l’aggravante del disastro ambientale.

L'attuale vicesindaco di Napoli, Raffaele Del Giudice, interpellato in merito da un giornalista del Corriere, ha dichiarato: "Dalle verifiche che ho effettuato dopo la segnalazione del Corriere del Mezzogiorno, non sono emersi elementi formali e legali per non assegnare il lavoro ad Atr. Sono sempre più convinto della necessità di adeguare gli strumenti di monitoraggio delle imprese e di creare aziende pubbliche in grado di effettuare interventi di risanamento ambientale delicati ed a rischio".

Assolutamente giusto nello spirito, ma “in nome del popolo inquinato” - e quello campano lo è - è certamente triste che vengano fatte verifiche solo documentali e si diano appalti a chi ha inquinato già abbastanza; che possano costoro aggiudicarsi appalti per pulire e poi portare (dove?) i materiali rimossi. Verranno smaltiti da un privato che seguirà tutte le regole e le norme di sicurezza, anche in presenza di una condanna in appello per aver fatto l'esatto opposto?

Tirando le somme, basta un'autodichiarazione sul possesso dei requisiti richiesti dal codice dei contratti, con buona pace per ostative prefettizie, casellari giudiziali, eccetera, basta sottoscrivere un protocollo di legalità, un patto. Sperando che ai patti facciano seguito i fatti, altrimenti sarà una storia già vista: gli inquinatori che mettono le mani sui soldi per bonificare ciò che è stato inquinato.

di Tania Careddu

“Ho deciso di venire in Italia perché ho visto delle foto di alcuni amici su Facebook, erano belle... quando erano in Egitto le loro facce erano stanche mentre in quelle foto erano belli, riposati, con il sorriso. (…). Avevo deciso di partire e, per convincere mio padre a pagarmi il viaggio, gli mostravo le foto del mio amico ma mio padre mi diceva di non fidarmi di internet”.

E' l'inizio del racconto di M. diciassette anni, egiziano, adolescente migrante non accompagnato giunto in Italia a Save the children che riporta le sue parole nel dossier "Minori migranti: in viaggio attraverso la Rete".

“Dato che avevo lasciato la scuola, assillavo in continuazione i miei genitori perché mi pagassero il viaggio. Mia madre appoggiava la mia decisione di partire per evitare i conflitti quotidiani in famiglia. Il mio povero padre è stato costretto a indebitarsi con la banca e a ipotecare la nostra casa per pagarmi il viaggio verso l’Italia. Quando sono arrivato in Sicilia, ho telefonato al mio amico al numero italiano che avevo trovato sulla sua pagina Facebook. Gli ho chiesto di ospitarmi da lui a Milano. Il mio amico ha iniziato a raccontarmi le sue difficoltà e mi ha consigliato di rimanere nella struttura fino a quando non avrò il permesso di soggiorno. Solo ora mi sono reso conto delle bugie del web. Aveva ragione il mio povero papà!”

L'impatto con l'Italia lo emoziona: foto del Duomo, del Colosseo “che era bellissimo e loro sembravano contenti”. Rappresentazione vera o costruita ma, per loro, promessa di un sogno realizzato. Vedere sui social network belle foto della vita in Italia, postate da amici e conoscenti coetanei e connazionali, ha alimentato il desiderio di partire. Con aspettative che si sono scontrate poi con una realtà diversa.

I racconti dei parenti via telefono o i consigli di amici attraverso la Rete, facebook in particolare, hanno rafforzato la decisione. Con il cellulare hanno organizzato il viaggio e tengono i contatti con gli organizzatori; una volta intrapresa la traversata, gli adolescenti non hanno mai avuto la possibilità di accedere a internet. Dovevano “tenere i cellulari spenti altrimenti la polizia ci localizzava nella barca”.
Ben nascosti durante il viaggio per non essere derubati, i cellulari rappresentano l’unico legame con chi si è lasciato. Per sentire la loro voce o vedere, solo una volta arrivati a destinazione, le foto dei volti cari scattate prima di partire.

Prosegue il racconto: “Ho fatto tante foto prima di partire mentre ero in Egitto con la mia famiglia e con i miei amici e anche durante il viaggio, con i miei amici, prima di prendere la barca; poi le ho messe in una memory card per poterle riguardare al mio arrivo in Italia...purtroppo ho perso la card in acqua durante la traversata ad Alessandria”. Ma durante il viaggio, no. Nessuna foto né video, non c’era molto da ricordare. Tranne in pochi casi, quando lo smartphone è stato strumento per documentare le vessazioni e gli abusi in cui sono stati coinvolti.

Utile quando arrivano in Italia, la Rete utilizzata tramite wi-fi ha una funzione fondamentale per i minori soli. Consente di mantenere i contatti con gli affetti, di fare nuove amicizie, di svagarsi fungendo da decompressore da esperienze molto pesanti, di pianificare i prossimi passi nelle diverse fasi del viaggio, sia nel proseguimento sia nel percorso di integrazione nel Paese ospitante, anche per imparare la lingua o per cercare un’occupazione.

Quasi tutti hanno un profilo facebook e il 19,4 per cento ha avuto brutte esperienze su internet, principalmente in relazione a tentativi di approccio da parte di sconosciuti: a M., egiziano di diciotto anni, è successa “una cosa brutta. Parlavo con una ragazza per conoscerla e poi ho scoperto che era un uomo gay”.

Secondo alcuni dei ragazzi intervistati, provenienti soprattutto dall’Egitto, dal Gambia, dalla Guinea, dalla Nigeria, dal Mali e dal Senegal, esistono dei profili facebook falsi, creati dai loro connazionali nei quali vengono riportate informazioni false sulla loro vita in Europa, per spingere gli adolescenti come loro a contattarli.

Con tutt’altro che buone intenzioni: il rischio di adescamento, spesso attraverso la richiesta di materiale fotografico in cambio di denaro, è particolarmente alto.

Ma in una dinamica di comunicazione distorta, diretta a chi è rimasto nel Paese d’origine, ci cadono anche gli adolescenti arrivati in Italia: sui social network postano la rappresentazione del lato positivo delle cose o di sé stessi. Nascondono parte o tutta la realtà, spingendo chi si lascia abbindolare, a intraprendere un percorso che può rivelarsi molto pericoloso. I sogni possono cadere nella rete.

di Tania Careddu

“Quando chiedo alle persone perché rischiano la vita in questo modo, ricevo ogni volta la stessa risposta: ‘Non abbiamo alternativa’. Queste persone conoscono i pericoli, ma rischiano comunque. Ci dicono che preferirebbero annegare cercando sicurezza e libertà piuttosto che restare nei loro paesi d’origine o in Libia dove le loro vite non valgono la pena di essere vissute”, racconta un coordinatore dell’emergenza di Medici Senza Frontiere, sulla nave My Phoenix, nel rapporto Corsa a ostacoli verso l’Europa.

Rischi e pericoli, che corrono oltre un milione di persone in fuga da guerre e persecuzioni, dei quali i principali responsabili sono i governi europei e le loro politiche di deterrenza. Propongono un vuoto di alternative alle pericolose traversate del mare, recinzioni di filo spinato per chiudere i confini, continui cambiamenti nelle procedure amministrative e di registrazione, condizioni di accoglienza del tutto inadeguate, soprattutto in Italia e in Grecia, fino a veri e propri atti di violenza in mare e alle frontiere di terra.

Un approccio inumano e inaccettabile che ha conseguenze concrete sulla salute, sia fisica sia psicologica, dei rifugiati, dei richiedenti asilo e dei migranti. Una serie di patologie che, a detta degli operatori di Msf, poteva essere facilmente prevenuta se gli Stati europei avessero garantito un sistema di accoglienza adeguato (agli esseri umani) e un passaggio sicuro.

Come non è, invece, attraversare il Mediterraneo: il 2015, in seguito all’assenza, appunto, di alternative legali al viaggio su barconi sovraffollati guidati da trafficanti, è stato l’anno con la più alta mortalità nel Mare nostrum, in cui tremila e settecento persone circa hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa. Quelli che vi approdano, baciano terra. Esultano. Piangono di sollievo. Senza conoscere ancora, però, le condizioni di accoglienza. Precarie: bisogni elementari spesso negati e costante mancanza di informazioni.

Benvenuti in Italia. Che ha, sì, un sistema di accoglienza funzionante ma largamente insufficiente: centri sovraffollati con scarso accesso ai servizi essenziali – vedi assistenza medica, psicologica, supporto legale e amministrativo -, carenza di mediatori culturali qualificati e interpreti ad aiutarli a dare un senso a ciò che stanno vivendo. Invece, il più delle volte, più che rispondere immediatamente a bisogni medici e umanitari dei migranti, la priorità delle autorità è identificarli.

Perché la rotta continua in terraferma. E le frontiere sembrano ingestibili. Aprirle e chiuderle (in modo incostante e repentino), senza alcuna pianificazione adeguata sembra l’unica via possibile per controllare il flusso di persone che cerca asilo nell’Europa settentrionale e occidentale. Decisioni unilaterali e mancanza di coordinamento tra gli Stati europei hanno generato pericolo per migliaia di loro: brutalmente fermati, bloccati in una terra di nessuno, con assistenza umanitaria e medica inesistente.

Le conseguenze sulla salute sono quasi tutte legate al viaggio, tipo infezioni del tratto respiratorio, problemi ossei e muscolari e alla pelle, ma l’impatto più significativo ricade sulla salute mentale. Di fronte alla mancanza di assistenza da parte delle agenzie governative e alle violenze costanti, alle aspre condizioni alle frontiere e al senso di incertezza perenne, la risposta è un aumento degli attacchi di panico e di tendenze autolesioniste. Persone vulnerabili dalle quali gli Stati hanno urgenza di difendersi. Catastrofico fallimento dell’Unione europea.

di Tania Careddu

E’ emergenza. E rischia di diventare cronica. Fra provvedimenti in ordine sparso e misure addirittura controproducenti, l’inquinamento, nelle città italiane, dilaga. Polveri sottili - PM10 - minacciano brutalmente quarantotto su novanta città monitorate, con Frosinone in testa, seguita da Pavia, Vicenza, Milano e Torino, le quali hanno superato i trentacinque giorni permessi dalla legge. Polveri ancora più fini - PM2,5 - attaccano Monza, Milano e Cremona, che hanno oltrepassato i venticinque microgrammi per metrocubo.

Per non parlare, poi, di altri inquinanti atmosferici tipici degli ambienti urbani - ossidi di azoto e ozono troposferico - meno immediati nel determinare il superamento dei limiti consentiti, ma che, a lungo termine, mostrano criticità sostanziali: Genova e Rimini in testa, con Bologna, Mantova e Siracusa a seguire.

Qualche numero: nel 2012, l’Italia ha registrato il primato legato alle morti per PM2,5, circa cinquantanove mila casi, e, nel 2010, i costi collegati alla salute derivanti dall’inquinamento dell’aria si stimano tra i quarantasette e i centoquarantadue miliardi; confrontando il periodo dal 2009 al 2015 emerge che nei sette anni considerati, le città coinvolte siano prevalentemente sempre le stesse, ventisette città lo sono sistematicamente.

A farne le spese è soprattutto il Nord Italia ma è solo conoscendo profondamente l’origine dell’inquinamento atmosferico e le principali fonti che contribuiscono alla sua formazione che è possibile prospettare interventi adeguati. Traffico, industria, riscaldamento, agricoltura, responsabili delle emissioni di PM2,5 e di PM10, devono essere associati a fonti di inquinamento di origine secondaria, da non sottovalutare, ossia quelle che non lo generano per via diretta ma in seguito a reazioni chimiche tra le sostanze già presenti in atmosfera.

Un mix responsabile di patologie cardiovascolari e polmonari e a causa del quale ogni persona residente in Italia perde più di nove mesi di vita - quattordici mesi al Nord, sei mesi e mezzo al Centro, più di cinque mesi al Sud e alle Isole - e quelli che vivono nei centri urbani rinunciano a un anno e cinque mesi di vita. Polveri che non si vedono ma che, a lungo andare, si fanno sentire.

Tanto quanto l’inquinamento acustico: nel 2014, i cittadini dei capoluoghi hanno presentato quasi duemila esposti (undici ogni centomila abitanti) e, secondo una stima internazionale, riportata da Legambiente nel dossier Mal’aria, l’Italia è seconda solo agli Stati Uniti, con Napoli al terzo posto dopo New York e Los Angeles.

Non solo fastidioso, il rumore contribuisce ad almeno diecimila casi di morti premature, ogni anno, dovute a coronaropatia e ictus e disturbi del sonno di otto milioni di individui, oltre a essere fisicamente stancante e alterare le funzioni degli organi. Il 90 per cento di questi effetti deriva dal traffico, sono quasi sei milioni i cittadini italiani esposti al rumore del traffico a livelli inaccettabili e quasi cinque milioni quelli disturbati durante la notte.

Chissà se utilizzando pneumatici silenziosi, come previsto dal regolamento del Parlamento europeo, in vigore da aprile prossimo, l’Italia diventerà più silenziosa.



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