di Tania Careddu

Esiste una legge, il DPR 396/2000, che permette di mettere al mondo un figlio in completo anonimato. Senza nessun obbligo di riconoscerlo. Che rappresenta una garanzia per la salute di tutti e due. E che regolamenta un fenomeno ancora frequente ma sommerso. Per quanto se ne sa, secondo quanto si legge nel progetto "Ninna ho".

Dati sul fenomeno dei bambini non riconosciuti alla nascita, a tutela dell’infanzia abbandonata, in un anno di osservazione, fra luglio del 2013 e giugno del 2014, i neonati non riconosciuti sono stati cinquantasei su un totale di poco più di ottantamila bambini, con un’incidenza, quindi, dell’0,07 per cento sul totale di neonati nati vivi.

Ventisei nell’Italia centrale, venticinque in quella settentrionale e cinque al Sud. Sono giovani con un’età che varia dai diciotto ai trent’anni, disoccupate, con una scolarità medio-bassa e nubili - sporadiche le informazioni sui padri che nel 3,6 per dei casi sono in carcere o hanno lasciato la donna durante la gravidanza oppure sono disoccupati. E’ l’identikit delle donne coinvolte nel non riconoscimento materno che riguarda soprattutto le immigrate, nel 62,5 per cento delle situazioni: dell’Est Europa, africane, del continente asiatico, del centro Europa, sudamericane e nordamericane.

Nella maggior parte dei casi hanno fissa dimora ma hanno partorito in una città diversa da quella di origine. Arrivate, quasi sempre, in ospedale da sole o, alla meglio, con un’altra donna o un parente, sono soprattutto donne primipare. Fa pensare, piuttosto, che il 7,1 per cento abbia altri figli in affido o in adozione. Perché?

Le donne intervistate nei settanta centri nascita italiani si trovano in uno stato di disagio economico e sociale, hanno paura di perdere il lavoro, di essere espulse, di dover crescere un figlio in solitudine in un Paese straniero. Mettici la coercizione, la violenza, la giovane età, di fondo, in tutti i casi, c’è una carenza psichica. Ma evitare gli abbandoni in condizioni di rischio si può. In primis, attraverso la divulgazione di informazioni più capillari sulla contraccezione. E poi, con un supporto alla genitorialità, un’assistenza materiale, sociale, morale ma soprattutto psicologica (con adeguate psicoterapie, ndr).

Con la creazione di strutture di accoglienza madre-bambino che possano mettere le donne in condizioni di prendersi cura del neonato e di reti di sostegno più resistenti, capaci di indirizzare le donne verso enti pubblici e privati che forniscano consulenza. E si prendano in carico “la madre per cercare di risolvere tutti i problemi che la costringono a non riconoscere il figlio, evitando intoppi burocratici, conflitti di competenze, perdite di tempo”. Parola dei neonatologi della Società Italiana di Neonatologia, che ha patrocinato il progetto, insieme al ministero della Salute.

Serve, però, un cambiamento culturale. Un atteggiamento più accogliente e meno giudicante. Che favorirebbe una maggiore libertà di chiedere aiuto senza paura. Quella di doversi rapportare a una nascita che non riescono a sostenere.

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