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di Tania Careddu
Complessità delle prassi burocratiche, tempi biblici di realizzazione del progetto, alti costi, trasparenza del processo. Sono le criticità, secondo quanto riporta il documento del CARE (Coordinamento associazione famiglie adottive e affidatarie in rete), Dossier Adozioni. Stato dell’arte sulle adozioni nazionali e internazionali dal punto di vista delle famiglie adottive italiane, con le quali le famiglie adottive devono fare i conti.
Andiamo con ordine: il decreto di idoneità per procedere all’adozione è a discrezione del tribunale dei minorenni competente viene rilasciato in un periodo che varia da sei a dodici mesi e il tempo medio del percorso adottivo, dal conferimento dell’incarico all’ente competente fino al rilascio dell’autorizzazione all’ingresso (per le adozioni internazionali) del minore, si è stabilizzato intorno ai due anni.
Ma pare che, per molte coppie, i tempi d’attesa siano molto più dilatati. Causa il complicarsi delle tempistiche dopo l’ottenimento del decreto di idoneità: rallentamenti, blocchi e congelamenti hanno costretto varie coppie a cambi di direzione o ad attese protratte. Che diventano solitudine, ostacoli e traversie. Dati alla mano, più del 30 per cento di loro ha aspettato oltre ventiquattro mesi per portare a termine il percorso e il 16 per cento più di tre anni.
La mancanza di informazioni, poi, gravosa di per sé dietro tanti aspetti, diventa foriera di ulteriori difficoltà quando si tratta dello stato di salute del bambino: documentazione sanitaria carente e poco attendibile, certificati (quando recuperati) di difficile interpretazione, dossier medici scarni, cartelle cliniche nelle quali appaiono i sintomi piuttosto che la diagnosi. Cosicché alcune situazioni vengono accertate solo all’arrivo: nel 2012, sono stati quattrocentoventinove i bambini arrivati in Italia con bisogni speciali, il 13,4 per cento degli ingressi, di cui centottantacinque fra i cinque e i nove anni.
I costi sono eccessivi e non sempre giustificabili; fino al “sospetto di lucro”, se si pensa che negli ultimi dieci anni i costi per l’adozione internazionale sono andati progressivamente crescendo, arrivando a toccare cifre che vanno dai venti ai quarantamila euro.
E successivamente? Dopo l’adozione, spesso, è confusione e mancanza di mezzi e risorse: si scopre che la preparazione (quando viene effettuata) era solo sulla ‘carta’, le informazioni erano ridotte, la società può rivelarsi meno accogliente di quanto si era pensato, le criticità dei figli possono essere davvero ampie e non di rapida evoluzione e i genitori stessi non sono come immaginavano di essere. Una fase difficile, quella del post adozione, che, negli ultimi cinque anni nel Belpaese, è stata trascurata a causa del disinvestimento diffuso che ha coinvolto la rete dei servizi sociali.
Di quei servizi che, in passato più che oggi, si facevano carico dei nuovi piccoli arrivati solo nelle fasi precedente e immediatamente successiva all’adozione e che, attualmente, alla luce dei cambiamenti che l’adozione ha subìto in questi ultimi anni, devono invece tenere in considerazione bisogni che richiedono valutazione e sostegno anche negli anni successivi al primo anno post adozione.
Sarebbe doveroso investire risorse maggiori, visto che le coppie italiane sono in prima linea rispetto a quelle di tanti altri Paesi relativamente all’accoglienza di bambini più grandi e di quelli con bisogni speciali.
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di Tania Careddu
Il mondo è denutrito. E gli italiani sono scarsamente nutriti di informazioni sulla fame nel mondo. Anche dopo Expo Milano 2015. Doveva essere un momento (?) di riflessione collettiva sul tema legato all’alimentazione nei termini della fame nell’intero pianeta, delle sue cause e delle possibili soluzioni, ma pare sia stato così solo in minima parte. Almeno stando alle conoscenze degli italiani, rilevate dall’indagine condotta da Mani Tese, "Il pianeta non nutrito", nemmeno Expo 2015 - che per la maggior parte dei connazionali è stata una grande fiera per promuovere prodotti, marchi e aziende oltre che una sorta di menu globale - è servito a informare sulla diffusione della fame, che pure risulta la priorità nell’agenda personale per l’umanità.
Ignorano che ottocento milioni di persone la soffrono ma che più di due miliardi siano in sovrappeso. E invece, il 41,5 per cento di loro è convinto che il problema della fame nel mondo sia, numericamente, prevalente su quello del sovrappeso. Ammesso che sappiano che la comunità internazionale si è data, per il 2030, l’obiettivo di annullare la fame a livello globale, la parte più consistente della popolazione del Belpaese si aspetta una riduzione moderata o addirittura nulla.
E quella minima parte che pensa che, da qui a quindici anni, la fame possa essere sostanzialmente debellata, nutre, però, una visione distorta sulle ipotesi di risolvibilità. Ossia: invece di pensare che la Terra non sia in condizioni di nutrirci tutti con gli attuali sistemi di produzione e sono necessarie innovazioni tecnologiche diffuse, unite a una forte liberalizzazione degli scambi commerciali tra i paesi per aumentare la disponibilità di cibo, idealizzano (erroneamente) un pianeta in grado di fornire cibo a tutti anche a fronte di una crescita (che ci faccia toccare i dieci miliardi di abitanti del pianeta) della popolazione mondiale e che la piaga della fame sia dovuta alle differenza, alla disparità di distribuzione della ricchezza e dell’accesso al cibo.
Per tutti, la fame nel mondo - sebbene sia considerato un fenomeno multicausato, con guerre e conflitti interni ai paesi, sfruttamento dei terreni hic et nunc, tecniche produttive, strumenti e infrastrutture inefficaci in molte aree del mondo, fra le ragioni più considerate - è causata da un sistema economico che favorisce una parte del globo rispetto alle altre. Ignote le proposte elaborate (per ridurla) tra i decisori mondiali - tipo utilizzo di diserbanti, OGM, che contribuiscono alla resa dei terreni - e le diciotto soluzioni.
Quella che potrebbe caratterizzare il futuro del pianeta nei prossimi decenni è quella meno nota agli italiani, cioè quella associabile alle teorie liberali: favorire un’alimentazione omogenea a livello mondiale, diffondere l’uso di sementi nuove e OGM, liberalizzare i mercati, ribassare i prezzi al consumo dei prodotti, impedire il land grabbing, avere sistemi decisionali democratici che coinvolgano produttori e consumatori, evitare il vantaggio dei ‘grandi’ sui ‘piccoli’ negli scambi commerciali e bloccare la speculazione finanziaria.
Sarà perché è un problema sempreverde e perciò, paradossalmente, silente o perché è geograficamente lontana da noi (secondo la logica della vicinanza che rende sensibili ai fatti), ma sta di fatto che la denutrizione ha l’aspetto di una crisi dimenticata. Tra le nostre portate.
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di Tania Careddu
L’anagrafe scolastica (peraltro, ancora incompleta) e lo stanziamento di fondi (quattro miliardi di euro dal 2014 a oggi) per la messa in sicurezza degli edifici, non sono bastati. In media, una scuola su due, nei capoluoghi del meridione e delle isole, necessita ancora di interventi urgenti di manutenzione. Nel sud e nelle isole non esiste nemmeno una scuola costruita secondo i criteri della bioedilizia (sebbene sia significativa la percentuale di quelle dotate, invece, di impianti per la produzione di energie rinnovabili) e solo il 7 per cento al Sud e l’1,1 per cento nelle isole utilizza fonti di illuminazione a basso consumo, a fronte di una media nazionale del 31,7 per cento.
Negli ultimi cinque anni, solo il 17 per cento degli istituti è stato interessato dagli interventi di manutenzione ordinaria: le strutture bisognose passano dal 32,5 per cento dello scorso anno al 39,1 per cento di questo; il 73 per cento è sprovvisto di certificazioni (a parte quella igienico-sanitaria) e il 20 per cento non ha ancora provveduto a dotarsi di impianti elettrici a norma.
Un dato, però, accomuna le scuole di tutta Italia: la vetustà degli edifici, per cui su seimila e trecentodieci scuole, circa il 65 per cento è stato costruito prima dell’entrata in vigore della normativa antisismica del 1974, mentre solo il 9,3 per cento tra il 1991 e il 2014. Flette, rispetto allo scorso anno e dopo anni di trend di crescita, il dato relativo agli edifici a norma, accompagnato a un calo rilevante degli interventi previsti per l’eliminazione delle barriere architettoniche.
Peggiorano gradualmente, in termini di qualità e sostenibilità, anche i due servizi principali: mensa e trasporto. Se nel 2014, erano l’8,5 per cento i pasti interamente bio, oggi sono il 5,3 per cento; se le mense scolastiche che servivano acqua dal rubinetto erano il 70,8 per cento nel 2010, attualmente sono diminuite al 56 per cento. Se la disponibilità di scuolabus, nel 2010 era del 32,6 per cento, oggi è del 25,8 per cento, con una flessione nelle scuole del Nord, del Sud e delle Isole.
Ancora carenti pure le condizioni strutturali che danno autonomia di mobilità ai ragazzi, dalle piste ciclabili nei pressi delle scuole, presenti in meno del 10 per cento dei plessi scolastici, alle transenne parapedonali presenti in poco più del 7 per cento. Diminuiscono le scuole con spazi verdi e giardini e quelle con aree per lo sport. Aumentano le strutture con biblioteche. Prosegue il trend positivo delle azioni di bonifica dall’amianto: Trieste capofila, Vercelli il capoluogo dove sono più presenti le scuole a rischio.
E, sebbene nessun dato scientifico evidenzi in modo assoluto il rischio associato all’esposizione alle onde ad alta frequenza, i dati riportati dal Rapporto di Legambiente Ecosistema Scuola, evidenzia un’altra criticità: una crescente percentuale di scuole a rischio elettromagnetico, dato che il 34,6 per cento di scuole ospita impianti wi-fi, il 15 per cento si trova in prossimità di stazioni radio base per la telefonia mobile e il 3,7 per cento vicine a elettrodotti.
Regioni - Abruzzo e Sardegna in testa - e Comuni dove l’esigenza di intervenire è altamente rilevante, mostrano, di contro, un forte disinteresse a stanziare fondi. Trento, Bolzano e Reggio Emilia, sono le città più virtuose. Como e Verona, i comuni che riescono a coprire il 100 per cento dei consumi con le energie rinnovabili. Brindisi, L’Aquila e Pisa, le mense più bio. Lucca, Macerata, Siena, le città che garantiscono lo scuolabus a tutte le strutture scolastiche. Buone scuole dalle quali non si finisce mai di imparare.
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di Tania Careddu
D'inquinamento ne produce meno di tutti ma è quella più danneggiata: la metà più povera della popolazione mondiale, tre miliardi e mezzo di persone, che vivono nei paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici, è responsabile solo del 10 per cento a livello globale del consumo che provoca le emissioni di carbonio. Attribuibili, per il 50 per cento invece, al 10 per cento che vive nell’emisfero ricco del pianeta.
Che, con i propri modelli di consumo (climalteranti), è responsabile del 64 per cento delle emissioni globali di gas serra, insieme al 36 per cento derivanti dai modelli di consumo e di investimento, tipo le infrastrutture, dei governi e dal trasporto internazionale.
Comunità rurali, gruppi marginalizzati per l’etnia e donne, i soggetti più esposti ai rischi legati al surriscaldamento globale. Perché tendono a essere più dipendenti da attività economiche influenzabili dalle condizioni climatiche, vedi l’agricoltura pluviale o la raccolta di acqua per uso domestico, e hanno pochissime possibilità di uscire dai periodi di crisi o di aumentare la produttività a causa di un minore accesso alla terra, alla formazione e al capitale.
Poco preparati anche ad affrontarli. Per esempio: se negli Stati Uniti, il 91 per cento degli agricoltori ha stipulato un’assicurazione a copertura delle perdite per eventi climatici estremi, in India lo ha fatto solo il 15 per cento degli agricoltori, in Cina il 10 per cento e in Malawi poco meno dell’1 per cento.
La stragrande maggioranza di quel ricco 10 per cento di cui sopra vive nei Paesi OCSE, le cui emissioni associate a modelli di consumo sono ancora nettamente superiori a quelle dei cittadini dei Paesi emergenti del G20. E sebbene la densità di popolazione di questi ultimi - Cina, India, Brasile e Sud Africa - contribuisca al totale delle emissioni globali, gli stili di consumo del 10 per cento dei loro abitanti ricchi è ancora notevolmente inferiore rispetto alla controparte dei Paesi per l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.
E sarà certamente vero che i più abbienti siano gli artefici dei mali del mondo, ma la colpa reale dell’inquinamento del pianeta è imputabile ai potenti: le multinazionali dei combustibili fossili (dietro a marchi famosi si cela un club di miliardari del carbone, come spiega Oxfam, che ha curato il rapporto Disuguaglianza climatica).
Lobby vere e proprie, che dichiarano di spendere per attività di lobbysmo sui governi, a livello europeo, circa quarantaquattro milioni di euro all’anno, cercando così di condizionare l’operato verso una regolamentazione che sia il meno stringente possibile. Lo scopo è ottenere sussidi e agevolazioni fiscali di gran lunga più consistenti e vantaggiose rispetto a quelle destinate al settore delle energie rinnovabili.
E così la lista Forbes, nel 2015, si arricchisce di ottantotto miliardari con interessi connessi ai combustibili fossili. Talmente potenti che nemmeno l’accordo di Parigi è riuscito a scongiurare l’impatto dei cambiamenti climatici sui paesi più poveri: oltre a non aver stanziato risorse finanziarie sufficienti per l’adattamento al cambiamento climatico, esclude la possibilità di individuare responsabilità dirette e non contempla nessun riferimento esplicito ai diritti umani. La guerra dei ricchi contro i poveri.
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di Liliana Adamo
E’ auspicabile che i risultati prodotti dalla Conferenza sul Clima (COP21) in questi giorni a Parigi, siano direttamente proporzionali alla portata “storica” del summit, cancellando, di fatto, lo scomodo “souvenir” di Copenaghen 2009. Al cospetto di 190 Paesi rappresentati, 147 fra premier e capi di Stato, sarebbe d’obbligo tirare fuori quell’esito (plausibile), da molti invocato, nonostante la “Conference of the Parties”, scossa dagli atti terroristici dello scorso novembre, si svolga in una città in lutto, trincerata dietro misure di sicurezza senza precedenti.
Il vertice organizzato dall'Onu ha un obiettivo: limitare l'escalation delle emissioni CO2 nell’atmosfera terrestre e gli effetti che ne conseguono, tali da incombere (e non eufemisticamente), sulla longevità della specie umana e sullo stesso concetto d’evoluzione. Questi, in primis, includono fattori antropici, ambientali, economici. Proprio dalle Nazioni Unite si rende ufficiale lo “status di rifugiato ambientale” stimando nel 2050, 250 milioni di eco-profughi, costretti a fuggire - letteralmente - dai propri paesi non più vivibili per problemi legati al clima.
Nel suo Quinto Rapporto di Valutazione - The Physical Science Basis - il gruppo Intergovernativo IPCC, ha fornito una versione sul trend dei cambiamenti climatici: “Il riscaldamento del clima terrestre si aggrava in gran parte per colpa dell’uomo. La temperatura della terra aumenterà da 0,3 a 4,8 gradi centigradi, entro il 2100. I primi dieci anni del nostro secolo sono stati i più caldi dal 1850…”. Un incremento di tale portata significa che dalla terra, dal letto dei fiumi, dai ghiacci e dal mare, dalle estinzioni delle specie animali, in sostanza, dall’intero regno della natura, si registrerebbe un collasso imminente. In pratica, è il cambiamento climatico, il migliore alleato nella minaccia al terrore globale.
Per finire, resta il fattore economico: le perdite indicano una fenomenologia in evoluzione determinata dalle cosiddette “calamità naturali”. Indicativa è la linea d’orientamento che riguarda il numero d’eventi distruttivi e della loro composizione.
Si passa dai circa venti episodi nel 1980 (tutti riconducibili a tempeste tropicali), ai cento dell’ultimo triennio, con una ripartizione pressoché omogenea fra tempeste e altri eventi climatici, fomentati da alte temperature, siccità, incendi. Negli ultimi anni si è registrata un’impennata di passivo, dovuta a un’incredibile frequenza d’uragani, seguiti da un elevatissimo numero di vittime e danni.
Paralizzato dallo scontro ideologico fra superpotenze, da una parte Stati Uniti, Cina, India, dall’altra e l’Europa (come spesso accade), a far da spettatrice sulla battaglia dei veti, qualcosa è cambiato dall’onta di quel summit siglato nel dicembre 2009 a Copenaghen? Probabilmente sì, da più parti e nella coscienza civile, si è accettato che i cambiamenti climatici rappresentino la scacchiera su cui si gioca la stessa sopravvivenza del genere umano.
Basta con l’espressione rituale del “salviamo il pianeta” e decantate buone intenzioni (cui è lastricato l’inferno), il pianeta non ha bisogno di noi, né del nostro antropocentrismo. L’equilibrio degli ecosistemi perdura in perfetto stato di conservazione se le condizioni ambientali restano costanti, cioè, qualora elementi come temperature, salinità, esposizione ai raggi solari, rientrassero in parametri conformi.
Semmai verrà alterato soltanto uno di questi fattori (come la temperatura media annua che continua ad aumentare), l’intero biosistema intraprenderà un nuovo percorso evolutivo verso altri status. L’estinzione (accelerata) delle specie, il depauperamento delle biodiversità, produrranno nuovi equilibri in cui l’unica specie a non adattarsi, a scomparire per sempre, sarà quella umana.
Lo staff della politica mondiale riunito a Parigi, è assolutamente consapevole di dover mettere in campo scelte precise, politiche, economiche, sociali, a contenere un declino che, di fatto, si considererebbe irreversibile. Le risorse ambientali sono allo stremo, i cambiamenti climatici sollecitano una crisi in atto già nell’era pre-industriale.
Per evitare il peggio (un ennesimo fallimento), le delegazioni hanno consegnato nelle mani di Laurent Fabius (ministro degli Esteri francese e presidente della CPO21), la bozza di un accordo. Sui punti nevralgici il testo è ancora incompleto, le principali opzioni sono incluse nelle famose “parentesi quadre”: in termini diplomatici, vale a dire che non ci sono intese certe, né conferme.
Indugiano caute le interpretazioni delle varie associazioni ambientaliste, come Greenpeace e WWF; ma se vogliamo dirla tutta, secondo una generica stima di un’ONG francese, facente capo all’ecologista Nicolas Hulot, la stesura del documento conta ben 1.400 “parentesi quadre” che spianano la strada a un difficile iter di 250 disparate opzioni.
Esempio: scrivere “trasformazione a basso tasso d’emissioni” non ricalca il concetto tout court a ciò che s’intende come “piena de carbonizzazione” estesa alle economie globali. Tuttavia, i giorni di confronto si susseguono, così il lavoro sul protocollo e si riterrebbe dall’oggi al domani, che i “bracket” si accorcino, come pure le opzioni. Staremo a vedere.