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di Tania Careddu
In Italia la spesa sanitaria annua pro capite è di quattrocentoquarantaquattro euro, di cui duecentosei in media destinati all’acquisto dei farmaci. Ma non per tutti. Quella delle persone indigenti, infatti, ammonta a sessantanove euro, destinandole l’1,8 per cento del budget domestico (versus il 3,8 per cento delle persone abbienti), dei quali cinquantadue euro dedicati a comprare medicinali. Ad acquistare i quali, ha rinunciato il 3,9 per cento degli italiani a causa di motivazioni economiche.
Aspetto, quello economico, che sembrerebbe intervenire anche a differenziare il quadro epidemiologico: se fra la popolazione media le patologie più diffuse riguardano la sfera cardiovascolare, fra i poveri le più frequenti sono quelle dell’apparato respiratorio e gastrointestinale. Maggiormente riscontrabili al Sud, dove si registra la più elevata incidenza di malattie croniche, mentre al Nord i farmaci più richiesti sono quelli che curano le vie respiratorie e al Centro quelli cardiovascolari.
Sono quattrocentocinquemila le persone che non possono permettersi l’acquisto di un farmaco. Italiani o stranieri, soprattutto maghrebini e dell’Europa orientale, poco conta, sono i maggiori beneficiari dei farmaci donati dagli enti caritativi che, nel 2015, hanno fatto lievitare la richiesta del 6,4 per cento, passando dalle ottocentodiciottomila confezioni nel 2014 alle ottocentosettantamila, hanno fra i diciotto e i sessantaquattro anni e sono principalmente uomini.
Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Sicilia e Lazio, le regioni più bisognose di farmaci; Valle d’Aosta e Molise, le più generose. Un milione e mezzo circa sono le confezioni donate nei primi sei mesi di quest’anno, provenienti, soprattutto, dalle aziende farmaceutiche e tramite il canale del recupero dei farmaci validi; un progetto che permette ai cittadini di donare, presso le farmacie che vi aderiscono, farmaci non utilizzati in corso di validità. Farmaci rimborsabili e non, integratori, analgesici, antipiretici, antinfiammatori orali e preparati per tosse e raffreddore, per un totale di oltre nove milioni di euro.
“La nostra analisi - dichiara Paolo Gradnik, presidente del Banco Farmaceutico, che ha curato la ricerca sulla povertà sanitaria in Italia - evidenzia come, nonostante alcuni segnali di ripresa economica, nel nostro Paese prevalga ancora nelle famiglie la tendenza a spendere meno per le cure mediche e sia ancora consistente il numero di poveri che per le difficoltà rinuncia ad acquistare i farmaci necessari. In questo contesto risulta fondamentale il lavoro del Banco Farmaceutico per permettere a tutti l’accesso ai farmaci".
"Ma il nostro contributo – prosegue Gradnick - non sarebbe possibile senza la grande rete di solidarietà che vede cittadini, farmacisti, volontari ed enti uniti insieme per aiutare gli ultimi della nostra società. Per far crescere il numero donatori è però fondamentale far conoscere a tutti che esiste una povertà farmaceutica. Il dossier, così come la nascita di una nuova applicazione per le donazioni e la condizioni in cui vengono venduti farmaci a prezzi esorbitanti, sono alcuni strumenti per sensibilizzare sempre più italiani su questa tematica”. Per diventare un poco più ricchi.
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di Tania Careddu
Conflitti e disastri naturali: eventi che portano con sé morte e devastazione. Oltre mezzo miliardo di bambini vive in aree a elevata incidenza di inondazioni, soprattutto in Asia; di essi, duecentosettanta milioni in paesi con scarso accesso ai servizi igienici adeguati e quasi cento milioni in paesi con scarso accesso all’acqua potabile. Cento sessanta milioni, invece, sono in zone esposte ad altissimi livelli di siccità, soprattutto in Africa.
Ogni anno centosettantacinque milioni di bambini rischiano di essere colpiti da disastri naturali. Cosicché devono far fronte allo sconvolgimento della propria formazione scolastica, subire traumi psicologici o sfruttamento, violenza e abusi, separazioni dai famigliari. Essere feriti o uccisi. Contrarre alcune tra le principali cause di mortalità infantile, come la malnutrizione, la malaria e la diarrea.
Più colpiti dai disastri, i bambini poveri ed emarginati. E quelli meno capaci di riprendersi. Tanto per dirne una, i minori con disabilità sono sicuramente penalizzati nei percorsi di evacuazione e i sussidi e le apparecchiature su cui alcuni di loro fanno affidamento per la loro sopravvivenza possono non essere più disponibili dopo un disastro. Bambini che risultano particolarmente vulnerabili anche nelle situazioni di conflitto armato. Circa duecentotrenta milioni di minori vivono in nazioni e regioni colpite.
Nel 2014, otto milioni di loro nella Repubblica araba di Siria, circa un milione sfollato a causa dell’esplosione di violenza in Iraq, poco meno di due milioni e mezzo nella Repubblica Centrafricana, duecentotrentacinque mila colpiti da malnutrizione acuta grave, soprattutto negli stati del Sud Sudan, nei quali il conflitto ha provocato lo sfollamento di quasi settecentocinquanta mila bambini, li ha esposti a un’esplosione di colera con più di sei mila casi e centosessantasette decessi, ha interrotto la frequenza scolastica di altri quattrocentomila e ha causato il reclutamento di dodicimila da parte di forze e gruppi armati.
Nei Paesi dell’Africa occidentale interessati dalle crisi, l’epidemia di ebola ha avuto effetti su quasi dieci milioni di bambini e giovani sotto i venti anni. Durante le crisi, che sono sempre meno emergenze a tempo limitato, i piccoli sono esposti a rischi sanitari e a ritardi nello sviluppo e perdono opportunità di apprendimento.
Ancora di salvezza in queste situazioni, sempre più frequenti, complesse e gravi, le risorse stanziate per l’istruzione sono, purtroppo, scarse, defraudando i minori delle possibilità di riprendersi nei successivi periodi. In quelli di conflitto, intanto, emerge prepotentemente la fragilità dei sistemi di emergenza, di sicurezza e sanitari.
E quando i disastri ambientali non sono causati dalla forza bruta della natura ma dipendono dalla violenza delle azioni illegali dell’uomo, a rimetterci sono sempre loro. E’ il caso dei reati ambientali. Uno su tutti: la Terra dei fuochi, dove la presenza di tumori è sovraincidente sui bambini. Vittime, appunto, della criminalità organizzata: fino a dicembre 2014, sono novecento, le vittime innocenti. Senza contare quante di loro si sono ritrovate private (per sempre e per mano dei criminali) del diritto di giocare con un genitore.
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di Tania Careddu
Lo dicono gli operatori sanitari. Lo confermano fonti internazionali. Lo dichiarano gli interessati: gli immigrati trovano, nella sanità italiana, un contesto, in gran parte, capace di dare risposte assistenziali e umane adeguate alla specificità delle loro esigenze. Sebbene il rapporto con i servizi erogati dal Sistema Sanitario Nazionale italiano, soprattutto all’inizio della loro permanenza nel Belpaese, sia molto poco intenso rispetto agli italiani, la sanità previene, cura e tutela la salute dei nuovi arrivati con efficacia e impegno identici a quelli messi in atto per gli italiani.
Che gli immigrati siano portatori di nuove (o vecchie) patologie, pregiudizio ancora dominante nell’immaginario collettivo, è da sfatarsi alla luce del loro accesso ai luoghi della sanità: ci arrivano solo al momento dell’insorgenza di una patologia in fase acuta.
Perché la demografia e l’epidemiologia informano che gli stranieri residenti nello Stivale stanno mediamente meglio degli italiani, prova ne sia il vigore con il quale resistono ai viaggi nelle ‘carrette del mare’. Poi perché hanno una percezione soggettiva del proprio stato di salute migliore rispetto agli italiani, che dipende anche da un differente approccio alla vita.
Cosicché, senza una ragione specifica, secondo quanto si legge nella ricerca del Censis, “I nuovi pellegrini”, a recarsi dal medico per una visita di controllo generale è il 7 per cento degli stranieri (soprattutto uomini) e i luoghi della prevenzioni sono meno affollati di immigrati che di italiani. Riluttanti ad aderire a programmi di screening, si espongono però, conseguentemente, a una più alta vulnerabilità nel manifestarsi di patologie, vedi malattie infettive degenerative (tipo l’epatite B) facilmente diagnosticabili, invece, con esami di routine. Seguite da malattie all’apparato respiratorio, digerente, ai denti, al sistema nervoso e a quello osteoarticolare.
E però, il rapporto con la sanità si esprime, in primo luogo, nei pronto soccorso: vi accedono una volta l’anno, soprattutto in seguito a incidenti in ambito lavorativo (essendo occupati in settori a più elevato rischio di infortuni). Succede soprattutto gli uomini: tunisini, albanesi, moldavi. E alle donne, marocchine soprattutto.
Donne che, fra le altre immigrate, contribuiscono ad aumentare il tasso di natalità nella Penisola. Eppure, tante di loro, vivono la maternità in condizioni di inadeguatezza, in contesti poco friendly che portano il 47 per cento delle gestanti a fare la prima visita ostetrica dopo il terzo mese di gravidanza e a ricorrere pochissimo all’allattamento al seno.
E sebbene la sanità italiana sia efficiente relativamente agli aspetti clinici, il disagio della maternità è legato a ragioni sociali intrinseche alla loro cultura. Per le donne africane, ad esempio, il parto è un’esperienza collettiva tipicamente femminile, tanto che quello in ospedale ha impatti significativi nella sua percezione, con pericolose associazioni tra parto e malattia).
I consultori famigliari diventano anche occasione di incontro per donne migranti, soprattutto filippine, ucraine, moldave e polacche,: punto di riferimento per trovare quel supporto di conoscenze essenziali per gestire, in autonomia, salute e sessualità. Esempio di quell’umana condivisione di situazioni comuni che, nei luoghi della sanità, trova la sua espressione più spontanea. Genera l’integrazione di fatto tra italiani e immigrati, fondata sulla scoperta dell’altro dentro le vicende della quotidianità, fatta di relazioni minute e non strutturate. Dove la discriminazione non trova forma. Ed evapora nelle sale d’attesa del medico di base che raccoglie non solo le malattie, ma soprattutto i disagi degli stranieri. Alla ricerca di un legame più consistente con il mondo che li circonda, per entrare nelle dinamiche di vicinato.
Una sanità locale, dunque, che garantisce alti standard assistenziali e tenta di rispondere alle loro peculiari esigenze che, innegabilmente, influenzano gli aspetti logistici e organizzativi dell’erogazione dei servizi sanitari.
Bisogna fare i conti, infatti, con l’impatto di convinzioni religiose che, spesso, mal si incastrano nel caso di degenza ospedaliera: cibi o abitudini alimentari del tutto diversi da quelli italiani, periodi di digiuno imposti dai credo, orari di visita che non si modulano sulle esigenze religiose. E con gli approcci culturali: donne che devono essere visitate solo da personale femminile, particolari accortezze nell’approccio alla paziente durante il periodo mestruale, pudicizia con cui si affronta la nudità, esercitano frizioni sulle reali necessità di cura.
Ostacolate, principalmente, dalla barriera linguistica. Oltre alla difficoltà a esprimere sintomi e disturbi, il problema è di comprensione semantica: il retaggio culturale porta ad attribuire senso e valenze differenti alla malattia. Ma, nonostante tutto, la sanità italiana contribuisce all’inclusione sociale, civile, culturale e umana degli immigrati. In tutti i linguaggi possibili.
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di Tania Careddu
Chi l’ha detto che la salute non ha prezzo? Liste d’attesa lunghissime, ticket eccessivamente gravosi, assistenza territoriale in affanno, malpractice e servizi per la salute mentale fuori uso: a fare le spese per le inefficienze di un Sistema Sanitario Nazionale sempre meno accessibile, i cittadini. Con la soluzione di rivolgersi progressivamente alle prestazioni sanitarie private.
Stando a quanto riporta il XVIII Rapporto PiT Salute 2015 Sanità pubblica, accesso privato, redatto da Cittadinanzattiva, al primo posto della classifica delle difficoltà segnalate, ci sono i tempi di attesa.
Esami diagnostici, interventi chirurgici e visite specialistiche possono attendere: mediamente, per una risonanza magnetica tredici mesi, per un’ecografia nove, per una mammografia dodici, per una colonscopia otto e per un elettrocardiogramma sette.
Esami (in generale) per i quali si registra anche un aumento del ticket. Altra frizione, l’esenzione del pagamento non solo troppo elevato, ma, relativamente al quale, spesso, le informazioni complete e corrette scarseggiano finanche alla mancata applicazione per imperizia del medico prescrivente o per mancata indicazione dei pazienti.
Numerose le prestazioni a costo pieno. Oltre che per l’acquisto dei farmaci, il peso del ticket sulla diagnostica e la specialistica sta diventando sempre più oneroso, così come i costi per le prestazioni in intramoenia, da dover sostenere per affrontare tempestivamente il bisogno di cura negato dalla sanità pubblica.
Un servizio, pure quello, di malpractice, al secondo posto nella graduatoria delle preoccupazioni dei cittadini: errori terapeutici - in ortopedia, chirurgia generale e oculistica e diagnostici in oncologia, ortopedia, ginecologia e ostetricia -; condizioni inaccettabili delle strutture, disattenzione del personale sanitario, infezioni nosocomiali e da sangue infetto.
Negate le visite a domicilio o il rilascio di una prescrizione da parte del medico di famiglia che originano lamentele sull’assistenza sanitaria di base. Voce, al terzo posto della lista, che turba il 30,1 per cento dei cittadini. Compresa la riabilitazione, carente o di scarsa qualità nei servizi ospedalieri e raramente attivabile a domicilio. In difficoltà anche la ASL che risentono della mancanza di fondi pure per il rinnovo o l’acquisto di apparecchiature.
In ultimo, ma fondamentali, i servizi per la salute mentale. Problema ormai cronico e ingravescente per l’assenza di risorse e di personale, le criticità più segnalate sono il ricovero in strutture inadeguate, la difficoltà di accesso alle cure pubbliche - per una visita psichiatrica, l’attesa è di tredici mesi - e le pratiche relative alle procedure di Trattamento Sanitario Obbligatorio.
Il 75,4 per cento reclama inefficienze relative ai servizi ricevuti in ospedale, soprattutto nella rete emergenza-urgenza: l’attesa per l’accesso al pronto soccorso rappresenta il più rilevante dei problemi. Seguito da quello della mobilità sanitaria. Sani a tutti i costi, certo. E a caro prezzo.
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di Tania Careddu
Dall’approvazione della legge penitenziaria del 1975, nella quale si prevedeva la costituzione di uno specifico ordinamento penitenziario minorile, nulla è cambiato. Il processo di decarcerizzazione dei minori che ha portato dagli ottomila e cinquecento ingressi ai circa cinquecento, è frutto di un cambiamento culturale e organizzativo e, non certo, di stravolgimenti normativi.
Il calo delle entrate si può osservare già analizzando la diminuzione di quelle nei Centri di prima accoglienza, ventisette in Italia, in cui i ragazzi sostano, in stato di fermo, per novantasei ore prima dell’udienza di convalida. Una tendenza al ribasso, spiegata anche dal collocamento alternativo all’istituto di pena: la comunità ministeriale o privata e la ‘messa alla prova’, una misura, non solo altra rispetto al carcere, ma anche al processo, sospeso durante l’istituto.
Sta di fatto che, a oggi, le presenza dei minori negli istituti di pena sono quattrocentoquarantanove, dato ormai più o meno stabile nel tempo, che dimostra, però, come il sistema della giustizia minorile, che punta all’interesse del ragazzo finanche rispetto alle esigenze di sicurezza (chapeau), sia riuscito a contenere il ricorso alla detenzione.
Ma proprio per questo, per i minori che non sono riusciti a intraprendere nessun percorso alternativo, risulta il luogo degli esclusi. Discriminatorio e stigmatizzante, sebbene dal 1988 in poi, il legislatore si sia mosso per evitare forme di etichettamento criminale, tipo non menzione nel casellario giudiziario e perdono giudiziale. Ottima mossa: negli ultimi venticinque anni, alla minore durezza della risposta punitiva, infatti, non è corrisposto un aumento dei tassi di devianza o di recidiva. Anzi, ha liberato il campo da prese di posizioni stereotipate (e qualunquiste) nel dibattito pubblico: la severità della pena non ha alcuna efficacia deterrente.
E se, dal punto di vista procedurale, il minore è tutelato, quanto alle norme penitenziarie, ferme, appunto al 1975, la strada da percorrere, verso un approccio educativo e di recupero sociale, è ancora lunga. Basti osservare le strutture, come ha fatto l’Osservatorio Antigone nel Terzo rapporto sugli istituti penali per i minori ‘Ragazzi fuori’: architettonicamente ancora di stampo carcerario con sbarre, cancelli e blindati. Gli spazi non sono sempre compatibili con una molteplicità di bisogni ed esigenze: dai luoghi per praticare lo sport a quelli per la socializzazione.
Assenza di collegamenti alla rete internet ed eccessiva distanza fisica dai centri abitati rendono ostici i rapporti con il territorio e con gli affetti. Ristrettezze normative che ostacolano le relazioni esterne: orari di chiusura delle celle ridotti, mediamente sei ore di colloqui al mese, massimo quattro telefonate della durata di dieci minuti ognuna ogni trenta giorni. E se i poliziotti penitenziari, in grande presenza, non indossano la divisa, gli educatori sono insufficienti: laddove è necessaria la polizia per riportare la calma, non funziona il meccanismo di prevenzione, ascolto e conoscenza. Via, dunque, con punizioni, allontanamenti e trasferimenti su minori con storie di grande disagio e con, addirittura, triple diagnosi.
Ragazzi delusi, deviati, con visioni del mondo distorte. Rigidità da superare con l’istruzione, approccio fondamentale nel processo di ricostruzione di un’identità, indispensabile per far loro acquisire sicurezza e capacità di discernimento, di critica e di apprezzamento delle risorse immateriali che la cultura umana offre. E invece, scorrendo l’elenco delle spese in preventivo nel programma di vari istituti, non compare alcuna voce destinata all’educazione scolastica, all’arredo e alle risorse didattiche.
Più corposa, invece, l’offerta formativa: laboratori professionali, sportelli orientativi permanenti, borse lavoro, tirocini, apprendistato, simulazioni d’impresa, attività straordinarie e ordinarie all’interno delle strutture detentive.
Si, l’istruzione e la formazione professionale sono, certamente, fondamentali per il recupero sociale degli adolescenti ma non bastano, altrettanto certamente, per la costruzione della loro identità umana. Dov’è (dentro gli istituti) la cura per (ri)trovarla?