di Tania Careddu

Per le famiglie è il modo più economico di risolvere l’impatto di un problema opprimente, per gli immigrati è un mezzo di sussistenza remunerativo che non richiede grande specializzazione e, nel contempo, evita al sistema pubblico di trovare soluzioni alternative. Perché, a parte il sistema di previdenza sociale, il welfare state italiano, nulla ha fatto per il benessere familiare relativamente alla cura dei soggetti vulnerabili presenti nelle famiglie. Che, obtorto collo, sono dovute ricorrere a un welfare autoprodotto, risolvendo con la figura dell’assistente familiare.

Un compromesso oneroso, però: sia per le famiglie, con svantaggi di natura economica, fiscale e gestionale, sia per le badanti - generalmente donne - perché è una forma occupazionale totalizzante, da condurre in maniera duplice, divisa tra paese d’origine e quello d’accoglienza. Ogni famiglia, in media, spende per l’assistenza dei propri anziani o disabili, seicento e ottantanove euro al mese e, nel 91 per cento dei casi, non sono supportate da alcuna forma di contributo pubblico.

Non solo costi economici, ma, anche, tutta una serie di oneri gestionali e amministrativi: dalla comprensione della normativa per l’assunzione alle procedure per il permesso (o rinnovo) di soggiorno, dai conteggi per gestire la busta paga al versamento periodico dei contributi previdenziali.

Dal canto loro le badanti, con un’età compresa tra i trenta e i quarantanove anni, provenienti principalmente da Ucraina, Filippine, Moldavia, Perù e Sri Lanka, in circa venti anni, secondo quanto si legge nel papier “Il ruolo delle assistenti familiari nel welfare italiano”, redatto dall’ISMU, si sono quintuplicate e oggi sono circa ottocentomila; assistono persone over settantacinque, risiedendo, soprattutto nel Nord Ovest e nel Centro Italia, presso gli assistiti che, occhio e croce, sarebbero un milione.

Oltre due terzi degli assistenti famigliari che prestano servizio in Italia sono irregolari, una condizione che risulta in aumento negli ultimi anni, complice la crisi e non, certo, attribuibile al decremento della domanda di cura, prova ne sia la diminuzione delle iscrizioni all’INPS. Sebbene l’opzione dell’irregolarità sia, il più delle volte, una scelta concordata tra la famiglia, che risparmia, e la badante, che accumula più velocemente denaro per tornare in patria, la condizione è connotata da forte precarietà perché sciolti, entrambi, da qualsiasi garanzia.

E per le assistenti famigliari è vulnerabilità a tutto tondo, anche relazionale. Attività esigente per la fatica fisica quotidiana e per la tensione dovuta alla vita transnazionale, nonché per i comportamenti dispotici di taluni datori di lavoro, per le badanti, quello della cura, non è solo un lavoro.

E’ il luogo dove trascorrono la propria esistenza e in cui è circoscritta la propria (limitata) intimità, violata, pure, da richieste dai confini molto labili: viene sollecitato un coinvolgimento affettivo che pesa sul loro (precario) equilibrio. In bilico tra il mantenere solidi e vivi i rapporti con gli affetti della vita precedente e il costruirne di nuovi nel contesto ospitante ma poco ospitale.

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