di Tania Careddu

Organoclorurati, organofosfati, carbammati, piretoidei, neonicotinoidi, glifosato. Persistenti, si degradano in tempi molto lunghi, ‘insaporiscono’ gli alimenti. E sono fortemente nocivi per la salute umana. Degli agricoltori, delle loro famiglie e di una vastissima fascia della popolazione, perché figlia di un modello di produzione industriale di cibo fortemente dipendente dalla chimica e dall’uso massiccio di pesticidi sintetici.

Dalla ‘rivoluzione verde’ degli anni Cinquanta fino ai giorni nostri, allo scopo di incrementare i raccolti e non deludere la domanda, l’agricoltura è costretta a proteggere le colture, sempre più industrializzate, da infestanti e malattie.

A farne le spese (oltre ai consumatori), frutta, vedi uva e mele (in un singolo campione di suolo raccolto in un meleto italiano sono state rilevate tredici sostanze chimiche diverse e dieci in un campione di acqua), verdure, soprattutto a foglia verde, e legumi.

E anche alcuni animali da allevamento, ‘avvelenati’ da mangimi contaminati, i loro derivati, tipo latte, prodotti caseari e uova. Irrorati su terreni agricoli o nelle aree verdi delle città, i pesticidi possono diffondersi a larghe distanze, dai dieci metri ai centocinquanta dai luoghi di applicazione.

Sebbene sia complesso certificare il diretto rapporto causa-effetto per la presenza di una serie di fattori che interviene nell’originarsi di una malattia, l’associazione statistica tra esposizione (e non solo, vista l’eredità epigenetica) e aumento del rischio di sviluppare malattie gravi non può essere ignorata. Per gli effetti neurotossici: agevolano l’insorgere di patologie neurodegenerative, vedi il morbo di Parkinson e quello di Alzheimer, e la sclerosi laterale amiotrofica. Per gli impatti significativi sul sistema immunitario: possono portare a un aumento dell’ipersensibilità a certe sostanze chimiche o a fenomeni di immunodepressione. Sono interferenti endocrini: disturbano il funzionamento della tiroide e arrecano un disequilibrio degli ormoni sessuali.

E se questa evidenza deve essere approfondita, gli effetti sul feto e sui bambini molto piccoli sono più riscontrabili. Molti di questi veleni sono noti per la capacità di attraversare la placenta. E raggiugere un sistema nervoso in fase di rapido sviluppo.

Alla nascita: peso e lunghezza ridotti, idem le capacità cognitive, alterazione del comportamento, vari tipi di leucemie infantili e tumori alle ossa e al cervello. Colpire i neonati nella misura in cui non possiedono enzimi in grado di ridurre la tossicità di queste sostanze. O i lattanti, con un metabolismo non sufficientemente sviluppato per eliminare tali agenti inquinanti.

A onor del vero, c’è da dire che la maggioranza delle persone è esposta quotidianamente a mix di composti chimici, di cui non si conoscono gli effetti, soprattutto nel lungo periodo, e particolarmente perché, interagendo fra loro, generano cocktail che presentano livelli di tossicità imprevedibili. E i pesticidi contribuiscono ad aumentarne il carico di tossicità.

In una combinazione non trascurabile di fattori ambientali e predisposizione genetica. Individuare la correlazione e “adottare politiche in grado di garantire a tutti alti standard di sicurezza è una sfida” del futuro, si legge nel Rapporto ‘Tossico come un pesticida’, elaborato da Greenpeace.

di Tania Careddu

Facilitano l’esercizio dei diritti familiari e genitoriali delle famiglie italiane. E sono la miglior risposta alla nostra non autosufficienza. Eppure, le badanti sono vittime di un’irregolarità diffusa che le porta a condizioni di lavoro informali e a scarse tutele. Tipo: la forma di lavoro per la quale spesso non sono professionalmente qualificate, l’orario di lavoro eccessivo, l’alloggio - il più delle volte condiviso con la persona assistita - la dimensione familiare negata con i figli rimasti nel Paese d’origine.

Oppure, se ricongiunti, portatori di situazioni complicate da gestire per la lavoratrice, sotto il profilo della conciliazione dei tempi, del benessere psico-sociale dei figli e dell’integrazione della famiglia in generale.

L’irregolarità contrattuale, secondo quanto si legge nel report Lavoro domestico e di cura: pratiche e benchmarking per l’integrazione e la conciliazione della vita familiare e lavorativa, redatto da Soleterre e Irs, riguarda quasi i due terzi delle assistenti familiari.

Delle ottocentotrenta mila, duecentosedici mila risiedono irregolarmente in Italia, senza alcuna prospettiva di formazione, sviluppo professionale, connessione con i servizi pubblici, sono vittime di una segregazione anche sociale, costrette come sono a corisiedere con l’assistito, in un rapporto di dipendenza personale che impedisce di relazionarsi al contesto e di chiedere il ricongiungimento familiare.

Duecentocinquantatre mila, pur risiedendo regolarmente, lavorano senza contratto: condizione precaria ed aleatoria professionalmente ma che, se non altro, lascia maggiori spiragli di integrazione. Trecentosessantuno mila sono totalmente in regola: talvolta è una regolarizzazione ‘grigia’, le ore dichiarate sono inferiori a quelle effettuate, l’inquadramento è in una categoria inferiore e il riconoscimento dello stipendio è pari al minimo tabellare.

E però, la negazione dei diritti, le esigenze lavorative che impongono di corisiedere (pure per gli elevati costi del mercato immobiliare) con l’anziano assistito, condizione di sei badanti su dieci, sono fattori che incidono pesantemente sulle possibilità di conciliazione e di attuazione di scelte famigliari di ricongiungimento. Esposte ad alti livelli di stress, le badanti si cimentano, oltre che nella cura e nell’assistenza tout court, soprattutto nella gestione emotiva dei rapporti, che riguardano spesso persone sole e isolate, frequentemente in condizioni di totale non autosufficienza.

L’impatto di questo rapporto sulla loro vita è molto significativo dal punto di vista psichico. E, il ritorno a casa, peggiora la situazione. Fanno una crisi depressiva che spiegano così: la maternità a distanza, la continua prossimità con la malattia e la morte degli anziani, le pesanti condizioni di lavoro, la perdita della propria identità professionale e l’impossibilità di mettere a valore quanto appreso in Italia, l’erosione dei legami sociali con gli amici rimasti in patria.

L’Europa dell’Est e il Sud America. Da cui sono partite per arrivare in Italia, in forma massiccia, negli anni Novanta. Anche se negli ultimi anni il fenomeno ha rallentato la sua corsa ed è meno dinamico, il lavoro di queste ultraquarantenni, madri di figli rimasti ‘orfani bianchi”, è sempre consistente: assistono un milione di anziani, un numero pari a quasi cinque volte quello degli ultrasessantacinquenni ricoverati in strutture residenziali e a quasi sei volte di quelli seguiti a domicilio dai servizi di assistenza domiciliare comunali.

di Tania Careddu

Semina, ripulitura dalle erbacce, concimazione e raccolta delle coltivazioni principali e di quelle secondarie. E’ il contributo fondamentale delle donne alla produzione di cibo e alla sicurezza alimentare. Nei Paesi in via di sviluppo e nelle aree rurali, dove vivono la maggior parte delle persone che soffrono la fame, le donne producono la maggior parte degli alimenti consumati sul posto. Con i loro orti domestici, molto produttivi, soddisfano il benessere nutrizionale ed economico.

Anche solo rappresentando, secondo quanto riportato nello studio della Fao Le donne, l’agricoltura e la sicurezza alimentare, il 2 per cento delle terre della loro famiglia, rendono la metà della produzione totale dell’intera fattoria, una su cinque delle quali è gestita da donne. E producono più del 20 per cento del reddito familiare e il 40 per cento del fabbisogno alimentare domestico.

Loro, le donne, al contrario di quanto fanno gli uomini che impiegano il 25 per cento delle proprie entrate per altri scopi, utilizzano quasi tutto il reddito derivante dalla produzione agricola per far fronte alle necessità famigliari. Eppure lavorano molte più ore degli uomini: in Asia e in Africa, per esempio, sono operative per tredici ore a settimana in più degli uomini.

Trasportano più di ottanta tonnellate di combustibile, acqua e prodotti agricoli per un chilometro; gli uomini solo un ottavo di queste quantità, con una media di dieci tonnellate per un chilometro all’anno. Ma questi, per il riconoscimento ufficiale di capi famiglia, sono considerati ‘capi del fondo agricolo’, anche quando le responsabili del lavoro giornaliero e della conduzione del fondo sono le donne. Le quali dedicano un’ora ogni giorno, o quattro quando è necessario, al rifornimento d’acqua indispensabile per cucinare.

Eppure tutto questo non basta per sovvertire la tradizione e le leggi che impediscono loro di possedere la terra. Che, servendo da garanzia, le esclude anche dall’accesso al credito. Senza questo, non possono acquistare materiali essenziali per il lavoro, vedi le sementi, i fertilizzanti e gli attrezzi, o investire nell’irrigazione e nel miglioramento delle terre. Tagliate fuori, se non per un esiguo 5 per cento, pure dai servizi di divulgazione e formazione per imparare a conoscere le nuove varietà delle coltivazioni e le nuove tecnologie: il loro ruolo, nella produzione alimentare, è raramente riconosciuto.

Ma è d’obbligo sapere che l’informazione riveste un potere critico. Per ottenere maggiori e più complete informazioni statistiche sui ruoli e sulle necessità delle donne, dovrebbero essere intraprese azioni per riesaminare i dati esistenti. Sarebbe opportuno utilizzare tecniche come la valutazione rurale partecipata (PRA).

Che si basa sulla conoscenza e l’esperienza delle donne, usando strumenti quali il calendario stagionale, i profili di attività giornaliera e le mappe delle risorse familiari e dei villaggi. Così si renderebbe determinante il loro apporto e si eliminerebbero gli ostacoli che le bloccano. Per raggiungere l’obiettivo del Vertice mondiale sull’alimentazione.

Nell’attesa, in occasione di EXPO 2015, WE-Women for Expo International ha creato un documento-manifesto Women for Expo Alliance, contro lo spreco alimentare per il rafforzamento del ruolo femminile nell’agricoltura nel mondo. Come? Abbattendo quelle barriere culturali e sociali, prima che politiche, che ancora impediscono alle donne - che sono il 40 per cento della forza lavoro agricola nel mondo - di produrre di più e meglio.

Con una conclusione: se le donne avessero sufficiente accesso al credito agricolo, se potessero avere un’istruzione adeguata, se fossero in grado di possedere le terre che coltivano, la produzione agricola aumenterebbe sensibilmente, portando fuori dalla malnutrizione e dalla denutrizione centocinquanta milioni di persone. Per questo la battaglia per i diritti e gli strumenti delle donne che lavorano i campi equivale alla lotta contro la fame nel mondo.

di Tania Careddu

Fisica, sessuale o psicologica. Sei milioni e settecentottanto mila donne hanno subito una qualche forma di violenza nel corso della loro vita. Da parte di partner o ex. Parenti o amici, in qualche caso. E anche sconosciuti, nel caso di violenze sessuali. Spintonate, strattonate, oggetto di schiaffi, pugni e morsi. Violenze, di cui gli stupri ne costituiscono l’apice, così gravi e lesive da suscitare il terrore di perderla, quella vita.

Una violenza che non conosce età, che colpisce donne dai settanta ai sedici anni. E anche prima. Toccate sessualmente, durante l’infanzia, contro la propria volontà, o costrette a toccare le parti intime dell’abusante, in genere conosciuto. Figli costretti ad assistere alla violenza del padre nei confronti della madre o, addirittura, coinvolti nella violenza. Figli di mamme che hanno subito violenza in gravidanza. E donne che l’hanno subita, soprattutto quella sessuale, anche essendo in cattiva salute o avendo gravi limitazioni.

Quelle separate, in particolar modo fra i venticinque e i quarantaquattro anni, ne sono state vittima in misura maggiore rispetto ad altre. Con un’incidenza più alta tra le istruite e tra quelle che lavorano in posizioni professionali più elevate. Ma questo dato può essere dovuto a una maggiore disponibilità a parlarne. Con i famigliari, gli amici e i parenti. E dal 2014, è cresciuto il ruolo di figure professionali a cui si rivolgono: avvocati, magistrati e forze dell’ordine.

Coerentemente con l’aumento delle denunce. Anche perché, è lievitata la percentuale, dal 14,3 per cento del 2006 al 29,6 per cento, delle vittime che la considerano un reato, abbandonando l’idea, troppo diffusa, che sia un semplice accadimento. E i dati Istat, riportati nella Rapporto La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia, confrontati con quelli della medesima ricerca risalente al 2006, fanno ben sperare.

Si colgono importanti segnali di miglioramento: diminuiscono la violenza fisica e quella sessuale sia da parte dei partner attuali o ex sia perpetrata da uomini diversi dai compagni. Anche se, nonostante siano diminuite alcune forme di violenza di minore gravità, è aumentata la gravità delle violenze.

Più alto il numero delle violenze con ferite. In forte calo la violenza psicologica, quella in cui si manifesta un’asimmetria che sconfina in pesanti situazioni di limitazione, controllo e svalorizzazione della partner. Perché è aumentata la capacità delle donne di mettere fine ai rapporti violenti (per il 41,7 per cento la violenza, fisica e sessuale, è stata la causa principale per interrompere la relazione).

Più frequente fra le giovani donne e tra quelle con un titolo di studio medio-alto, fra le donne del Sud e delle Isole, dove, invece, si riscontra il tasso minimo, tra l’altro con un trend decrescente, circa le violenze fisiche, più visibile al Centro - nel 2006 il valore più alto si registrava nel Nord Est - in cui si rilevano molte più vittime di stalking da parte di partner o ex. Più della metà delle donne, vittime di violenza da parte loro, cade in situazione di perdita di sfiducia e di autostima.

Ansia, fobie, attacchi di panico, disperazione e sensazione di impotenza, disturbi del sonno e dell’alimentazione, depressione, perdita della memoria, dolori ricorrenti in tutto il corpo, difficoltà nel rapporto con i figli, autolesionismo e idee suicidarie.

E se è vero che la violenza ha una trasmissione (non genetica, come vorrebbero alcune vetuste scuole di pensiero) intergenerazionale, essendoci un nesso tra vittimizzazione vissuta o assistita e comportamenti (pensieri) violenti, è altrettanto credibile che la violenza non sia ineluttabile.

di Tania Careddu

Dal latino migrare, immigrazione uguale movimento. Ha il pregio di indicare un passaggio, uno status provvisorio. Si parte e si arriva. Si tenta di inserirsi nelle società di approdo. E’ (dovrebbe essere) un’integrazione reciproca tra i migranti e la società d’inserimento. Che si organizza (dovrebbe) in relazione all’arrivo di persone che sono state coinvolte in un processo di socializzazione in contesti caratterizzati da sistemi culturali diversi da quelli di approdo.

Per superare la percezione di uno status definitivo e sottolineare una condizione che è (dovrebbe essere), invece, transitoria, superabile con la pienezza della partecipazione politica e della cittadinanza. Due dimensioni che, in Italia, potrebbero non essere lungi dalla realizzazione piena.

Allo stato, il Belpaese vanta, secondo l’indice di ricerca MIPEX2015, una posizione sopra la media dell’Unione europea, relativamente alla partecipazione attiva alla vita politica, appunto, rafforzata dall’esistenza di spazi per organi consultivi per stranieri, mancando ancora, però, il diritto di voto.

Condizione simile pure per quanto riguarda il tema della cittadinanza - permessi aumentati dal 2012 a oggi, per marocchini e albanesi soprattutto e principalmente nel NordEst -: fermo al gradino precedente, però, cioè la residenza di lungo periodo. Ossia, la tendenza degli immigrati di fermarsi e radicarsi nei territori dello Stivale, è un punto di forza delle nostre politiche di integrazione. Nelle quali l’Italia eccelle: è al tredicesimo posto su trentotto Paesi con un totale di cinquantanove punti, in una scala che va da zero a cento.

Prima fra tutte: la sanità. L’accesso alle strutture sanitarie, all’assistenza e ai diritti fondamentali della salute è garantito. Buona anche la voce relativa ai ricongiungimenti familiari, soprattutto al maschile, a seguito del percorso migratorio di donne che rappresentano le principali fonti di sostegno delle famiglie rimaste nel Paese d’origine. Punti critici: l’istruzione, per la difficoltà a contenere la dispersione scolastica dei minori immigrati e a supportare quelli con più difficoltà e disagi.

E dire che ormai quella italiana è una scuola multietnica: gli alunni stranieri sono circa ottocentodue mila. Pollice verso anche relativamente all’antidiscriminazione: persiste un senso di sfiducia verso le autorità e il sistema di giustizia, portando gli immigrati a un basso livello di denunce per discriminazione.

A metà strada, il mercato del lavoro. La cronicità risiederebbe sia nel fatto che molti giovani immigrati non risultano inseriti nel mondo del lavoro né inquadrati in un percorso di formazione (gli internazionali NEET) sia nell’over education, per cui tanti di loro continuano a svolgere mestieri che raramente rispecchiano il loro grado di istruzione e di competenza.

Per il resto, nel primo semestre del 2014, gli occupati stranieri ammontavano a quasi due milioni e mezzo, costituendo l’11 per cento del totale degli occupati in Italia. E producendo l’8,8 per cento della ricchezza nazionale, per una cifra complessiva di ventitre miliardi di euro.

Sono aumentate anche le loro imprese, del 4,5 per cento, presenti soprattutto in Lombardia, Toscana, Lazio ed Emilia Romagna. Eppure, nel linguaggio (fin troppo) comune, l’immigrato diventa uno stereotipo in base alla nazionalità e allo status sociale che riflette un’immagine di ‘invasore’, come si legge nell’ultimo Rapporto di Caritas-Migrantes, piuttosto che di ‘risorsa’. Pericolo per la sicurezza nazionale. Ma per chiarie l’esistenza di un reale nesso tra immigrazione e criminalità occorre comparare la condizione con quella dei detenuti italiani.

Per sgomberare il campo da qualunquistiche considerazioni, si sappia che la presenza consistente di immigrati negli istituti di pena è dovuta principalmente all’effetto della legislazione repressiva in materia di immigrazione. Non solo. Alla loro (svantaggiata) posizione giuridica: hanno scarse opportunità rispetto agli italiani di usufruire di misure alternative alla detenzione, per la poca fiducia verso di essi sia da parte dei magistrati di sorveglianza sia da parte dei servizi sociali. Reciproco, no?


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