di Tania Careddu

Quattrocentoventiquattro milioni di pasti all’anno. Cioè, oltre due milioni di pasti per ogni giorno di scuola. Nella quale si stima che ogni alunno, durante il ciclo scolastico obbligatorio, consumi circa due mila pasti, merende escluse. Ma la garanzia di un’alimentazione corretta, almeno una volta al dì - la cui importanza ha suscitato l’interesse del legislatore che l’ha sintetizzata in una proposta di legge - non è per tutti. Affidato alla competenza delle amministrazioni comunali, il servizio di refezione scolastica presenta una distribuzione a macchia di leopardo e con una larga forbice tra Nord e Sud.

Dati alla mano, riportati nel dossier di Save the children, (Non) tutti a mensa!, il 40 per cento degli istituti scolastici principali ne è sopravvisto: in un terzo delle regioni settentrionali e in quasi la metà di quelle meridionali. Iniquo. Se si pensa che la possibilità di usufruire del servizio che, oltre ad avere un ruolo chiave nella strutturazione dell’educazione alimentare ed essere occasione di convivialità e di socialità, è correlato pure all’opportunità formativa. Va da sé che la presenza del servizio mensa presupponga un tempo scolastico pieno: in media, il 70 per cento delle classi della scuola primaria non lo offre, generando un elevato tasso di dispersione scolastica (soprattutto al Sud).

Ma anche laddove presente, si nota una sostanziosa disparità di trattamento. Sia dal punto di vista dell’accesso sia da quello legato alla qualità del servizio. E se molti comuni adottano criteri di equità, prevedendo esenzioni per alunni in situazioni di particolare svantaggio, altrettanti, vedi Bolzano, Padova, Rimini, Salerno e Trento, ricorrono a politiche che sortiscono effetti discriminatori. Per esempio, quelli come Brescia, che legano l’esenzione alla residenza o meno del nucleo famigliare. O, addirittura, prevedono una maggiorazione del 15 per cento sulle tariffe applicate ai non residenti. Vale per ogni bambino, però, l’esclusione dal servizio mensa in caso di insolvenza dei genitori. Non in tutti i comuni, per fortuna.

Nei quali si riscontra anche una disomogeneità nella qualità della refezione. Nella stragrande maggioranza dei casi, il servizio è affidato a ditte esterne, soprattutto nel Sud Italia (eccezion fatta per Cagliari), sebbene sia da preferirsi, stando a quanto stabiliscono le Linee Guida del Ministero, le produzioni in loco che riducono l’intervallo di tempo fra preparazione e somministrazione (sinonimo di qualità).

A conferma del fatto che la mensa sia elemento di integrazione fra culture diverse, quasi tutti gli istituti scolastici predispongono menu orientati secondo scelte religiose ed etiche, oltreché, ovviamente, specifici per le intolleranze alimentari. Ampiamente diffusi progetti di buone prassi, tipo l’uso di posate non riutilizzabili e non usa e getta o, contro gli sprechi, l’utilizzo di un sistema informatico per la prenotazione dei pasti effettivamente da preparare (il comune di Cagliari docet), e incentrati sul recupero delle eccedenze alimentari e sulla redistribuzione a enti caritatevoli. Per una scuola appetibile.

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