di Tania Careddu

Fa un lungo viaggio, il carbone. Parte dalla Colombia, arriva in Europa e nel mar Mediterraneo. Più grande produttore di carbone dell’America Latina e quinto esportare del mondo, la Colombia ha riserve che potrebbero durare per i prossimi duecento anni. Circa ottanta milioni di tonnellate l’anno interamente destinate all’esportazione ma nei territori sventrati dalle miniere rimane appena il 25 per cento delle royalties.

Nella prima metà degli anni ottanta, le attività estrattive erano nelle mani delle imprese statali fino a quando il Fondo Monetario Internazionale non esercitò le sue pressioni sulla privatizzazione che prese di mira le risorse naturali e, da allora, alla fine degli anni ottanta, il settore energetico e minerario è nelle spire del business privato.

Più precisamente, delle grandi corporation straniere che, coadiuvate da un legiferare sfrontato a loro favore, si dedicano alle attività estrattive prevalendo sui diritti di quelle persone, senza permessi e senza ricompensare le comunità locali.

Violenza e conflitti, i metodi per controllare i territori nelle regioni del carbone e in prossimità dei porti, sempre di proprietà delle società che lo estraggono, da dove salpano le navi cariche per l’Europa. Nei porti di Amsterdam, Rotterdam e Anversa. In Italia, in quelli di Civitavecchia, Brindisi, La Spezia, Vado Ligure, Fiume Santo, Monfalcone, Marghera, Ancona, Porto Vesme e Genova. Carbone che brucia, soprattutto, nelle centrali dell’Enel, al posto della quale, nella zona di Vado Ligure, dal 2003, è subentrata la Tirreno Power, per metà francese e per metà italiana, i cui stabilimenti sono stati messi sotto sequestro per il mancato rispetto di varie prescrizioni e per “decessi riconducibili alla presenza della centrale”, che ancora (per poco, forse) opera in un impianto di La Spezia, e nei grandi complessi di Civitavecchia e Brindisi.

Il carbone utilizzato è quello colombiano. Nel dossier “Profondo Nero. Il viaggio del carbone dalla Colombia all’Italia: la maledizione dell’estrattivismo”, redatto da Re:Common, riporta uno stralcio delle quarantaquattro pagine della relazione con cui i Pm il 17 giugno 2015 hanno concluso l’indagine preliminare: “Sceglievano, almeno sino al 2013, - si legge - tipologie di carbone di qualità inferiore e meno costosa (…) in particolare di provenienza indonesiana e colombiana, piuttosto che carbone proveniente da Russia e Usa, più costoso, ma avente percentuali inferiori di zolfo”.

E’ un nemico, il carbone (anche per Matteo Renzi stando a quanto ha dichiarato il 22 giugno 2015, in occasione degli Stati generali sui cambiamenti climatici) perché è frutto dell’estrattivismo che non è un modello economico. E’, piuttosto, un sistema: fondato sulla promozione del consumo anziché sul lavoro e basato sulla funzione della corruzione sistemica.

Va al di là del ruolo economico per diventare protagonista politico e sociale. Colpendo direttamente le popolazioni che abitano le terre della polvere nera, appropriandosi dell’acqua e dei loro luoghi, distruggendo l’agricoltura famigliare, aggredendo la salute di milioni di individui, eliminando gli abitanti rurali. Con una serie di omicidi, sparizioni forzate, profughi e disastri ambientali. E viaggia, il carbone, a bordo di interessi insospettabili.

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