di Tania Careddu

Si chiama Giubileo Straordinario della Misericordia. Ma di straordinario e di misericordioso ha ben poco. Almeno, per i rom. In seguito all’annuncio dell’evento, indetto da Papa Francesco il 13 marzo del 2015, è sensibilmente aumentato, infatti, il tasso di sgomberi forzati di comunità rom dai loro insediamenti. Passando da una media di tre sgomberi al mese prima della definizione delle date del Giubileo - dall’8 dicembre 2015 al 20 novembre 2016 - a una media mensile di quasi dieci, da marzo a settembre dell’anno scorso.

Cioè, sette sgomberi forzati, circa cento persone coinvolte, con una spesa stimata di centoventimila euro prima dell’annuncio del Giubileo versus sessantaquattro, circa novecentosettantacinque persone, per una spesa pari a un milione e duecentoventicinque mila euro dopo l’annuncio.

Secondo una prassi che si ripete: all’organizzazione di grandi eventi nella Capitale corrisponde un aumento significativo delle azioni di sgombero. Tanto da portare alcuni a parlare, in occasione del Giubileo del 2000, di ‘Giubileo nero degli zingari’. E pensare che in una città occupata da due milioni e ottocentosettantadue mila abitanti, i rom rappresentano lo 0,09 per cento. Eppure, da anni, per l’amministrazione capitolina costituiscono un’emergenza. La più grave.

Tradotta nel ‘Piano nomadi’ prima e nell’adozione di una Strategia Nazionale di Inclusione dei rom, dei sinti e dei camminanti poi, con un unico risultato: gli sgomberi forzati continuano a essere la sola risposta che le autorità della Capitale forniscono alle famiglie rom che abitano gli insediamenti formali. Muovendole secondo un approccio esclusivamente securitario.

Per gli altri. Perché per i diretti interessati, le operazioni di sgombero non sono mai accompagnate dalle appropriate garanzie procedurali come vorrebbero gli standard internazionali sui diritti umani. Senza nessun atto formale che preveda modalità di ricorso e, spesso, con la distruzione di beni di proprietà delle famiglie.

Di più: a fronte di una spesa considerevole, costituita da risorse pubbliche, l’approccio dell’amministrazione di Roma fallisce sistematicamente nel raggiungere l’obiettivo. Cioè, il rispristino del decoro e della sicurezza non risolve mai la criticità. Ma, si sa, il consenso dell’elettorato non si può deludere e le lamentele dei cittadini, potenziali elettori, sulla precarietà igienico-sanitaria degli insediamenti, vanno ascoltate.

E pazienza se nelle persone coinvolte si amplifica la vulnerabilità, rimanendo “senza niente, senza idee sul nostro destino”. Tanto, presumibilmente, non votano. Nel frattempo, però, il vuoto originato dall’assenza di una visione politica che propenda per un approccio di stampo sociale inclusivo e la mancanza di coordinamento tra gli attori-chiave, conduce, come è ovvio, a un’escalation di tensioni sociali ed è economicamente insostenibile. Oltre a ledere i diritti umani. Nella negazione di un alloggio adeguato.

Visto che, oltretutto, l’Italia è stata parte di vari trattati internazionali sul tema, tra cui il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, il Patto internazionale sui diritti civili e politici, la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, e la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale. Ma i grandi eventi, elezioni comprese, sono un’altra cosa. In presenza di questi, lo spettacolo deve continuare.

Pure se qualcuno, vedi l’Associazione 21 luglio che ha anche redatto il briefing sul punto ‘Peccato capitale’, chiede a gran voce al Comune di Roma, una moratoria sugli sgomberi forzati dei rom nel periodo del Giubileo della Misericordia. Un Anno Santo Straordinario per rendere “più evidente la missione della Chiesa di essere testimone della sua misericordia”. Per tutti?

di Tania Careddu

Vuoi per un saldo naturale, vuoi per un saldo migratorio con l’estero, vuoi per le operazioni di assestamento e revisione delle anagrafi, sta di fatto che la popolazione italiana si riduce. Nel 2015, perde centotrentanove mila unità. Diminuisce con maggiore intensità nel Mezzogiorno, in Liguria, Valle d’Aosta, Basilicata e Marche, con un’inversione di tendenza in Lombardia e Trentino Alto Adige. Un cambiamento rilevante nel contesto storico di un Paese che dal 1952 in avanti aveva sempre visto crescere la sua popolazione.

Medici, epidemiologi e demografi sono in allerta. Si, perché il 2015, oltretutto è stato anche l’anno dei decessi. Cinquantaquattro mila in più rispetto al 2014. Pochi nella provincia di Bolzano, molti in Valle d’Aosta. Più femmine che maschi, di ottantaquattro anni circa versus ottantanove per le donne. Fattori climatici ed epidemiologici alla base della mortalità, il picco del 2015 porta con sé, però, significativi effetti strutturali vista la particolare concentrazione dell’incremento di mortalità nelle classi d’età molto anziane.

In secondo luogo, è accertato che l’impennata rappresenti una risposta proporzionata e contraria alle diminuzioni di mortalità riscontrate negli anni precedenti. Anche se l’aumento della mortalità non ha rallentato il processo di invecchiamento della popolazione. Che prosegue inesorabile il suo cammino: la Liguria è la regione con l’età media più alta, seguita dal Friuli Venezia Giulia e dalla Toscana. La più giovane, la Campania.

E, nel 2015, diminuisce pure la speranza di vita, in particolar modo per le donne. E anche le nascite. Nuovo record di minimo storico dall’Unità d’Italia a oggi: ben quindicimila in meno rispetto all’anno passato. Non solo non viene più garantito il ricambio generazionale ma da nove anni a questa parte continua a peggiorare. In parte riconducibile alla trasformazione strutturale della popolazione femminile in età feconda, il tasso di natalità scende in tutta la Penisola uniformemente, con picchi in Liguria e in Sardegna.

E laddove il Belpaese è più fecondo (terzultimo nella classifica europea), si nota, in ogni caso, una riduzione del numero dei figli per donna, che in media sposta in avanti l’età per concepire il primo. Il protrarsi degli effetti sociali della crisi economica, con difficoltà lavorative e abitative connesse e un generale senso di precarietà annesso, rallentano la progettualità genitoriale. Al calo demografico, poi, hanno contribuito i centomila cittadini italiani che si sono trasferiti all’estero e sono stati depennati dall’anagrafe italiana. Un dato in aumento rispetto al 2014.

E se la contrazione delle nascite, cosi come riporta l’Istat, interessa soprattutto le coppie italiane, anche i nati da stranieri stanno diminuendo, dando l’idea di una tendenza, vera per tutti, che va consolidandosi, del cambiamento dei modelli culturali di famiglia. In barba ai movimenti profamiglia e ai rigurgiti cattolici.

di Tania Careddu

Non si conoscono le cifre esatte. Ma basti sapere che sono ottomila nella Repubblica Democratica del Congo, intorno ai sedici mila in Sud Sudan e circa dieci mila nella Repubblica Centrafricana. Il 40 per cento sono bambine. Minori sotto i diciotto anni, usati come soldati nei conflitti di tutto il mondo. Nello Yemen, in Somalia, in Nigeria e in Siria. Vengono utilizzati dalla forze armate in vari modi: combattenti, cuochi, facchini, messaggeri, spie, informatori, guardie ai posti di blocco o in altri luoghi strategici. Alcuni sono soldati a tutti gli effetti, altri sono adoperati come portatori di munizioni o vettovaglie.

Le armi automatiche e leggere hanno reso più facile l’arruolamento dei bambini e il perdurare dei conflitti sempre più urgente trovare nuove reclute per rimpiazzare le perdite. Già a dodici anni subiscono l’addestramento militare e la proliferazione di gruppi armati e l’avanzamento militare dell’ISIS, soprattutto in Iraq e in Siria, stanno portando i minori a essere sempre più vulnerabili al reclutamento.

Non chiedono paghe, sono più indottrinabili di un adulto e, certamente, più controllabili. Affrontano il pericolo con maggiore incoscienza, attraversando campi minati e intrufolandosi nei territori nemici. Puniti in modo severo per gli errori, la tentata ribellione può portare agli arresti quando non a esecuzione sommaria.

La maggioranza dei bambini soldato proviene da situazioni economiche o sociali svantaggiate e di lontananza dalle famiglie. Sono spesso orfani, figli di single o rifugiati non accompagnati. Oppure vivono nei campi profughi. Vittime di una grande incertezza, sono alla mercé dei gruppi armati. A volte, volontariamente. Per sopravvivere, per la fame o per la necessità di protezione.

Credendo alla promessa, magari, di “ricevere un’istruzione, di diventare potenti e rispettati”, racconta Wani, un ex bambino soldato, a Intersos. Oppure per rivendicare atrocità commesse contro i propri familiari. E anche di fronte alla possibilità di fuggire, ad alcuni, il “legame distorto” che si è creato con la milizia, rende immobili. Per la paura di perdere quel “senso di appartenenza” conquistato con l’arruolamento.

“Non possiamo aspettare la pace, per aiutare i bambini intrappolati nelle guerre. Dobbiamo investire in interventi concreti per tenerli lontani dalle linee di combattimento, soprattutto attraverso l'istruzione e il sostegno economico. Dobbiamo ricordarci che sono anche queste le situazioni da cui tanti bambini e adolescenti fuggono per cercare protezione in Europa”, afferma il Presidente dell’UNICEF Italia, Giacomo Guerrera. Che prosegue: “Fino a quando queste gravi violazioni continueranno, la comunità internazionale non avrà onorato la sua promessa di porre fine, una volta per tutte, al reclutamento e all'impiego di bambini nei conflitti armati”.

Complessivamente, l’UNICEF, nel 2015, ha assicurato il rilascio di oltre diecimila minori da eserciti regolari o da gruppi armati e ottomila di loro li ha inseriti in un progetto di reintegrazione. Che, nella Repubblica Centrafricana, è portato avanti da Intersos: accolti in un centro minorile, gli ex bambini soldato vengono reinseriti a scuola e nelle comunità, riunificati alle loro famiglie o affidati a famiglie generose. Per deporre le ultime, residue, armi della violenza dell’indifferenza.

di Tania Careddu

Isolato per la prima volta nel 1947 in una scimmia della foresta di Zika, in Uganda, il virus, che si trasmette tramite le zanzare, ha provocato piccole epidemie sporadiche in Africa e nel Sud-est asiatico. Fino ad aprile 2015, quando è comparso in Brasile e si è, piano piano, diffuso in diversi Paesi delle Americhe. Con il rischio di tre o quattro milioni di contagi.

Il primo febbraio 2016, a detta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, è emergenza internazionale di salute pubblica. Con l’obiettivo specifico di uno sforzo coordinato contro di esso. E verso il diritto alla salute. Spesso negato. Soprattutto nelle periferie del mondo.

Dove malattie altrove curabili, diventano epidemie mortali. Debellabili non solo attraverso un intervento sanitario ma con un approccio multidimensionale, più complesso ma più incisivo, che tenti di ridurre anche la povertà e di incentivare l’universalità dell’istruzione primaria.

Dati recenti dicono che le malattie infettive varcano velocemente i confini nazionali. Perciò, oggi, le malattie infettive restano una minaccia globale: pressione demografica, cambiamento climatico, incremento della mobilità della popolazione a livello mondiale potrebbero contribuire all’insorgere di nuove forme di epidemia.

Come non ricordarsi della SARS, nel 2003, comparsa in un viaggiatore a Hong Kong e propagatasi in ventinove Paesi, colpendo più di ottomila persone o dell’influenza H1N1, nel 2009, che ha seminato oltre diciottomila morti in tutto il mondo? Le malattie infettive sono, però, causa dell’uno per cento dei decessi nei Paesi industrializzati e il 40 per cento di quelli dei Paesi in via di sviluppo.

Dove le comunità sono più vulnerabili, più esposte al rischio e con minore accesso alle misure preventive, ai servizi diagnostici e alle cure. Dove i sistemi sanitari sono fragili, privi di fondi sufficienti a renderli funzionali, delle risorse umane necessarie, degli strumenti e dei materiali per rispondere alle diverse patologie, il livello delle norme igienico-sanitarie basso, la consapevolezza inferiore.

Sono vere e proprie crisi umanitarie, sociali ed economiche. Sono lo specchio delle disuguaglianze del mondo. Di un mondo che deve fare i conti con la corruzione nel sistema sanitario pubblico, che è costretto a pagare di più rispetto alle tariffe prestabilite, più o meno simboliche, o a corrispondere una tariffa di prestazione supplementare ai professionisti.  Che operano con retribuzioni troppo basse e sono in numero esiguo (il numero dei medici è fortemente sbilanciato nel mondo).

L’accesso ai medicinali è ostico: quelli essenziali sono spesso costosi e non sempre di qualità, acquistati spesso da privati o al mercato nero o ai banchi del mercato vero e proprio. Gli investimenti sulla sanità in questi Paesi a basso reddito, sono troppo limitati e molti interventi sono stati resi possibili grazie a donatori esterni.

Ma con la crisi finanziaria, i contributi degli Stati sono drasticamente diminuiti, i tagli al budget dell’OMS sono stati inevitabili e ne hanno risentito le strutture incaricate di far fronte alle grandi epidemie, le procedure dell’OMS per reclutare personale in caso di emergenza sono lunghe e complicate.

Portare aiuti finanziari, materiali e umani nell’emergenza è indispensabile ma, si chiede la Caritas nel dossier “Salute negata”, quando le organizzazioni internazionali che contribuiscono alla lotta contro le epidemie lasciano i Paesi interessati o diminuiscono i fondi e le risorse a disposizione, che succederà?

di Alessandro Iacuelli

E' come nei peggiori incubi. In una Regione ambientalmente disastrata come la Campania, in una grande città come Napoli, la terza d'Italia per numero di abitanti, succede che un appalto pubblico, per smaltire l'amianto gettato qua e là in giro in decenni di incuria, venga affidato ad un soggetto già condannato in primo e in secondo grado di giudizio a sette anni di reclusione per traffico illecito di rifiuti speciali, peraltro con l'aggravante del disastro ambientale. Il soggetto inquinatore diventa così soggetto bonificatore, pagato con soldi pubblici.

Sono passati esattamente dieci anni da quando, proprio qui su Altrenotizie, scrivemmo della ditta Pellini di Acerra, all'indomani dell'arresto dei tre gestori, i fratelli Giovanni, Salvatore e Cuono Pellini: "Dal Veneto, arrivavano ad Acerra fanghi tossici e rifiuti di ogni tipo, soprattutto chimici, che la ditta Pellini stoccava e rivendeva come fertilizzanti che finivano per fertilizzare i terreni agricoli.

Il tutto, secondo le accuse della Procura, con la complicità" di un soggetto all'epoca in servizio presso i Carabinieri di Acerra; infatti il Salvatore Pellini era appartentente all'Arma con il grado di maresciallo e, secondo le sentenze di primo e secondo grado, ha sfruttato la sua posizione per favorire l'attività criminale dell'azienda di famiglia.

Il 29 gennaio 2015, la IV sezione penale di Corte d’Appello di Napoli ha condannato a sette anni di reclusione i tre fratelli, aumentando le pene rispetto alla sentenza di primo grado, per il reato di disastro ambientale aggravato. Si chiamano ecomafie, anche se l'aggravante mafiosa non è stata riconosciuta nella sentenza.

Nel frattempo i tre fratelli avevano già dato vita ad una nuova azienda, la ATR, pronta a “trattare” circa 400 mila tonnellate annue di rifiuti tossici e industriali (la maggior parte dei quali provenienti da fuori regione) in località Pantano, dove già sorgono l’inceneritore A2A, la ex Montefibre e la centrale da combustione a biomasse Friel.

Verso la fine del 2014, la Regione Campania aveva temporaneamente "sospeso" il progetto dell’azienda di smaltimento rifiuti riconducibile sempre ai Pellini è riconducibile, nel frattempo la sospensione è terminata, e l'ATR aveva iniziato a lavorare in Basilicata, infatti il primo ottobre 2006 il direttore dell’Agenzia regionale per la protezione dell’Ambiente di Basilicata, Aldo Schiassi, assegna mediante cottimo fiduciario l’affidamento definitivo del servizio di manutenzione della rete piezometrica nel sito d’interesse nazionale della Val Basento alla ditta ATR Srl di Acerra.

Veniamo ai giorni nostri. Il comune di Napoli indice una gara da 204.750 euro per la rimozione su chiamata e per lo smaltimento di eternit e amianto abbandonato fraudolentemente sul territorio comunale, occorre quindi un'azienda specializzata nella rimozione e nello smaltimento corretto del pericolosissimo materiale. ATR ha sconfitto la concorrenza, una sola altra impresa aveva risposto alla richiesta di manifestazione di interesse, in virtù di un ribasso del 44,9%. Lavorerà, dunque, per 112.776 euro.

Giovanni Pellini, uno dei tre fratelli, è socio di ATR insieme ai parenti Ilenia e Domenico Pellini, a Maddalena Crispo ed a Luca Piscitelli. Posseggono un quinto delle quote ciascuno. Amministratore unico e rappresentante legale, un nome nuovo, incensurato, non con le mani sporche di traffici e di ecomafie; direttore tecnico un altro nome nuovo e "pulito" preso da fuori regione.

Per carità, in Italia i gradi di giudizio sono tre, e nessuno vuole imbastire un processo mediatico a Giovanni Pellini, tuttavia da parte del comune di Napoli sarebbe forse stata opportuna una maggiore cautela nell'affidare un appalto su una materia delicata, prima di dare soldi pubblici ai privati. Così non è stato. La commissione aggiudicatrice? Tutta interna al comune di Napoli: i direttori del settore Ambiente e del settore Igiene e Decoro ed un amministrativo.

Il verbale della gara, fa rabbrividire, e sprofondare nell'incubo: ATR è stata premiata dalla commissione unicamente in virtù del maggior ribasso e dopo avere esaminato "la regolarità della documentazione presentata, contenente l’autodichiarazione sul possesso dei requisiti previsti dal codice dei contratti, nonché quella relativa all’assenza di cause ostative ed alla sottomissione al protocollo di legalità". Tutto in regola, per la commissione, nonostante la presenza tra i soci di un condannato in Appello per traffico di rifiuti, con l’aggravante del disastro ambientale.

L'attuale vicesindaco di Napoli, Raffaele Del Giudice, interpellato in merito da un giornalista del Corriere, ha dichiarato: "Dalle verifiche che ho effettuato dopo la segnalazione del Corriere del Mezzogiorno, non sono emersi elementi formali e legali per non assegnare il lavoro ad Atr. Sono sempre più convinto della necessità di adeguare gli strumenti di monitoraggio delle imprese e di creare aziende pubbliche in grado di effettuare interventi di risanamento ambientale delicati ed a rischio".

Assolutamente giusto nello spirito, ma “in nome del popolo inquinato” - e quello campano lo è - è certamente triste che vengano fatte verifiche solo documentali e si diano appalti a chi ha inquinato già abbastanza; che possano costoro aggiudicarsi appalti per pulire e poi portare (dove?) i materiali rimossi. Verranno smaltiti da un privato che seguirà tutte le regole e le norme di sicurezza, anche in presenza di una condanna in appello per aver fatto l'esatto opposto?

Tirando le somme, basta un'autodichiarazione sul possesso dei requisiti richiesti dal codice dei contratti, con buona pace per ostative prefettizie, casellari giudiziali, eccetera, basta sottoscrivere un protocollo di legalità, un patto. Sperando che ai patti facciano seguito i fatti, altrimenti sarà una storia già vista: gli inquinatori che mettono le mani sui soldi per bonificare ciò che è stato inquinato.


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