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di Tania Careddu
“Ho deciso di venire in Italia perché ho visto delle foto di alcuni amici su Facebook, erano belle... quando erano in Egitto le loro facce erano stanche mentre in quelle foto erano belli, riposati, con il sorriso. (…). Avevo deciso di partire e, per convincere mio padre a pagarmi il viaggio, gli mostravo le foto del mio amico ma mio padre mi diceva di non fidarmi di internet”.
E' l'inizio del racconto di M. diciassette anni, egiziano, adolescente migrante non accompagnato giunto in Italia a Save the children che riporta le sue parole nel dossier "Minori migranti: in viaggio attraverso la Rete".
“Dato che avevo lasciato la scuola, assillavo in continuazione i miei genitori perché mi pagassero il viaggio. Mia madre appoggiava la mia decisione di partire per evitare i conflitti quotidiani in famiglia. Il mio povero padre è stato costretto a indebitarsi con la banca e a ipotecare la nostra casa per pagarmi il viaggio verso l’Italia. Quando sono arrivato in Sicilia, ho telefonato al mio amico al numero italiano che avevo trovato sulla sua pagina Facebook. Gli ho chiesto di ospitarmi da lui a Milano. Il mio amico ha iniziato a raccontarmi le sue difficoltà e mi ha consigliato di rimanere nella struttura fino a quando non avrò il permesso di soggiorno. Solo ora mi sono reso conto delle bugie del web. Aveva ragione il mio povero papà!”
L'impatto con l'Italia lo emoziona: foto del Duomo, del Colosseo “che era bellissimo e loro sembravano contenti”. Rappresentazione vera o costruita ma, per loro, promessa di un sogno realizzato. Vedere sui social network belle foto della vita in Italia, postate da amici e conoscenti coetanei e connazionali, ha alimentato il desiderio di partire. Con aspettative che si sono scontrate poi con una realtà diversa.
I racconti dei parenti via telefono o i consigli di amici attraverso la Rete, facebook in particolare, hanno rafforzato la decisione. Con il cellulare hanno organizzato il viaggio e tengono i contatti con gli organizzatori; una volta intrapresa la traversata, gli adolescenti non hanno mai avuto la possibilità di accedere a internet. Dovevano “tenere i cellulari spenti altrimenti la polizia ci localizzava nella barca”.
Ben nascosti durante il viaggio per non essere derubati, i cellulari rappresentano l’unico legame con chi si è lasciato. Per sentire la loro voce o vedere, solo una volta arrivati a destinazione, le foto dei volti cari scattate prima di partire.
Prosegue il racconto: “Ho fatto tante foto prima di partire mentre ero in Egitto con la mia famiglia e con i miei amici e anche durante il viaggio, con i miei amici, prima di prendere la barca; poi le ho messe in una memory card per poterle riguardare al mio arrivo in Italia...purtroppo ho perso la card in acqua durante la traversata ad Alessandria”. Ma durante il viaggio, no. Nessuna foto né video, non c’era molto da ricordare. Tranne in pochi casi, quando lo smartphone è stato strumento per documentare le vessazioni e gli abusi in cui sono stati coinvolti.
Utile quando arrivano in Italia, la Rete utilizzata tramite wi-fi ha una funzione fondamentale per i minori soli. Consente di mantenere i contatti con gli affetti, di fare nuove amicizie, di svagarsi fungendo da decompressore da esperienze molto pesanti, di pianificare i prossimi passi nelle diverse fasi del viaggio, sia nel proseguimento sia nel percorso di integrazione nel Paese ospitante, anche per imparare la lingua o per cercare un’occupazione.Quasi tutti hanno un profilo facebook e il 19,4 per cento ha avuto brutte esperienze su internet, principalmente in relazione a tentativi di approccio da parte di sconosciuti: a M., egiziano di diciotto anni, è successa “una cosa brutta. Parlavo con una ragazza per conoscerla e poi ho scoperto che era un uomo gay”.
Secondo alcuni dei ragazzi intervistati, provenienti soprattutto dall’Egitto, dal Gambia, dalla Guinea, dalla Nigeria, dal Mali e dal Senegal, esistono dei profili facebook falsi, creati dai loro connazionali nei quali vengono riportate informazioni false sulla loro vita in Europa, per spingere gli adolescenti come loro a contattarli.
Con tutt’altro che buone intenzioni: il rischio di adescamento, spesso attraverso la richiesta di materiale fotografico in cambio di denaro, è particolarmente alto.
Ma in una dinamica di comunicazione distorta, diretta a chi è rimasto nel Paese d’origine, ci cadono anche gli adolescenti arrivati in Italia: sui social network postano la rappresentazione del lato positivo delle cose o di sé stessi. Nascondono parte o tutta la realtà, spingendo chi si lascia abbindolare, a intraprendere un percorso che può rivelarsi molto pericoloso. I sogni possono cadere nella rete.
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di Tania Careddu
“Quando chiedo alle persone perché rischiano la vita in questo modo, ricevo ogni volta la stessa risposta: ‘Non abbiamo alternativa’. Queste persone conoscono i pericoli, ma rischiano comunque. Ci dicono che preferirebbero annegare cercando sicurezza e libertà piuttosto che restare nei loro paesi d’origine o in Libia dove le loro vite non valgono la pena di essere vissute”, racconta un coordinatore dell’emergenza di Medici Senza Frontiere, sulla nave My Phoenix, nel rapporto Corsa a ostacoli verso l’Europa.
Rischi e pericoli, che corrono oltre un milione di persone in fuga da guerre e persecuzioni, dei quali i principali responsabili sono i governi europei e le loro politiche di deterrenza. Propongono un vuoto di alternative alle pericolose traversate del mare, recinzioni di filo spinato per chiudere i confini, continui cambiamenti nelle procedure amministrative e di registrazione, condizioni di accoglienza del tutto inadeguate, soprattutto in Italia e in Grecia, fino a veri e propri atti di violenza in mare e alle frontiere di terra.
Un approccio inumano e inaccettabile che ha conseguenze concrete sulla salute, sia fisica sia psicologica, dei rifugiati, dei richiedenti asilo e dei migranti. Una serie di patologie che, a detta degli operatori di Msf, poteva essere facilmente prevenuta se gli Stati europei avessero garantito un sistema di accoglienza adeguato (agli esseri umani) e un passaggio sicuro.
Come non è, invece, attraversare il Mediterraneo: il 2015, in seguito all’assenza, appunto, di alternative legali al viaggio su barconi sovraffollati guidati da trafficanti, è stato l’anno con la più alta mortalità nel Mare nostrum, in cui tremila e settecento persone circa hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa. Quelli che vi approdano, baciano terra. Esultano. Piangono di sollievo. Senza conoscere ancora, però, le condizioni di accoglienza. Precarie: bisogni elementari spesso negati e costante mancanza di informazioni.
Benvenuti in Italia. Che ha, sì, un sistema di accoglienza funzionante ma largamente insufficiente: centri sovraffollati con scarso accesso ai servizi essenziali – vedi assistenza medica, psicologica, supporto legale e amministrativo -, carenza di mediatori culturali qualificati e interpreti ad aiutarli a dare un senso a ciò che stanno vivendo. Invece, il più delle volte, più che rispondere immediatamente a bisogni medici e umanitari dei migranti, la priorità delle autorità è identificarli.Perché la rotta continua in terraferma. E le frontiere sembrano ingestibili. Aprirle e chiuderle (in modo incostante e repentino), senza alcuna pianificazione adeguata sembra l’unica via possibile per controllare il flusso di persone che cerca asilo nell’Europa settentrionale e occidentale. Decisioni unilaterali e mancanza di coordinamento tra gli Stati europei hanno generato pericolo per migliaia di loro: brutalmente fermati, bloccati in una terra di nessuno, con assistenza umanitaria e medica inesistente.
Le conseguenze sulla salute sono quasi tutte legate al viaggio, tipo infezioni del tratto respiratorio, problemi ossei e muscolari e alla pelle, ma l’impatto più significativo ricade sulla salute mentale. Di fronte alla mancanza di assistenza da parte delle agenzie governative e alle violenze costanti, alle aspre condizioni alle frontiere e al senso di incertezza perenne, la risposta è un aumento degli attacchi di panico e di tendenze autolesioniste. Persone vulnerabili dalle quali gli Stati hanno urgenza di difendersi. Catastrofico fallimento dell’Unione europea.
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di Tania Careddu
E’ emergenza. E rischia di diventare cronica. Fra provvedimenti in ordine sparso e misure addirittura controproducenti, l’inquinamento, nelle città italiane, dilaga. Polveri sottili - PM10 - minacciano brutalmente quarantotto su novanta città monitorate, con Frosinone in testa, seguita da Pavia, Vicenza, Milano e Torino, le quali hanno superato i trentacinque giorni permessi dalla legge. Polveri ancora più fini - PM2,5 - attaccano Monza, Milano e Cremona, che hanno oltrepassato i venticinque microgrammi per metrocubo.
Per non parlare, poi, di altri inquinanti atmosferici tipici degli ambienti urbani - ossidi di azoto e ozono troposferico - meno immediati nel determinare il superamento dei limiti consentiti, ma che, a lungo termine, mostrano criticità sostanziali: Genova e Rimini in testa, con Bologna, Mantova e Siracusa a seguire.
Qualche numero: nel 2012, l’Italia ha registrato il primato legato alle morti per PM2,5, circa cinquantanove mila casi, e, nel 2010, i costi collegati alla salute derivanti dall’inquinamento dell’aria si stimano tra i quarantasette e i centoquarantadue miliardi; confrontando il periodo dal 2009 al 2015 emerge che nei sette anni considerati, le città coinvolte siano prevalentemente sempre le stesse, ventisette città lo sono sistematicamente.
A farne le spese è soprattutto il Nord Italia ma è solo conoscendo profondamente l’origine dell’inquinamento atmosferico e le principali fonti che contribuiscono alla sua formazione che è possibile prospettare interventi adeguati. Traffico, industria, riscaldamento, agricoltura, responsabili delle emissioni di PM2,5 e di PM10, devono essere associati a fonti di inquinamento di origine secondaria, da non sottovalutare, ossia quelle che non lo generano per via diretta ma in seguito a reazioni chimiche tra le sostanze già presenti in atmosfera.
Un mix responsabile di patologie cardiovascolari e polmonari e a causa del quale ogni persona residente in Italia perde più di nove mesi di vita - quattordici mesi al Nord, sei mesi e mezzo al Centro, più di cinque mesi al Sud e alle Isole - e quelli che vivono nei centri urbani rinunciano a un anno e cinque mesi di vita. Polveri che non si vedono ma che, a lungo andare, si fanno sentire.Tanto quanto l’inquinamento acustico: nel 2014, i cittadini dei capoluoghi hanno presentato quasi duemila esposti (undici ogni centomila abitanti) e, secondo una stima internazionale, riportata da Legambiente nel dossier Mal’aria, l’Italia è seconda solo agli Stati Uniti, con Napoli al terzo posto dopo New York e Los Angeles.
Non solo fastidioso, il rumore contribuisce ad almeno diecimila casi di morti premature, ogni anno, dovute a coronaropatia e ictus e disturbi del sonno di otto milioni di individui, oltre a essere fisicamente stancante e alterare le funzioni degli organi. Il 90 per cento di questi effetti deriva dal traffico, sono quasi sei milioni i cittadini italiani esposti al rumore del traffico a livelli inaccettabili e quasi cinque milioni quelli disturbati durante la notte.
Chissà se utilizzando pneumatici silenziosi, come previsto dal regolamento del Parlamento europeo, in vigore da aprile prossimo, l’Italia diventerà più silenziosa.
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di Tania Careddu
Vivono in un limbo di identità e di diritti pur non avendolo scelto: sono apolidi. Senza una cittadinanza, senza documenti, invisibili. Non ha la possibilità di studiare, di sposarsi, di lavorare. Perché hanno perso (o non hanno mai avuto) la cittadinanza del loro Paese di origine. Una condizione che in Italia, dove il riconoscimento del loro status è molto difficoltoso a causa di procedure inaccessibili, può diventare una condanna.
Riconoscere ufficialmente l’apolidia è una prima possibilità di accedere ai diritti fondamentali. Sebbene sia una condizione dolorosa, permette però di ottenere un’identità. Perché “in assenza di qualsiasi senso di appartenenza (…), senza alcun collegamento con uno Stato”, Nyima, artista tibetano, il primo apolide in Italia, si è “sentito perso e abbandonato”, ha raccontato in occasione della presentazione della campagna #nonesisto, lanciata dal Consiglio Italiano per i Rifugiati, al fine di sensibilizzare sugli ostacoli che incontrano le persone apolidi nella vita quotidiana, cioè l’impossibilità pratica di accedere a un riconoscimento legale della propria condizione.
Un’esistenza negata che rischia di tramandarsi di generazione in generazione, facendone pagare le conseguenze ai bambini. E’ il caso dei figli nati da famiglie sfollate dell’ex Jugoslavia che hanno ereditato lo status di apolidia dai genitori o si sono ritrovati con una nazionalità incerta. Di più: questa condizione di irregolarità sostanziale impedisce loro di acquisire la cittadinanza italiana. Ed è una situazione in cui potrebbero ritrovarsi anche i rifugiati che stanno sbarcando sulle coste dello Stivale. Vedi, per esempio, i figli nati da madri siriane rimaste sole, impossibilitate a trasmettere la cittadinanza ai loro figli a causa della legge siriana che lo permette solamente ai padri.
Per la direttrice del CIR, Fiorella Rathaus, “l’apolidia è in sé una condizione estremamente complessa e dolorosa, perché presuppone l’inesistenza, la negazione del legame più importante che unisce un individuo al suo Stato: la cittadinanza. Ma questa condizione può divenire addirittura drammatica se non riconosciamo a queste persone identità e diritti. Tutti gli esseri umani hanno diritto ad avere una nazionalità, e coloro che sono sprovvisti hanno comunque diritto a una protezione adeguata.
Per questo motivo - ha proseguito la direttrice del CIR ha dichiarato - con questa campagna vogliamo creare una sensibilità sul tema che possa favorire in Italia l’introduzione della legge sull’apolidia, uno strumento normativo in grado di garantire una procedura chiara, facilmente accessibile e fruibile per tutti coloro che hanno diritto a chiedere il riconoscimento di apolidia e che include una regolamentazione dei diritti della persona, durante l’iter e dopo l’eventuale riconoscimento”.Si stima che in Italia siano quindicimila e sono solo seicentosei coloro che hanno uno status di apolidia riconosciuto; provengono dalla ex Jugoslavia, dalla Palestina, dal Tibet, dall’Eritrea, dall’Etiopia e dai Paesi ex Urss. L’UNHCR valuta che ogni dieci minuti, nel mondo, nasca un bambino apolide.
Per quelli che nascono nel Belpaese, predisponendo l’acquisizione della nazionalità (italiana) senza introdurre come requisito il riconoscimento formale dell’apolidia dei genitori, si assicura loro il godimento dei diritti fondamentali e di una vita dignitosa. Speriamo che il Disegno di legge sul riconoscimento dello status di apolide, presentato in Parlamento a novembre scorso, sia sulla buona strada.
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di Tania Careddu
Metti un giorno qualunque del 2015. Metti il ‘palinsesto’ di radio, televisione, stampa e web. Risultato: le donne sono sottorappresentate. E, sebbene gli ultimi cinque anni abbiano segnato un lento miglioramento, diventando, da argomento per poche addette ai lavori a questione di dominio pubblico, l’informazione italiana è ancora lontana da una bilanciata rappresentazione di donne e uomini. Non giustificabile se si pensa ai significativi mutamenti intervenuti nella società del Belpaese durante l’ultimo decennio, in particolare quelli attinenti alla partecipazione politica delle donne e all’aumento, fra la popolazione femminile, delle competenze. Pressoché invisibili sui media, vecchi e nuovi.
Secondo il Global Media Monitoring Project 2015, curato in Italia dall’Osservatorio di Pavia, nei media tradizionali, nonostante a fare notizie continuino a essere gli uomini, la presenza femminile è cresciuta (con riserva): marginalizzate nelle notizie di politica, più considerate in quelle relative a salute e scienza; con una visibilità mediatica ‘anonima’, cioè indipendente dal loro ruolo sociale o dalle loro esperienze professionali e invitate molto poco a commentare un evento.
Ben una donna su quattro fa notizia in quanto vittima, il 28 per cento è presentato sulla base di una relazione famigliare - madre, figlia di, moglie - piuttosto che sulla base di un’identità autonoma e individuale. Più segnalate nell’informazione estera e locale che in quella nazionale dove, sebbene facciano meno notizia dei maschi, hanno maggiore probabilità di essere ritratte in fotografia sui quotidiani.
Quanto ai media digitali, internet risulta il mezzo di comunicazione, in assoluto, più inclusivo per le donne che sulle pagine on line monitorate raggiungono il 29 per cento: ci compaiono soprattutto come oggetto di notizia e come portavoce di enti, istituzioni, associazioni, partiti.
E chi decide le notizie? Le centosettantasei registrate nel corso della giornata monitorata (precisamente, il 25 marzo 2015) sono state scritte, redatte o presentate da duecentoquarantuno giornalisti, il 36 per cento dei quali di sesso femminile, una proporzione prossima alla componente femminile reale nella categoria professionale (l’INPGI stima il raggiungimento del 40 per cento delle donne giornaliste). Ma, nonostante ciò, non si può certamente considerare gender-sensitive l’agenda del giorno: le notizie dedicate alle donne, infatti, hanno coperto solo l’8 per cento dell’informazione.Giornaliste giovani, di una fascia d’età compresa fra i trentacinque e i quarantanove anni, quelle dei vecchi mezzi di comunicazione ma invisibili nell’informazione digitale la quale, però, è quella più attenta a questioni di pari opportunità ma, paradossalmente, che più di tutte tende a rinforzare gli stereotipi attraverso il linguaggio, le immagini o la costruzione delle notizie, raccontando un mondo ancora molto convenzionale rispetto alle relazioni di genere.
Conseguenze: la continua sottorappresentazione delle donne nei media, in particolare in quelli tradizionali, da un lato rispecchia una società non ancora in grado di includere a pieno titolo le donne, specialmente nella vita pubblica, dall’altro, questa sottorappresentazione contribuisce a consolidare un’attitudine culturale incapace di promuovere una conoscenza e un approccio bilanciato alle problematiche di genere. Tirando le somme, “l’immaginario collettivo promosso dai media italiani relega le donne a un limitato numero di ruoli convenzionali: la donna come oggetto sessuale e la donna come madre casalinga”. Che negazione.