di Tania Careddu

Sono oltre centrotrenta le piattaforme di estrazione offshore attive nei mari italiani. Ma si ha notizia dei piani di monitoraggio, realizzati dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), con la committenza di ENI, solo di trentaquattro impianti che estraggono gas nell’Adriatico. I dati, riferibili al triennio 2012-2014, sono preoccupanti: le piattaforme con problemi di contaminazione ambientale sono tante e presentano livelli sempre costantemente elevati, superiori ai limiti di legge. Cromo, nichel, piombo, mercurio, cadmio, arsenico e idrocarburi, in grado di risalire la catena alimentare, minacciano i sedimenti nei pressi delle piattaforme.

Le quali generano un forte impatto sugli organismi che vivono a stretto contatto con i sedimenti durante le fasi di installazione delle piattaforme, collocate a partire dagli anni sessanta, e di realizzazione dei pozzi; causano un aumento del traffico di imbarcazioni; e producono molto materiale di risulta, di differente natura.

E cioè, fanghi di perforazione, a base di oli minerali o sintetici, contenenti molteplici additivi e sostanze chimiche, usati per l’asportazione di detriti dal fondo del pozzo, per il raffreddamento e la lubrificazione ma, soprattutto, acque di produzione. Volumi ingenti presenti nei pozzi, a contatto con giacimenti di idrocarburi per migliaia di anni, ricche di sostanze inquinanti, le acque di produzione, dopo vari processi, vengono o immesse in mare o iniettate in unità geologiche profonde.

Dai piani di monitoraggio, volti a verificare “l’assenza di pericoli per le acque e gli ecosistemi acquatici derivanti dallo scarico diretto a mare delle acque risultanti dall’estrazione di idrocarburi”, emerge che: nonostante i significanti fenomeni di diluizione a cui vanno incontro le acque di produzione, nei campioni di acqua prelevati in prossimità di alcune piattaforme monitorate è stata riscontrata la presenza di taluni composti nocivi. Talvolta no, ma, spesso, superando gli Standard di Qualità Ambientale, ossia le concentrazioni individuate dalla legge per tutelare la salute umana e l’ambiente, di cui fanno parte gli organismi, nello specifico i mitili.

Dei questi, nel corso del triennio in esame, l’86 per cento ha superato il limite di mercurio identificato dagli SQA. Oltre che di cadmio, metallo altamente tossico che genera disfunzioni ai reni e all’apparato scheletrico nonché sostanza cancerogena; di bario, utilizzato durante le fasi di estrazione come costituente dei fluidi di perforazione; di mercurio e di zinco, derivanti dalla corrosione degli anodi sacrificali collocati in prossimità delle piattaforme al fine di proteggerle, appunto, dalla corrosione. Eccetera eccetera.

A prescindere dai grandi disastri che attirano l’attenzione dei media ma a fronte della dannosità delle piattaforme, almeno stando a quanto riporta lo studio Trivelle pericolose, redatto da Greenpeace sui dati del ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM), sarebbe opportuno fermare la proliferazione delle trivelle, caldeggiate dal governo italiano. E smettere di concedere alle attività estrattive, di sversare liberamente nel nostro mare.

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