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di Tania Careddu
Leggere è un’azione visiva, mentale e psichica. E’ una linea fra il dentro e il fuori. Crea immagini. E’ rapporto e suono. L’incapacità di fondere la linea interna con le figure esterne, non trovando un senso che le colleghi perché il segno non corrisponde al suono, genera un disorientamento: la dislessia. Rosetta Cammarella, logopedista accredita presso Operation Smile, con quarant’anni di esperienza presso la Croce Rossa Italiana, ad altrenotizie.org la spiega così: “La dislessia è la difficoltà di un bambino di imparare a leggere, a fare i calcoli (discalculia) e a scrivere (disgrafia), e fa parte del disturbo di apprendimento.
E’ diagnosticato entro il primo o il secondo anno della scuola elementare, su sollecitazione delle maestre che notano la problematicità, ma in realtà, già nella scuola materna i bambini possono aver avuto difficoltà di apprendimento della lingua, nel disegno o presentare una disarmonia motoria, che potrebbero essere i presupposti di una complessità che si conclama, appunto, nella scuola elementare.
E come ci si muove in questi casi? Quando le maestre si accorgono di questi disagi, parlandone con i genitori, si decide come intervenire per trovare una diagnosi. Diagnosi che spetta al neuropsichiatra, associato a una visita oculistica, ortottica, optometrica e otorinolaringoiatrica per un eventuale esame audiometrico. Dopo aver completato la diagnosi, a carico dell’Asl di competenza del proprio territorio, tocca al logopedista decidere il trattamento da applicare.
Quanto è importante la diagnosi? “E’ fondamentale perché i disturbi sottostimati dalla scuola dell’infanzia, possono portare la famiglia a pensare il bambino, diventato scolaro, svogliato. No: ha obiettivamente delle difficoltà reali. Quando comincia a leggere una parola, dovrebbe avere immediatamente l’immagine di questa parola. Ma, poiché il disturbo presuppone anche un deficit di concentrazione, la lettura gli riesce più difficile e si blocca. Essendo deconcentrato, tutte le sue potenzialità di comprensione non vengono messe in atto, sfuggendogli il significato di quello che ha letto. E rilegge la stessa parola. Risultato: ne perde il senso. Che può ritrovare solo quando ‘l’immagine acustica’ si fonde con quella visiva, una combinazione che lo porterà verso una fusione che aveva smarrito”.
Come si può intervenire? “La logopedista deve lavorare in questa direzione, con la continuità del rapporto. Imparare a leggere, imparare a comprendere e imparare a concentrarsi vanno fatte all’unisono. Dunque, il lavoro non è solo nella lettura ma anche nella concentrazione e nella comprensione, per evitare che il bambino, di fronte a tanta fatica e a uno scarso risultato, senta di avere un minus, e perché man mano che va avanti nel percorso scolastico, le competenze che gli vengono chieste sono sempre maggiori".
E la scuola? La scuola, dal canto suo, può provvedere a supportare il bambino dislessico con dei sostegni, vedi il computer o un programma personalizzato, sempre previa certificazione fornita dalla Asl. Ovviamente, e considerato che ci sono delle scale di gravità, dalle forme più sfumate a quelle più evidenti, prima si interviene e maggiore è il recupero a livello didattico”.
Prosegue la dottoressa Cammarella: “Il segno linguistico unisce non una cosa e un nome, ma un concetto e un’immagine acustica. Quest’ultima non è il suono materiale, cosa puramente fisica, ma la traccia psichica di questo suono (…). Il carattere psichico delle nostre immagini acustiche appare bene quando noi osserviamo il nostro linguaggio. Senza muovere né le labbra né la lingua possiamo parlare tra noi o recitarci mentalmente un pezzo di poesia”, scriveva, nel 1916, il noto linguista svizzero, Ferdinand de Saussure. Vero. Ma bisognerà aspettare lo psichiatra italiano, Massimo Fagioli per teorizzare che è “trasformando i suoni in segni, in un misterioso ritorno al contrasto primario tra luce e buio ripetuto ogni volta che accostando colori diversi si distinguono gli uni dagli altri, che si realizza la propria immagine”.
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di Tania Careddu
Con le loro braccia sostengono interi settori dell’agricoltura italiana. Dalle stalle del nord per la produzione del Parmigiano Reggiano ai meleti della Val di Non. Dalle uve del Piemonte al pomodoro del meridione, dove la drammaticità della questione è l’humus per lo sfruttamento dei lavoratori migranti. Che perdura e peggiora in una situazione socioeconomica e culturale compromessa, fatta di mancato sviluppo economico, inefficienza della pubblica amministrazione, corruzione e illegalità diffusa.
In questo quadro s’innesta l’arretratezza del comparto agricolo, indietro di mezzo secolo, che non vede altra alternativa se non quella di scaricare le sue carenze sull’anello debole della catena, trova terreno fertile un’accoglienza disumana per i braccianti migranti.
Gravi violazioni dei diritti fondamentali sono il risultato di un modo di produzione che, sebbene con differenti peculiarità, presenta caratteristiche comuni in quelle aree del sud nelle quali il lavoro segue il ciclo stagionale. Uso intensivo della manodopera migrante altamente ricattabile; forza lavoro organizzata in squadre con conseguente ricorso al caporalato; luoghi di lavoro estremi; mancati pagamenti e minacce; riduzione in schiavitù; soluzioni abitative al di sotto della soglia minima della dignità umana.
Dalla Piana di Gioia Tauro alla Piana del Sele, dal Vulture Alto Bradano all’Agro Pontino fino alla Capitanata, la California d’Italia, è, “emergenza umanitaria”, come l’hanno definita Medici per i Diritti Umani (MEDU) nel dossier Terraingiusta.
Sebbene la maggior parte dei lavoratori stranieri sia in possesso di un permesso di soggiorno regolare o per motivi di lavoro o per protezione internazionale oppure per ragioni umanitarie, per cui la presenza di questi in condizioni di irregolarità è esigua, il fenomeno del lavoro nero è visibile nettamente.
E neppure la presenza di un contratto rappresenta la garanzia di un equo rapporto di lavoro. In tutti i contesti, i contributi dichiarati sono risultati inferiori al numero di giornate lavorative effettuate. E il salario, sia con contratto sia in condizioni di lavoro nero, è ridotto rispetto ai minimi giornalieri garantiti dal contratto collettivo nazionale: quarantadue euro lordi previsti dal contratto per la Piano di Gioia Tauro versus i venticinque percepiti, trentadue nella Piana del Sele contro i quarantotto realmente spettanti. Di più: il contratto di lavoro non esclude il ricorso al caporalato.
Provenienti dallo stesso Paese dei braccianti reclutati, i caporali continuano a essere un’intermediazione necessaria alla catena dell’organizzazione del lavoro.
Per cui si paga tramite il corrispettivo per il trasporto verso i luoghi di lavoro (generalmente 5 euro al giorno per il servizio) o attraverso la sottrazione di una certa quota della paga giornaliera o con il pagamento da parte del datore di lavoro di una data cifra concordata in funzione dei braccianti messi a disposizione in una determinata giornata.
Sono giovani migranti i braccianti. Hanno fra i trenta e i trentanove anni, provengono dall’Africa occidentale, dal Maghreb e dal subcontinente indiano. Sono sani al loro arrivo, si ammalano a causa delle condizioni in cui sono costretti a lavorare, per lo più a cottimo, sviluppando patologie osteo-muscolari.
E per quelle igienico-sanitarie e di precarietà sociale e abitativa - alloggi di fortuna, edifici fatiscenti, casolari abbandonati - che compromettono l’apparato digerente e quello respiratorio. Hanno un permesso di soggiorno e un contratto di lavoro ma sono sprovvisti della tessera sanitaria. E di ogni diritto.
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di Tania Careddu
Dodici grammi di alcol puro per sei. A tanto ammonta la quantità di bevande alcoliche bevute in un arco di tempo ristretto perché un consumatore di alcol possa essere definito binge drinking. Di alcolici di ogni tipo e assunti in modo consecutivo. Un’abitudine molto diffusa nei Paesi del Nord Europa, importata dagli Stati Uniti e da alcuni anni è visibile anche in Italia. Emerge dalla Relazione del ministero della Salute al Parlamento sugli interventi realizzati ai sensi della legge 30.03.2001 “Legge quadro in materia di alcol e problemi alcol correlati”.
Che pubblica numeri non confortanti: nonostante tra il 2003 e il 2013 si sia osservata una diminuzione statisticamente significativa, pari all’1,4 per cento, nel 2013 fra le persone di undici anni e più, il 6,3 per cento ha dichiarato di aver consumato almeno una volta sei o più bicchieri in un’unica occasione, “rito” maggiormente diffuso fra i giovani dai diciotto ai ventiquattro anni, rappresentando la quasi totalità del consumo a rischio in questa fascia d’età.
Sono soprattutto maschi e lo praticano in contesti di socializzazione e del divertimento collettivo. Nei bar, nelle discoteche, nei night, nei ristoranti, in pizzeria, all’aperto o per strada, spesso bevendo con l’obiettivo di arrivare all’ubriachezza ma senza la consapevolezza di poter incappare nell’intossicazione alcolica.
Con rischi immediati e danni cronici. Aumentando l’euforia e la disinibizione degli individui, in particolare fra gli adolescenti, le intossicazioni causano, nelle migliori delle ipotesi, vuoti di memoria e cefalee e, nei casi peggiori, il coma etilico. Disturbi della sfera emotiva, relazionale, affettiva, che determinano, spesso, fenomeni di violenza e incidenti stradali.
Le dimensioni del fenomeno sono diventate tali da richiedere la pubblicazione, a livello comunitario, di un documento della Commissione europea, nel quale sono state identificate sei aree sulle quali sarebbe necessario intervenire per contrastare il consumo eccessivo di alcol tra i giovani. Ossia ridurre gli episodi di binge drinking, l’accessibilità e la disponibilità di alcolici per i giovani, l’esposizione alle pubblicità legate all’alcol, i danni causati dall’assunzione di bevande alcoliche in gravidanza, garantire un ambiente sano e sicuro per i giovani, e, infine, migliorare le attività di ricerca e monitoraggio sul tema.
Anche perché in Europa, dopo il fumo e l’ipertensione, l’alcol è il terzo fattore di rischio di malattia e morte prematura. Per epatopatie alcoliche, sindrome psicotrope indotte da alcol e gastrite alcolica.
A ciò si aggiunga che la principale causa di decesso per i giovani etilisti critici è rappresentata dagli incidenti stradali, dei quali un terzo coinvolgono giovanissimi tra i quindici e i venti anni.
Violenza e tentativi di suicidio sono la terza causa più frequente di decessi sopravvenuti al consumo eccessivo di alcol tra gli adolescenti per i quali il rischio di suicidio, appunto, è maggiore di quattro volte rispetto ai non bevitori.
D'altronde come negare che le cause dell’alcolismo siano da rintracciarsi nella depressione? “La vita mi faceva semplicemente orrore. Ero terrorizzato da quello che bisognava fare solo per mangiare, dormire e mettersi addosso qualche straccio. Così restavo a letto a bere. Quando bevi il mondo è sempre lì fuori che ti aspetta ma per un po’ almeno non ti prende alla gola”, scriveva Charles Bukowski.
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di Rosa Ana De Santis
E’ questa la verità dell’ultimo viaggio in Somalia della giovane giornalista e in questo triangolo pericolosissimo: USA/ITALIA/BUGIA DELLA CARITA’ si muove Ilaria con il suo lavoro fino a firmare in quei giorni la sua condanna a morte. La giornalista considerata del “sociale”, come se questo avesse un che di negativo e squalificante, vicina al popolo somalo e alle donne, tocca con domande scomode e analisi meticolose il cuore di un orribile retroscena.
La morte di Ilaria non è la più assurda delle cose che accadono in questa pagina di storia italiana. I depistaggi, la violazione e il furto dei documenti d’indagine e dei suoi preziosi taccuini, la compravendita di un testimone che vende un innocente ancora in carcere, la commissione parlamentare presieduta da Taormina che assicura che il viaggio in Somalia fosse una vacanza, rappresentano la violenza peggiore fatta sulla memoria di questa giovane di 28 anni, uccisa per aver svolto il suo lavoro con onore purissimo.
Ilaria era una ragazza studiosa, preparatissima, vincitrice di un concorso RAI, parlava fluentemente l’arabo e la sua stanza, custodita dalla madre e ferma al giorno prima della sua partenza, è piena di libri. Ovunque. Era una giovane brava, talentuosa, Ilaria, che aveva impugnato la professione giornalistica con un impegno personale assoluto, con devozione coraggiosa alla sua autonomia di pensiero e analisi, non come un embedded o un corrispondente da albergo a quattro stelle. E che muore sola senza la presenza di alcuna istituzione, pur allertata, sul luogo dell’agguato.
La Presidente Boldrini ha desecretato i dossier più scomodi. In quest’era di giovanilismo esasperato venduto finora solo come retorica, dove anche l’esercizio della professione giornalistica vive un annebbiamento del suo reale senso, il caso Ilaria Alpi deve diventare decisivo. Non è solo un’operazione di memoria o di commemorazione, come fanno i premi sparsi in giro intitolati a “Ilaria Alpi”, ma deve diventare un’operazione politica, una restaurazione di verità.
A chiederlo in prima linea vorremmo vedere tutti i colleghi giornalisti. Non solo quelli della redazione del Tg3 ma quelli di tutta la RAI. Di tutte le testate. Di tutti quei giovani che a questo mestiere si avvicinano con una quota di romanticismo comunque prezioso e legittimo. Occorre mettere i sigilli alle emozioni senza giustizia, come una cronica attitudine italiana tende a fare, confondendo la consolazione con un risarcimento. Bisogna, dentro un’indagine che ancora oggi è attuale e ha tanto da mostrare, mettere a processo ogni operazione di carità esterofila, ogni contiguità più o meno oscura tra questa e la diplomazia e la politica estera.
“L’ultimo viaggio per la verità”, mandato in onda da Rai Tre, ha offerto un coraggioso servizio di informazione. Un autentico onore alla memoria di un martirio laico, con il ritardo di 21 anni di depistaggi ben congegnati. E lancia un importante capo d’accusa alla politica e alle Istituzioni che di tragedie raccontate in calunnia hanno fatto un’arte.
Se questo è il governo della rottamazione assoluta, allora magari c’è da stare accorti. E speranzosi. E nel frattempo in una prima serata è stato possibile gustare - seppur tragica - una pagina di informazione seria e preziosa. Peccato e un po’ macabro che nei momenti di maggior appeal di trama incombesse la ghigliottina della pubblicità. Una spiegabile incognita per la tv di Stato che vive di canone e un difetto di stile per il ricordo di una collega come oggi non se ne vedono più.
Lontana anche per tempo storico dal boom dei social network che replicano notizie tutte uguali a tutta velocità. Lontana dai desk e dal tepore delle redazioni. Una voce diversa da tutto il resto, che non batteva le notizie passate di mano. Questo era Ilaria Alpi. Soltanto una vera giornalista.
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di Rosa Ana De Santis
L’ultimo episodio di violenza giovanile viene dalle pagine della cronaca di Torino. E’ il quotidiano La Stampa del 3 aprile scorso a riportare il caso accaduto durante una gita a Roma di un liceo di Cuneo. Un ragazzo assalito e accerchiato, “denudato, deriso e addobbato”. Ripreso, soprattutto. Un video che nessun genitore vorrebbe mai vedere.
I ragazzotti del tempo degli smartphone, d’altro canto, non fanno nulla senza riprendersi, senza scattare foto e selfie, senza far girare video e immortalare le gesta di quello che ormai è a pieno titolo materia di lavoro per psicoterapeuti, docenti e genitori: il bullismo. C’è stato bisogno di trovargli un nome ad hoc e di impegnare una direttiva del Ministero dell’Istruzione.
L’episodio in questione ha però un’aggravante. Al provvedimento della preside di sospendere i ragazzi, i genitori si sono ribellati difendendo la “bravata” da qualsiasi accostamento con il bullismo. Malmenare un giovane inerme, depilarlo, acconciarlo e denigrarlo e riprenderlo contro la sua volontà, è una “bravata” secondo costoro. Una sorta di nonnismo giovanile bonario e cameratesco.
Eppure il confine tra la “presa in giro” che ha fatto parte dell’infanzia di chiunque e il connubio di violenza fisica e psicologica che porta a parlare di bullismo come di una violenza specifica, con dei tratti patologici e con l’aggravante di un narcisismo annesso, quello che porta a filmare e a diffondere sui social network, che trasforma tutto in spettacolo, i carnefici in eroi e le vittime in maschere da reality, è ben altra cosa e un vago “senso comune” dovrebbe bastare a coglierne il discrimine. O forse, verrebbe da dire, se l’asticella della differenza si è spostata al ribasso, è proprio per il processo di normalizzazione di cui questi genitori sono tristemente protagonisti.
Era bulla la ragazza che aveva picchiato a Sestri Ponente, a marzo scorso, una ragazzina di dodici anni. Una sequenza video agghiacciante con un cordone di adolescenti spettatori imbelli che bulli, a voler vedere bene le cose, lo erano altrettanto, quanto la ragazza che sferrava calci e pugni. La ragazza protagonista dell’aggressione è una ragazza dalla storia difficile, casa famiglia e sbandamenti vari. Non un’attenuante, ma una spiegazione.
Quella che rimane difficile da comprendere è quando i genitori ci sono. Ci sono dietro le baby prostitute dei Parioli, ci sono dietro ai balordi che hanno violentato con un compressore un adolescente nel napoletano. Ci sono dietro ai liceali di Cuneo. E tutti sono orientati a normalizzare, a non cogliere inorriditi la gravità del reato. Questo il dato migliore e peggiore che andrebbe indagato a dovere.
Sorprende il ritratto della famiglia italiana che ne emerge. Merita una riflessione in più il quadro che ne esce e l’ipoteca altissima che cresce sulle future generazioni. In un clima di retorica sul giovanilismo a tutti i costi forse sarebbe salubre un ripartire dai fatti, da alcuni, e osservare bene i propri figli.
Le cui colpe non necessariamente hanno nei genitori la loro ratio, ma che nell’operazione di assoluzione facile che questi avallano, delegando a uno psicologo d’ufficio ogni faticosa indagine, trovano senz’altro la loro assenza di riscatto e la loro definitiva condanna a non avere un futuro degno.
Se i cellulari venissero sequestrati all’ingresso in aula, se le interrogazioni tornassero al loro rigore, se i genitori non avessero parola sulla didattica e se tutto fosse meno “partecipato” e più “gerarchizzato”.
Se le libertà non fossero diventate la bandiera che trasforma gli adolescenti in uomini e donne anzitempo, invertendo i ruoli. Se si tornasse un po’ indietro, semplificando anche un po’ talune ossessioni comportamentali, non si avrebbe più bisogno di “raccontare” gli adolescenti come una popolazione speciale, quasi una categoria protetta vessata di problemi a degli ignari genitori.
L’auspicio è che diminuendo la retorica del futuro e investendo nel welfare si consenta meglio ai genitori di crescersi i figli. Come era un tempo, quando la rottamazione ad ogni costo e di tutto non era di moda.