di Tania Careddu

Gravidanza, dal latino gravidus, che porta un peso. Così, lo scorso anno, si sono sentite circa novantotto mila donne (in Italia). Tanto da ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza. Anche se, dal 1982, anno in cui si è riscontrato il maggior numero di casi, il fenomeno è in diminuzione. Soprattutto in Valle d’Aosta, nella Provincia Autonoma di Bolzano, in Umbria e nelle Marche.

Sono donne soprattutto straniere, a carico delle quali si registra un terzo delle interruzioni totali, hanno fra i quaranta e i quarantaquattro anni, sono soprattutto nubili (che, tanto per chiarezza, è lo stato civile delle donne nelle coppie di fatto) e fra le coniugate è prevalente nelle regioni meridionali e insulari. Più frequente fra le casalinghe che fra le occupate e fra quelle con un titolo di studio di licenza media superiore, con una scolarizzazione bassissima tra le straniere.

A conferma del fatto che una delle cause può essere rintracciata nel difetto di conoscenza che ha effetti negativi sul controllo della fecondità. Anche il numero dei figli può essere un fattore determinante nell’orientare i comportamenti delle donne (e della coppia) nella scelta di portare avanti o meno la gravidanza.

Per interrompere la quale, quando non abortiscono clandestinamente - avviene in pressappoco quindicimila casi fra le italiane e circa cinquemila volte fra le straniere - le interruzioni avvengono nel 60 per cento delle strutture disponibili, negli istituti pubblici, con una tendenza a un minor ricorso alle case di cura convenzionate. Con una copertura soddisfacente.

Meno capillare la presenza dei consultori: attivi soprattutto in Emilia Romagna, Piemonte e in Umbria, scarseggiano nell’Italia meridionale e nelle isole. Spesso non integrati con le strutture in cui si effettua l’interruzione volontaria di gravidanza, viene vanificata una preziosa risorsa per il radicamento nel contesto sociale e più in grado, grazie alla multidisciplinarietà delle competenze, di sostenere la donna verso una scelta consapevole.

Spesso, orientata, però, dagli obiettori di coscienza, anche se più presenti negli ospedali che nei consultori. Due ginecologi italiani su tre, soprattutto in Molise, nella Provincia Autonoma di Bolzano, in Basilicata, in Sicilia, in Puglia, in Campania, nel Lazio e in Abruzzo; il 49 per cento degli anestesisti, distribuiti fra la Sicilia, la Calabria, il Molise e il Lazio; e fra il personale non medico aumentano, soprattutto in Sicilia e in Molise.

I quali, orientamento (religioso) a parte, si devono attenere all’articolo 9 della Legge 194: “l’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie del compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”.

Ma, tanto per il diritto di cronaca, “gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza”.

Su seicentotrentadue strutture con reparti di ostetricia e ginecologia, trecentosettantanove effettuano l’aborto. Pare, secondo quanto si legge nella Relazione sull’attuazione della Legge 194/1978, che non sia il numero (sostanzioso) di obiettori a determinare l’accesso all’interruzione di gravidanza ma il modo in cui le strutture sanitarie si organizzano nell’applicazione della legge. Anche perché, sempre stando ai dati stampati sulla succitata Relazione al Parlamento, in sei anni in Italia, in media, gli obiettori sono aumentati e i tempi di attesa diminuiti. Nonostante tutto.

di Tania Careddu

Quattrocentoventiquattro milioni di pasti all’anno. Cioè, oltre due milioni di pasti per ogni giorno di scuola. Nella quale si stima che ogni alunno, durante il ciclo scolastico obbligatorio, consumi circa due mila pasti, merende escluse. Ma la garanzia di un’alimentazione corretta, almeno una volta al dì - la cui importanza ha suscitato l’interesse del legislatore che l’ha sintetizzata in una proposta di legge - non è per tutti. Affidato alla competenza delle amministrazioni comunali, il servizio di refezione scolastica presenta una distribuzione a macchia di leopardo e con una larga forbice tra Nord e Sud.

Dati alla mano, riportati nel dossier di Save the children, (Non) tutti a mensa!, il 40 per cento degli istituti scolastici principali ne è sopravvisto: in un terzo delle regioni settentrionali e in quasi la metà di quelle meridionali. Iniquo. Se si pensa che la possibilità di usufruire del servizio che, oltre ad avere un ruolo chiave nella strutturazione dell’educazione alimentare ed essere occasione di convivialità e di socialità, è correlato pure all’opportunità formativa. Va da sé che la presenza del servizio mensa presupponga un tempo scolastico pieno: in media, il 70 per cento delle classi della scuola primaria non lo offre, generando un elevato tasso di dispersione scolastica (soprattutto al Sud).

Ma anche laddove presente, si nota una sostanziosa disparità di trattamento. Sia dal punto di vista dell’accesso sia da quello legato alla qualità del servizio. E se molti comuni adottano criteri di equità, prevedendo esenzioni per alunni in situazioni di particolare svantaggio, altrettanti, vedi Bolzano, Padova, Rimini, Salerno e Trento, ricorrono a politiche che sortiscono effetti discriminatori. Per esempio, quelli come Brescia, che legano l’esenzione alla residenza o meno del nucleo famigliare. O, addirittura, prevedono una maggiorazione del 15 per cento sulle tariffe applicate ai non residenti. Vale per ogni bambino, però, l’esclusione dal servizio mensa in caso di insolvenza dei genitori. Non in tutti i comuni, per fortuna.

Nei quali si riscontra anche una disomogeneità nella qualità della refezione. Nella stragrande maggioranza dei casi, il servizio è affidato a ditte esterne, soprattutto nel Sud Italia (eccezion fatta per Cagliari), sebbene sia da preferirsi, stando a quanto stabiliscono le Linee Guida del Ministero, le produzioni in loco che riducono l’intervallo di tempo fra preparazione e somministrazione (sinonimo di qualità).

A conferma del fatto che la mensa sia elemento di integrazione fra culture diverse, quasi tutti gli istituti scolastici predispongono menu orientati secondo scelte religiose ed etiche, oltreché, ovviamente, specifici per le intolleranze alimentari. Ampiamente diffusi progetti di buone prassi, tipo l’uso di posate non riutilizzabili e non usa e getta o, contro gli sprechi, l’utilizzo di un sistema informatico per la prenotazione dei pasti effettivamente da preparare (il comune di Cagliari docet), e incentrati sul recupero delle eccedenze alimentari e sulla redistribuzione a enti caritatevoli. Per una scuola appetibile.

di Tania Careddu

Popolo di risparmiatori. E con la crisi, sempre di più. Tanto che, fino all’anno scorso, il 46 per cento degli italiani non viveva tranquillamente se non riusciva a mettere da parte un gruzzoletto. Nel 2015, invece, il risparmio cessa di diventare un elemento ansiogeno. Diventa, piuttosto, una fisiologica attività del cittadino italiano. Cresce, di quattro punti percentuali, passando dal 33 al 37 per cento, la quota di coloro che, negli ultimi dodici mesi, sono riusciti a risparmiare.

Il dato più alto dal 2010 a oggi e, per la prima volta dopo quatto anni, indica che quelli che risparmiano solo su ciò che non comporta troppe rinunce, superano tutti gli altri risparmiatori. E si ridimensionano, ai livelli del 2005, le famiglie in saldo negativo di risparmio. Attitudine più frequente nel Nord Ovest e fra i giovani.

Ma resta, comunque, una consistente fetta di famiglie che è al limite delle proprie forze economiche: gli anni di crisi hanno ridotto le loro riserve di denaro cosicché una famiglia su quattro non riuscirebbe a fronteggiare una spesa imprevista di mille euro e solo una su tre potrebbe sostenere un’incombenza maggiore di diecimila euro. Chi ha risorse disponibili ne investe una parte minoritaria e mantiene una spiccata preferenza per la liquidità, con un aumento della quota di quelli che hanno sottoscritto assicurazioni sulla vita o fondi pensione, dei possessori di libretti di risparmio e degli amanti dei prodotti più a rischio.

I dati, elaborati da Acri-Ipsos nella quindicesima edizione della sua ricerca Gli italiani e il risparmio, farebbero pensare a una certa normalizzazione dello scenario economico che induce sempre più gli italiani a concentrarsi sul presente e ad avere un atteggiamento di apertura verso i consumi. Anche se in modo più cauto rispetto ai tempi pre-crisi, si nota un cambiamento di rotta verso la riduzione della negatività. Elettronica, telefonia, prodotti alimentari e spese per l’auto, i settori più gettonati. Poco fruito, il ‘fuori casa’: saldo negativo, seppure in rialzo, per viaggi e vacanze, per ristoranti e pizzerie, per cinema, teatri e concerti. Per non parlare di libri, giornali e riviste.

Ma le famiglie del Belpaese sono fiduciose: il numero di quelle che immaginano un miglioramento del proprio tenore di vita supera quello degli sfiduciati.

Addirittura, un italiano su venti dichiara di averlo proprio sperimentato, aprendo la strada a un’importante inversione di tendenza: si riduce, infatti, la somma di coloro che denunciano un peggioramento. Sebbene l’80 per cento degli italiani ritiene che la crisi sia ancora parte integrante della loro vita, lo sarà pure per i prossimi cinque anni, e la percepiscono tuttora grave, essendo attualmente colpito un nucleo famigliare su quattro, migliorano le prospettive personali, quelle nazionali e finanche quelle europee.

Soprattutto se l’Europa, assolta dalla responsabilità della crisi finanziaria italiana, sarà in grado di ridurre le disuguaglianze economiche, fiscali e legali tra gli Stati e, tra i cittadini, sulla distribuzione del reddito e sulla parità di genere. Che investa in ricerca e sviluppo, che agevoli le piccole imprese, che accresca tutti i territori, non annullandone le specificità. Insomma, la speranza comincia a registrare un saldo positivo.

di Antonio Rei

Si possono usare gli ammortizzatori sociali solo per salvare le tasche della proprietà, ma non i posti di lavoro? A quanto pare sì. Basta usare i soldi dello Stato per migliorare i conti poco prima di vendere l'azienda, lasciando poi che i nuovi arrivati licenzino come e quanto vogliono. Sembra impossibile, ma è esattamente quello che stanno subendo 141 dipendenti della Maggiore Rent, società romana di noleggio auto che dallo scorso marzo è passata nelle mani della multinazionale statunitense Avis.

Tutto comincia a inizio 2013, quando Maggiore Rent stima di dover fronteggiare entro fine anno un rosso di 2,6 milioni di euro. Sindacati e azienda firmano quindi un contratto di solidarietà della durata di due anni. In teoria, l'accordo può essere prorogato per un altro biennio, ma a fine gennaio 2015 la società decide di non rinnovarlo.

Ormai non serve più, lo scopo è raggiunto: il bilancio è migliorato, facendo salire il prezzo dell'azienda. Appena due mesi dopo, infatti, il colosso made in Usa sborsa ben 170 milioni di dollari per rilevare l'attività.

Il 5 ottobre arriva il colpo di scena. Avis decide di licenziare quasi la metà del personale (141 su 287 dipendenti a tempo indeterminato, più quattro dirigenti e 11 lavoratori a tempo determinato), nonostante i conti della Maggiore Rent siano ormai sotto controllo. A fine 2013, dopo un solo anno di solidarietà, i libri contabili parlavano di un utile in crescita da 2,8 a 4 milioni, di costi del personale scesi da 16 a 14,4 milioni e soprattutto di un Ebitda quasi triplicato (da 3,6 a 9,6 milioni). E per il 2015 non è previsto un nuovo tracollo, ma un calo del fatturato del 3%, pari a circa 3,9 milioni di euro.

Quanto ad Avis, stiamo parlando di un colosso che stima di chiudere l'anno con ricavi da 8,7 miliardi di dollari (in lieve miglioramento rispetto al 2014) e un Ebitda tra i 900 e i 950 milioni (la crescita attesa è fra il 3 e l'8%). Insomma, a guardare i numeri, non esistono ragioni economiche plausibili per giustificare la pioggia di licenziamenti che gli americani vogliono infliggere alla società italiana.

Eppure, il destino del personale non sembra interessare nemmeno ai vertici di Maggiore Rent, visto che si sono rifiutati d'inserire nell'accordo di vendita una clausola di salvaguardia per i posti di lavoro. “Ci hanno risposto che il prezzo sarebbe sceso”, spiega Marino Masucci, coordinatore nazionale Fit Cisl.

In questo modo, un gruppo che fattura quasi 9 miliardi di dollari l'anno può permettersi di lasciare a casa più di 150 persone sostenendo che "non ci sono alternative" per fronteggiare un calo dei ricavi da nemmeno quattro milioni di euro (su Ebitda e risultato netto non esistono proiezioni). 

Di fronte a questa situazione, i dipendenti di Maggiore Rent hanno indetto uno stato d’agitazione che ha già prodotto uno sciopero, mentre i sindacati hanno già chiesto un incontro ai ministeri del Lavoro e dello Sviluppo economico perché “preoccupati per la perdita dei posti di lavoro e dall’uso distorto degli ammortizzatori sociali”.  Una storia che non può e non deve finire all’italiana, con i furbi che incassano e i lavoratori che pagano.

di Tania Careddu

Altro che choosy. Inchiodati a stereotipi negativi, penalizzanti, castranti. Alle retoriche dei fannulloni e dei troppo viziati. Pigri e rinunciatari. Certo, negare le loro difficoltà di rapporto con il mondo del lavoro, la dimensione della disoccupazione ufficiale e il fenomeno dei Neet, sarebbe una forzatura. Tuttavia (e nonostante questo), i Millennials, undici milioni e rotti ragazzi italiani, nati fra gli anni ottanta e il duemila, di cui cinque milioni e mezzo vivono con i genitori e si sposano sempre meno, anche quando vanno via di casa sprigionano, nella minuzia della realtà quotidiana, energie psichiche inattese e vitali per il nostro Paese.

Rilanciano una spiccata adattabilità, con una propensione ad accettare lavori di contenuto inferiore alla propria qualificazione e con la tendenza a lasciarsi coinvolgere intensamente dall’attività lavorativa che svolgono. Qualunque sia, anche da quella più lontana dalle loro aspettative, persino reddituali.

Nient’affatto pretenziosi. Se si pensa, secondo quanto si legge nella ricerca del Censis, Vita da Millennials: web, new media, start up e molto altro, che un milione di loro dichiara di aver cambiato almeno due lavori in un anno; più di un milione e mezzo, nell’ultimo anno, ha lavorato con contratti di durata inferiore a un mese; quattro milioni e mezzo all’incirca hanno fatto esperienze di stage non retribuiti; più di un milione dichiara di aver lavorato, negli ultimi dodici mesi, al nero; quasi due milioni hanno fatto lavoretti per guadagnare qualcosa.

Un’adattabilità alle condizioni lavorative che svela un rapporto intenso con il lavoro, in un investimento di tempo ed energie: lavorano oltre l’orario formale senza ricevere lo straordinario pagato, di notte e durante i weekend. A distanza, fuori dal posto di lavoro. Sempre connessi in un “tempo di lavoro che fagocita quello di vita”. Disponibili sempre, ovunque e comunque. Aggiornandosi e rapportandosi di continuo. Anche per potersi evolvere professionalmente.

Pure di fronte a una precarietà diffusa che non lascerebbe ben sperare. Alla quale, invece, contrappongono una vitalità imprenditoriale: nel commercio, nei servizi di alloggio e ristorazione, nelle costruzioni. Più intraprendenti dei coetanei europei, anche dei tanto competitivi tedeschi (novecentoquarantuno mila versus cinquecentoventotto mila), soprattutto a Milano, Roma e Torino.

Strumento e luogo d’espressione di eccellenza della loro potenza creativa e innovativa: il web. Che utilizzano per cercare lavoro, rappresentando un’evidente evoluzione sociale perché forza l’orizzonte ristretto e inuguale dell’informalità relazionale, oppure nei comportamenti quotidiani.
I quali sono orientati alla sostanza e al contenuto degli stili di vita: sobri, distanti dall’approccio di consumo compulsivo, tipico dei Baby boomers.

Dal crowfunding al couchsurfing, ridefiniscono intensità e matrice del consumo, più maturo e finalizzato a una più spiccata attenzione alla qualità (approccio destinato a marcare la direzione della prossima ripresa economica). Della vita di questa generazione globale che si sposta regolarmente in bicicletta e fa uso del car sharing.

Attenti al cibo, in un rapporto che coinvolge diverse dimensioni: da quella identitaria a quella di socialità, in un originale mixage tra radicamento e sperimentazione. E ci investono culturalmente: dalla fioritura di blog a piattaforme web dedicate all’enogastronomia, dalla miriade di start up nel settore della ristorazione al ritorno all’agricoltura.

Una vocazione a ritornare: sono “pendolari globali”, figli dei voli low coast con una percezione attutita dei confini fisici e sociali del mondo, vanno all’estero per un movimento verso la relazionalità, ma poi tornano nei luoghi di provenienza.

Più spesso volenti che nolenti. Per avviare iniziative imprenditoriali nei luoghi natìi, sovente bollati come depressi e privi di capacità innovativa. Perché i Millennials sono convinti che il futuro vada costruito a livello minuto, con una spinta al cambiamento.

Di loro piace la certezza che non tutto è stato già detto e già stato fatto. Che lo sviluppo non debba andare verso un eccesso di individualismo, arrivando a una moltitudine di solitudini. Ma debba camminare attraverso una crescita delle dinamiche di relazionalità e di comunità.


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