di Tania Careddu

Fisica, sessuale o psicologica. Sei milioni e settecentottanto mila donne hanno subito una qualche forma di violenza nel corso della loro vita. Da parte di partner o ex. Parenti o amici, in qualche caso. E anche sconosciuti, nel caso di violenze sessuali. Spintonate, strattonate, oggetto di schiaffi, pugni e morsi. Violenze, di cui gli stupri ne costituiscono l’apice, così gravi e lesive da suscitare il terrore di perderla, quella vita.

Una violenza che non conosce età, che colpisce donne dai settanta ai sedici anni. E anche prima. Toccate sessualmente, durante l’infanzia, contro la propria volontà, o costrette a toccare le parti intime dell’abusante, in genere conosciuto. Figli costretti ad assistere alla violenza del padre nei confronti della madre o, addirittura, coinvolti nella violenza. Figli di mamme che hanno subito violenza in gravidanza. E donne che l’hanno subita, soprattutto quella sessuale, anche essendo in cattiva salute o avendo gravi limitazioni.

Quelle separate, in particolar modo fra i venticinque e i quarantaquattro anni, ne sono state vittima in misura maggiore rispetto ad altre. Con un’incidenza più alta tra le istruite e tra quelle che lavorano in posizioni professionali più elevate. Ma questo dato può essere dovuto a una maggiore disponibilità a parlarne. Con i famigliari, gli amici e i parenti. E dal 2014, è cresciuto il ruolo di figure professionali a cui si rivolgono: avvocati, magistrati e forze dell’ordine.

Coerentemente con l’aumento delle denunce. Anche perché, è lievitata la percentuale, dal 14,3 per cento del 2006 al 29,6 per cento, delle vittime che la considerano un reato, abbandonando l’idea, troppo diffusa, che sia un semplice accadimento. E i dati Istat, riportati nella Rapporto La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia, confrontati con quelli della medesima ricerca risalente al 2006, fanno ben sperare.

Si colgono importanti segnali di miglioramento: diminuiscono la violenza fisica e quella sessuale sia da parte dei partner attuali o ex sia perpetrata da uomini diversi dai compagni. Anche se, nonostante siano diminuite alcune forme di violenza di minore gravità, è aumentata la gravità delle violenze.

Più alto il numero delle violenze con ferite. In forte calo la violenza psicologica, quella in cui si manifesta un’asimmetria che sconfina in pesanti situazioni di limitazione, controllo e svalorizzazione della partner. Perché è aumentata la capacità delle donne di mettere fine ai rapporti violenti (per il 41,7 per cento la violenza, fisica e sessuale, è stata la causa principale per interrompere la relazione).

Più frequente fra le giovani donne e tra quelle con un titolo di studio medio-alto, fra le donne del Sud e delle Isole, dove, invece, si riscontra il tasso minimo, tra l’altro con un trend decrescente, circa le violenze fisiche, più visibile al Centro - nel 2006 il valore più alto si registrava nel Nord Est - in cui si rilevano molte più vittime di stalking da parte di partner o ex. Più della metà delle donne, vittime di violenza da parte loro, cade in situazione di perdita di sfiducia e di autostima.

Ansia, fobie, attacchi di panico, disperazione e sensazione di impotenza, disturbi del sonno e dell’alimentazione, depressione, perdita della memoria, dolori ricorrenti in tutto il corpo, difficoltà nel rapporto con i figli, autolesionismo e idee suicidarie.

E se è vero che la violenza ha una trasmissione (non genetica, come vorrebbero alcune vetuste scuole di pensiero) intergenerazionale, essendoci un nesso tra vittimizzazione vissuta o assistita e comportamenti (pensieri) violenti, è altrettanto credibile che la violenza non sia ineluttabile.

di Tania Careddu

Dal latino migrare, immigrazione uguale movimento. Ha il pregio di indicare un passaggio, uno status provvisorio. Si parte e si arriva. Si tenta di inserirsi nelle società di approdo. E’ (dovrebbe essere) un’integrazione reciproca tra i migranti e la società d’inserimento. Che si organizza (dovrebbe) in relazione all’arrivo di persone che sono state coinvolte in un processo di socializzazione in contesti caratterizzati da sistemi culturali diversi da quelli di approdo.

Per superare la percezione di uno status definitivo e sottolineare una condizione che è (dovrebbe essere), invece, transitoria, superabile con la pienezza della partecipazione politica e della cittadinanza. Due dimensioni che, in Italia, potrebbero non essere lungi dalla realizzazione piena.

Allo stato, il Belpaese vanta, secondo l’indice di ricerca MIPEX2015, una posizione sopra la media dell’Unione europea, relativamente alla partecipazione attiva alla vita politica, appunto, rafforzata dall’esistenza di spazi per organi consultivi per stranieri, mancando ancora, però, il diritto di voto.

Condizione simile pure per quanto riguarda il tema della cittadinanza - permessi aumentati dal 2012 a oggi, per marocchini e albanesi soprattutto e principalmente nel NordEst -: fermo al gradino precedente, però, cioè la residenza di lungo periodo. Ossia, la tendenza degli immigrati di fermarsi e radicarsi nei territori dello Stivale, è un punto di forza delle nostre politiche di integrazione. Nelle quali l’Italia eccelle: è al tredicesimo posto su trentotto Paesi con un totale di cinquantanove punti, in una scala che va da zero a cento.

Prima fra tutte: la sanità. L’accesso alle strutture sanitarie, all’assistenza e ai diritti fondamentali della salute è garantito. Buona anche la voce relativa ai ricongiungimenti familiari, soprattutto al maschile, a seguito del percorso migratorio di donne che rappresentano le principali fonti di sostegno delle famiglie rimaste nel Paese d’origine. Punti critici: l’istruzione, per la difficoltà a contenere la dispersione scolastica dei minori immigrati e a supportare quelli con più difficoltà e disagi.

E dire che ormai quella italiana è una scuola multietnica: gli alunni stranieri sono circa ottocentodue mila. Pollice verso anche relativamente all’antidiscriminazione: persiste un senso di sfiducia verso le autorità e il sistema di giustizia, portando gli immigrati a un basso livello di denunce per discriminazione.

A metà strada, il mercato del lavoro. La cronicità risiederebbe sia nel fatto che molti giovani immigrati non risultano inseriti nel mondo del lavoro né inquadrati in un percorso di formazione (gli internazionali NEET) sia nell’over education, per cui tanti di loro continuano a svolgere mestieri che raramente rispecchiano il loro grado di istruzione e di competenza.

Per il resto, nel primo semestre del 2014, gli occupati stranieri ammontavano a quasi due milioni e mezzo, costituendo l’11 per cento del totale degli occupati in Italia. E producendo l’8,8 per cento della ricchezza nazionale, per una cifra complessiva di ventitre miliardi di euro.

Sono aumentate anche le loro imprese, del 4,5 per cento, presenti soprattutto in Lombardia, Toscana, Lazio ed Emilia Romagna. Eppure, nel linguaggio (fin troppo) comune, l’immigrato diventa uno stereotipo in base alla nazionalità e allo status sociale che riflette un’immagine di ‘invasore’, come si legge nell’ultimo Rapporto di Caritas-Migrantes, piuttosto che di ‘risorsa’. Pericolo per la sicurezza nazionale. Ma per chiarie l’esistenza di un reale nesso tra immigrazione e criminalità occorre comparare la condizione con quella dei detenuti italiani.

Per sgomberare il campo da qualunquistiche considerazioni, si sappia che la presenza consistente di immigrati negli istituti di pena è dovuta principalmente all’effetto della legislazione repressiva in materia di immigrazione. Non solo. Alla loro (svantaggiata) posizione giuridica: hanno scarse opportunità rispetto agli italiani di usufruire di misure alternative alla detenzione, per la poca fiducia verso di essi sia da parte dei magistrati di sorveglianza sia da parte dei servizi sociali. Reciproco, no?

di Tania Careddu

Per deduzione, Dante ed Euclide devono aver frequentato regolarmente l’asilo nido. Se è vero che, sulla base di dati Istat e Invalsi, elaborati da Svimez – Associazione per lo sviluppo dell’industria del Mezzogiorno, nello studio “il più prezioso dei capitali: Infanzia, istruzione, sviluppo del Mezzogiorno”, esiste un nesso evidente tra la frequenza degli asili nido e le buone prestazioni, in italiano e matematica, degli alunni delle scuole elementari.

In Italia funziona più o meno così: primi i bambini trentini che realizzano punteggi superiori a duecentodieci nelle materie sopracitate. Di loro, il 23 per cento, quasi un bambino su quattro, ha frequentato gli asili nido. Uni su cinque in Friuli Venezia Giulia, il 20,7 per cento, che, infatti, raggiunge punteggio duecentotto.

Percentuali a due cifre anche per i piccoli piemontesi, il 15 per cento, e marchigiani, il 17 per cento, che, non a caso, fanno registrare punteggi di duecentosei in entrambe le discipline. Bene anche i minori umbri che frequentano l’asilo nido per il 23 per cento del totale, toccando punteggi pari a duecentotre in italiano e duecentocinque in matematica.

Ma più si scende verso il tacco dello Stivale, più si abbassano i punteggi. Così come le percentuali dei bimbi che vanno all’asilo. Ultimi, i bambini calabresi, i quali frequentano l’asilo nido in misura dieci volte inferiore rispetto a quelli emiliani: ci va il 2,5 per cento con il conseguente esito, alle scuole elementari, di centonovantasei punti. Seguono i campani: 2,8 per cento per centonovantasei punti, i pugliesi con centonovantotto punti e il 4,5 per cento dei bambini frequentanti, l’11 per cento di frequenza per i bambini molisani con centonovantotto punti.

Pari a quelli dei piccoli della Basilicata, dove gli asili nido sono frequentati dal 7,3 per cento del totale, meno di un bambino su dieci. Stessa sorte per i bimbi abruzzesi. Peggio i siciliani con le performance più basse, ferme a centonovanta punti, e solo cinque bambini su cento con lo zaino in spalla nella fascia d’età under ventiquattro mesi. Unica eccezione per il Sud, la Sardegna: segna le migliori performance in italiano e matematica con un punteggio di duecentocinque e un tasso di frequenza del 12 per cento.

Qualità dell’istruzione a parte, i differenziali regionali nei risultati scolastici sono dovuti, anche, a una serie di variabili socioeconomiche (che influenzano la frequentazione degli asili nido). Per esempio, dove c’è maggior ricchezza si trova anche una più capillare diffusione di servizi pubblici per l’infanzia. Mettendo in relazione, infatti, il Pil procapite con la presenza dei servizi citati, emerge che l’Emilia Romagna, il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia sono le regioni con il più alto numero di asili nido e con la maggiore ricchezza per abitante. Viceversa per Campania, Calabria e Sicilia. Solamente nel Mezzogiorno, nel 2013, un milione di famiglie viveva in condizioni di povertà assoluta.

Che non è solo economica. Diventa povertà educativa: la bassissima partecipazione ad attività culturali e di formazione, quando il capitale umano è più ricettivo che mai, si traduce in (futura) esclusione sociale. Ciò riflettendosi sulle prestazioni scolastiche, accentua le diseguaglianze e contribuisce alla trasmissione intergenerazionale della povertà. Cosicché, quando si arriva a quindici anni, test OCSE-PISA alla mano, le competenze degli studenti in italiano, matematica e comprensione del testo rivelano un’Italia divisa tra Nord e Sud.

Dove il contesto familiare ha un ruolo fondamentale nella spiegazione del divario. Così: fra gli adolescenti del Nord Est il punteggio medio in matematica è nettamente superiore alla media OCSE e in linea con i coetanei tedeschi; quelli del Sud e delle Isole raggiungono punteggi più bassi degli studenti turchi. Idem per la lettura. Ma a ormai è tardi.

Occorre investire sulla primissima infanzia per ottenere il maggior (miglior, ndr) rendimento sociale ed economico. E ripaga in termini di minor tasso di criminalità, minore povertà, miglior produttività sul lavoro, risparmio dei costi per interventi di recupero dell’istruzione, cure, spese giudiziarie e sicurezza. Perciò ridurre, a partire dall’infanzia, le disuguaglianze di partenza potrebbe essere una delle soluzioni per una politica di riequilibrio territoriale.

di Tania Careddu

Rimborsi elettorali, finanziamenti ai gruppi parlamentari e regionali, soldi per i loro media. Cosa non si fa per la democrazia, della quale i partiti ne sono l’espressione. In barba alla crisi. Dal 1994 a oggi, lo Stato ha erogato oltre due miliardi di euro di rimborsi elettorali. Troppi, non solo obbiettivamente ma anche rispetto a quelli effettivamente necessari. Tant’è che le spese accertate in questi anni, secondo quanto si legge nel minidossier di Openpolis "Sotto il materasso", si attestano intorno ai settecentoventisei milioni, facendo incassare ai partiti il 34 per cento in più di quello che hanno, conti alla mano, realmente speso.

Uno per tutti: nel 2001 lo Stato ha sborsato quattrocentosettantasei milioni di euro a fronte di una spesa accertata di soli quarantanove milioni. Un surplus, in gergo tesoretto, che è tornato molto utile alle elezioni del 2013. Con un dettaglio, però: che lo Stato, per quella tornata elettorale, i soldi li ha sborsati comunque. Eppure ce l’avrebbero potuta fare anche senza. Perché, considerate le riduzioni apportate dalla riforma del 2012, i partiti hanno iniziato a organizzarsi diversamente per non ritrovarsi in brache di tela.

Oltre ad aver ridotto le loro spese accertate, hanno incominciato a utilizzare altre formule. Che hanno permesso loro di raccogliere il 20 per cento dei soldi da contributi di persone fisiche o giuridiche. Con una dotazione, accumulata nel corso degli anni in cui tutto era lecito, pari a trenta milioni di euro da poter usare per la campagna elettorale. In ogni caso, nulla va sprecato: dopo ognuna di queste, i partiti si spartiscono il malloppo. Fra centrodestra e centrosinistra, principalmente.

Quest’ultima, del 2001 a oggi, risulta essere l’area politica che, grazie alle tornate elettorali nazionali, ha incassato più soldi. Oltre quattrocentottantadue milioni di euro versus i quattrocentotrenta del centrodestra, i centocinquantatre della destra e i settanta della sinistra. Si potrebbe tirare un sospiro di sollievo, alla luce della nuova legge che, dal 2014, abolisce il finanziamento pubblico per le consultazioni elettorali. Illusorio perché, in un solo anno, tramite i ‘contributi istituzionali’, i partiti politici hanno incassato più o meno la stessa cifra che hanno raccolto in due anni di rimborsi elettorali. E sia chiaro: sempre di soldi pubblici si tratta. Che Camera e Senato hanno elargito nel corso di questi anni.

Nel 2013, per esempio, i gruppi parlamentari hanno messo nelle loro casse oltre trentotto milioni di euro e i gruppi consiliari regionali quasi trenta. Degli oltre quaranta milioni messi da parte nel 2013, fra contributi del Parlamento e non, quasi quindici sono rimasti come avanzo di gestione. Spese personali incluse, note all’opinione pubblica, nonostante le somme che ricevono siano vincolate a scopi istituzionali. Tipo attività politiche, funzioni di studio, funzionamento della struttura, trattamenti economici del personale, comunicazione ed editoria.

Ma quotidiani, periodici e radio, in quanto organi di partito, ricevono, già autonomamente, un sostegno economico. Ed è consistente: in dieci anni, dal 2003 al 2013, è stato più o meno pari a trecentoquaranta milioni di euro. Così suddivisi: duecentocinquantadue ai giornali e novantadue alle radio. Ad usufruirne diciannove. Sul podio LUnità che ha intascato sessanta milioni, a seguire La Padania con trentasette e Liberazione con trenta. Poi Europa e Il Secolo d’Italia, che insieme alla prime due testate, hanno continuato a sfruttare questa possibilità, anche dopo le restrizioni imposte dallo Stato.

Sei le radio: in testa, Radio Radicale con un incasso pari a trentasette milioni, sebbene nell’ultimo biennio non abbia ricevuto fondi, seguita da EcoRadio con ventisette milioni e da Radio Città Futura con diciasette.

Eppure il 77,8 per cento dei giornali ha chiuso i battenti, stampa ancora solo il 16,67 per cento e il 5,56 per cento sopravvive solamente in versione on line. Meglio le radio: l’83,33 per cento trasmette ancora mentre il 16,67 per cento no. Chissà se con l’ultima trovata del 2x1000, introdotta nel 2014, dopo le misure adottate dal Governo Letta per l’abolizione delle spese per le consultazioni elettorali, dei contributi pubblici erogati per l’attività politica e a titolo di cofinanziamento, i partiti riusciranno ad autofinanziarsi. E a non fallire.

di Tania Careddu

“Pur essendosi ripetutamente impegnata a farlo, ancora una volta l’Italia non è stata in grado di creare un’istituzione nazionale per i diritti umani”. Così Amnesty International, nel suo ultimo Rapporto sui diritti umani. Un monito per il Belpaese che non risulta essere l’unico. Pecca, infatti, relativamente ai diritti dei rifugiati e dei migranti, in materia di non discriminazione dei rom, sull’aggiornamento in merito al reato di tortura, sulle condizioni carcerarie e sui decessi in custodia. Dal caso di Aldo Bianzino e di Giuseppe Uva a quello di Stefano Cucchi, noti alla cronaca per la morte in seguito all’arresto.

Preoccupa il mancato accertamento delle responsabilità, a seguito di indagini lacunose, esami forensi non risolutivi e carenza dei procedimenti giudiziari. Le cattive condizioni del sistema penitenziario sono lungi, dunque, dall’essere cambiate. Insieme all’annoso problema del sovraffollamento carcerario. Sebbene nell’agosto dello scorso anno, siano state adottate norme per ridurre la durata delle pene per alcuni reati, per incentivare il ricorso alle misure non detentive e sia stata istituita la figura del Garante nazionale dei diritti dei detenuti, lo stato in cui versavano le case circondariali non sembra essere migliorato.

Era dovuta intervenire, nel 2013, la Corte europea per mettere un freno alla disumanità delle condizioni nelle quali erano costretti a vivere i detenuti, per l’insufficiente spazio vitale causa sovraffollamento delle celle. Di più. Perché avevamo violato il divieto di tortura e per aver applicato trattamenti degradanti. E non solo ai detenuti. Prova ne sia l’annullamento, a novembre 2014, della condanna di Francesco Colucci, questore di Genova ai tempi del G8 del 2001, per falsa testimonianza e per aver cercato di proteggere l’allora capo nazionale della polizia, Gianni De Gennaro, e un alto funzionario del dipartimento operazioni speciali della polizia di Genova. Dove e quando decine di manifestanti furono torturati e maltrattati. Perpetuando una violazione degli obblighi dell’Italia ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, che dura da venticinque anni.

Capitolo buio dei diritti umani anche quello sul controterrorismo: la Corte Costituzionale italiana ha dichiarato, a febbraio, che il Governo aveva piena discrezionalità nell’invocare il “segreto di stato” sui casi legati alla sicurezza nazionale. Sostenuta dalla Corte di Cassazione, ha reso nulle le condanne di funzionari di alto livello dell’intelligence italiana, condannati per il rapimento di Usama Mostafa Hassan Nasr (Abu Omar, per intenderci), avvenuto a Milano nel 2003.

Cartellino rosso della Corte europea dei diritti umani pure circa la violazione del divieto di effettuare espulsioni di massa. Quando l’Italia rimandò indietro (in Grecia) alcuni migranti afgani, giunti nel Paese irregolarmente, e li espose così a rischio violazioni, indigenza e, nel caso di espulsione verso l’Afghanistan, di tortura e morte. Perché l’ingresso e il soggiorno irregolare, a fine 2014, erano ancora reato, nonostante una legge, emanata dal Parlamento ad aprile dello stesso anno, richiedesse al Governo l’abolizione. Entro diciotto mesi: ne mancano ancora sei per tirare le somme.

E da diciotto mesi a novanta giorni sarebbero dovuti essere, in seguito all’adozione di una norma in ottobre, del periodo massimo di detenzione dei migranti irregolari in attesa di espulsione. Applicazione: nei centri di detenzione, le condizioni di vita continuano a essere inadeguate. Le stesse già riscontrate in occasione dell’accoglienza all’arrivo di migranti e rifugiati nei porti siciliani e in altri del Sud, inclusi i sopravvissuti, all’affondamento, con traumi. Mancanza che potrebbe aver ritardato il salvataggio delle duecento persone annegate nel naufragio di un peschereccio che trasportava oltre quattrocento persone. Una sorte che è toccata ad altri tremiladuecento migranti nel disperato tentativo di attraversare il Mediterraneo.

Ormai controllato dall’Operazione Triiton, dopo la fine (prematura) dell’Operazione Mare Nostrum, più limitata e più incentrata sul controllo dei confini. Varcati i quali, i rifugiati e i migranti sono sottoposti alle procedure di identificazione che, in seguito a una misura introdotta dal ministero dell’Interno ratificante l’uso della forza per la raccolta delle impronte digitali, si sono rivelate eccessivamente violente. Così come il trattamento che gli abitanti dello Stivale riservano ai rom. Governo compreso. Perché non è stato in grado di attuare la strategia nazionale per la loro inclusione, soprattutto relativamente all’accesso a un alloggio idoneo. I diritti umani, non sappiamo dove stanno di casa.


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