di Tania Careddu

Dodici grammi di alcol puro per sei. A tanto ammonta la quantità di bevande alcoliche bevute in un arco di tempo ristretto perché un consumatore di alcol possa essere definito binge drinking. Di alcolici di ogni tipo e assunti in modo consecutivo. Un’abitudine molto diffusa nei Paesi del Nord Europa, importata dagli Stati Uniti e da alcuni anni è visibile anche in Italia. Emerge dalla Relazione del ministero della Salute al Parlamento sugli interventi realizzati ai sensi della legge 30.03.2001 “Legge quadro in materia di alcol e problemi alcol correlati”.

Che pubblica numeri non confortanti: nonostante tra il 2003 e il 2013 si sia osservata una diminuzione statisticamente significativa, pari all’1,4 per cento, nel 2013 fra le persone di undici anni e più, il 6,3 per cento ha dichiarato di aver consumato almeno una volta sei o più bicchieri in un’unica occasione, “rito” maggiormente diffuso fra i giovani dai diciotto ai ventiquattro anni, rappresentando la quasi totalità del consumo a rischio in questa fascia d’età.

Sono soprattutto maschi e lo praticano in contesti di socializzazione e del divertimento collettivo. Nei bar, nelle discoteche, nei night, nei ristoranti, in pizzeria, all’aperto o per strada, spesso bevendo con l’obiettivo di arrivare all’ubriachezza ma senza la consapevolezza di poter incappare nell’intossicazione alcolica.

Con rischi immediati e danni cronici. Aumentando l’euforia e la disinibizione degli individui, in particolare fra gli adolescenti, le intossicazioni causano, nelle migliori delle ipotesi, vuoti di memoria e cefalee e, nei casi peggiori, il coma etilico. Disturbi della sfera emotiva, relazionale, affettiva, che determinano, spesso, fenomeni di violenza e incidenti stradali.

Le dimensioni del fenomeno sono diventate tali da richiedere la pubblicazione, a livello comunitario, di un documento della Commissione europea, nel quale sono state identificate sei aree sulle quali sarebbe necessario intervenire per contrastare il consumo eccessivo di alcol tra i giovani. Ossia ridurre gli episodi di binge drinking, l’accessibilità e la disponibilità di alcolici per i giovani, l’esposizione alle pubblicità legate all’alcol, i danni causati dall’assunzione di bevande alcoliche in gravidanza, garantire un ambiente sano e sicuro per i giovani, e, infine, migliorare le attività di ricerca e monitoraggio sul tema.

Anche perché in Europa, dopo il fumo e l’ipertensione, l’alcol è il terzo fattore di rischio di malattia e morte prematura. Per epatopatie alcoliche, sindrome psicotrope indotte da alcol e gastrite alcolica.

A ciò si aggiunga che la principale causa di decesso per i giovani etilisti critici è rappresentata dagli incidenti stradali, dei quali un terzo coinvolgono giovanissimi tra i quindici e i venti anni.

Violenza e tentativi di suicidio sono la terza causa più frequente di decessi sopravvenuti al consumo eccessivo di alcol tra gli adolescenti per i quali il rischio di suicidio, appunto, è maggiore di quattro volte rispetto ai non bevitori.

D'altronde come negare che le cause dell’alcolismo siano da rintracciarsi nella depressione? “La vita mi faceva semplicemente orrore. Ero terrorizzato da quello che bisognava fare solo per mangiare, dormire e mettersi addosso qualche straccio. Così restavo a letto a bere. Quando bevi il mondo è sempre lì fuori che ti aspetta ma per un po’ almeno non ti prende alla gola”, scriveva Charles Bukowski.

di Rosa Ana De Santis

E’ questa la verità dell’ultimo viaggio in Somalia della giovane giornalista e in questo triangolo pericolosissimo: USA/ITALIA/BUGIA DELLA CARITA’ si muove Ilaria con il suo lavoro fino a firmare in quei giorni la sua condanna a morte. La giornalista considerata del “sociale”, come se questo avesse un che di negativo e squalificante, vicina al popolo somalo e alle donne, tocca con domande scomode e analisi meticolose il cuore di un orribile retroscena.

La morte di Ilaria non è la più assurda delle cose che accadono in questa pagina di storia italiana. I depistaggi, la violazione e il furto dei documenti d’indagine e dei suoi preziosi taccuini, la compravendita di un testimone che vende un innocente ancora in carcere, la commissione parlamentare presieduta da Taormina che assicura che il viaggio in Somalia fosse una vacanza, rappresentano la violenza peggiore fatta sulla memoria di questa giovane di 28 anni, uccisa per aver svolto il suo lavoro con onore purissimo.

Ilaria era una ragazza studiosa, preparatissima, vincitrice di un concorso RAI, parlava fluentemente l’arabo e la sua stanza, custodita dalla madre e ferma al giorno prima della sua partenza, è piena di libri. Ovunque. Era una giovane brava, talentuosa, Ilaria, che aveva impugnato la professione giornalistica con un impegno personale assoluto, con devozione coraggiosa alla sua autonomia di pensiero e analisi, non come un embedded o un corrispondente da albergo a quattro stelle. E che muore sola senza la presenza di alcuna istituzione, pur allertata, sul luogo dell’agguato.

La Presidente Boldrini ha desecretato i dossier più scomodi. In quest’era di giovanilismo esasperato venduto finora solo come retorica, dove anche l’esercizio della professione giornalistica vive un annebbiamento del suo reale senso, il caso Ilaria Alpi deve diventare decisivo. Non è solo un’operazione di memoria o di commemorazione, come fanno i premi sparsi in giro intitolati a “Ilaria Alpi”, ma deve diventare un’operazione politica, una restaurazione di verità.

A chiederlo in prima linea vorremmo vedere tutti i colleghi giornalisti. Non solo quelli della redazione del Tg3 ma quelli di tutta la RAI. Di tutte le testate. Di tutti quei giovani che a questo mestiere si avvicinano con una quota di romanticismo comunque prezioso e legittimo. Occorre mettere i sigilli alle emozioni senza giustizia, come una cronica attitudine italiana tende a fare, confondendo la consolazione con un risarcimento. Bisogna, dentro un’indagine che ancora oggi è attuale e ha tanto da mostrare, mettere a processo ogni operazione di carità esterofila, ogni contiguità più o meno oscura tra questa e la diplomazia e la politica estera.

“L’ultimo viaggio per la verità”, mandato in onda da Rai Tre, ha offerto un coraggioso servizio di informazione. Un autentico onore alla memoria di un martirio laico, con il ritardo di 21 anni di depistaggi ben congegnati. E lancia un importante capo d’accusa alla politica e alle Istituzioni che di tragedie raccontate in calunnia hanno fatto un’arte.

Se questo è il governo della rottamazione assoluta, allora magari c’è da stare accorti. E speranzosi. E nel frattempo in una prima serata è stato possibile gustare - seppur tragica - una pagina di informazione seria e preziosa. Peccato e un po’ macabro che nei momenti di maggior appeal di trama incombesse la ghigliottina della pubblicità. Una spiegabile incognita per la tv di Stato che vive di canone e un difetto di stile per il ricordo di una collega come oggi non se ne vedono più.

Lontana anche per tempo storico dal boom dei social network che replicano notizie tutte uguali a tutta velocità. Lontana dai desk e dal tepore delle redazioni. Una voce diversa da tutto il resto, che non batteva le notizie passate di mano. Questo era Ilaria Alpi. Soltanto una vera giornalista.

di Rosa Ana De Santis

L’ultimo episodio di violenza giovanile viene dalle pagine della cronaca di Torino. E’ il quotidiano La Stampa del 3 aprile scorso a riportare il caso accaduto durante una gita a Roma di un liceo di Cuneo. Un ragazzo assalito e accerchiato, “denudato, deriso e addobbato”. Ripreso, soprattutto. Un video che nessun genitore vorrebbe mai vedere.

I ragazzotti del tempo degli smartphone, d’altro canto, non fanno nulla senza riprendersi, senza scattare foto e selfie, senza far girare video e immortalare le gesta di quello che ormai è a pieno titolo materia di lavoro per psicoterapeuti, docenti e genitori: il bullismo. C’è stato bisogno di trovargli un nome ad hoc e di impegnare una direttiva del Ministero dell’Istruzione.

L’episodio in questione ha però un’aggravante. Al provvedimento della preside di sospendere i ragazzi, i genitori si sono ribellati difendendo la “bravata” da qualsiasi accostamento con il bullismo. Malmenare un giovane inerme, depilarlo, acconciarlo e denigrarlo e riprenderlo contro la sua volontà, è una “bravata” secondo costoro. Una sorta di nonnismo giovanile bonario e cameratesco.

Eppure il confine tra la “presa in giro” che ha fatto parte dell’infanzia di chiunque e il connubio di violenza fisica e psicologica che porta a parlare di bullismo come di una violenza specifica, con dei tratti patologici e con l’aggravante di un narcisismo annesso, quello che porta a filmare e a diffondere sui social network, che trasforma tutto in spettacolo, i carnefici in eroi e le vittime in maschere da reality, è ben altra cosa e un vago “senso comune” dovrebbe bastare a coglierne il discrimine. O forse, verrebbe da dire, se l’asticella della differenza si è spostata al ribasso, è proprio per il processo di normalizzazione di cui questi genitori sono tristemente protagonisti.

Era bulla la ragazza che aveva picchiato a Sestri Ponente, a marzo scorso, una ragazzina di dodici anni. Una sequenza video agghiacciante con un cordone di adolescenti spettatori imbelli che bulli, a voler vedere bene le cose, lo erano altrettanto, quanto la ragazza che sferrava calci e pugni. La ragazza protagonista dell’aggressione è una ragazza dalla storia difficile, casa famiglia e sbandamenti vari. Non un’attenuante, ma una spiegazione.

Quella che rimane difficile da comprendere è quando i genitori ci sono. Ci sono dietro le baby prostitute dei Parioli, ci sono dietro ai balordi che hanno violentato con un compressore un adolescente nel napoletano. Ci sono dietro ai liceali di Cuneo. E tutti sono orientati a normalizzare, a non cogliere inorriditi la gravità del reato. Questo il dato migliore e peggiore che andrebbe indagato a dovere.

Sorprende il ritratto della famiglia italiana che ne emerge. Merita una riflessione in più il quadro che ne esce e l’ipoteca altissima che cresce sulle future generazioni. In un clima di retorica sul giovanilismo a tutti i costi forse sarebbe salubre un ripartire dai fatti, da alcuni, e osservare bene i propri figli.

Le cui colpe non necessariamente hanno nei genitori la loro ratio, ma che nell’operazione di assoluzione facile che questi avallano, delegando a uno psicologo d’ufficio ogni faticosa indagine, trovano senz’altro la loro assenza di riscatto e la loro definitiva condanna a non avere un futuro degno.

Se i cellulari venissero sequestrati all’ingresso in aula, se le interrogazioni tornassero al loro rigore, se i genitori non avessero parola sulla didattica e se tutto fosse meno “partecipato” e più “gerarchizzato”.

Se le libertà non fossero diventate la bandiera che trasforma gli adolescenti in uomini e donne anzitempo, invertendo i ruoli. Se si tornasse un po’ indietro, semplificando anche un po’ talune ossessioni comportamentali, non si avrebbe più bisogno di “raccontare” gli adolescenti come una popolazione speciale, quasi una categoria protetta vessata di problemi a degli ignari genitori.

L’auspicio è che diminuendo la retorica del futuro e investendo nel welfare si consenta meglio ai genitori di crescersi i figli. Come era un tempo, quando la rottamazione ad ogni costo e di tutto non era di moda.


di Tania Careddu

Caposaldo di molte campagne elettorali, la parità di genere è diventata una delle questioni più discusse nell’attuale dibattito politico e sociale italiano, utilizzando le quote rosa come mezzo per velocizzare i tempi di un’evoluzione che cerca concretezza dietro a slogan, obiettivi programmatici e promesse elettorali. Le due ultime legislature ne sono un lapalissiano esempio con la legge sulle quota rosa nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa sotto il governo Monti e con la più recente doppia preferenza di genere imposta per l’elezione del Parlamento europeo.

Però, rispettare delle quote numeriche per l’ambito lavorativo o imporsi delle soglie specifiche in ambito elettorale non sono misure sufficienti per un reale progresso sul tema. Dalla politica al mondo delle imprese, passando per il campo lavorativo, bisognerebbe, invece, guardare alla qualità dei numeri.

Certamente dal 1976, anno in cui è stata eletta a ministro la prima donna, sono stati fatti passi in avanti. Ma dal 1948 a oggi, è (solo) quella attuale la legislatura che ha la più folta presenza di donne in Parlamento, sono duecentottantaquattro, e il governo Renzi quello con il più nutrito numero di donne ministro, sono settantadue, al momento del suo insediamento.

E’ quando si tratta di incarichi prestigiosi, secondo quanto si legge nel minidossier redatto da Openpolis, Gender Equality fra Politica, Imprese e Lavoro, che la disparità di genere si accentua: per esempio, le donne presidenti di Commissione sono una su quattordici alla Camera e due su quattordici al Senato, ai ministeri con portafoglio le donne sono il 30 per cento e il 27 per cento quelle dopo la nomina di viceministri e sottosegretari. Su oltre novantatré mila incarichi politici, poco più del 21 per cento è ricoperto da una donna.

Raramente, a eccezione della terza carica dello Stato, una donna è a capo di un organo monocratico o guida un’amministrazione: in Regione sono il 10 per cento, stessa percentuale in Provincia e il 13 per cento in Comune, dove le donne sindaco sono mille e sessantotto. E se l’Italia nel confronto con gli altri Paesi membri dell’Unione europea è il tredicesimo per presenza di donne in Parlamento, pari al 30 per cento, ed è quinto per la percentuale di donne ministro, corrispondente al 50 per cento, quanto ai ruoli di responsabilità nelle imprese sia pubbliche sia private, il Belpaese è al di sotto della media europea, fissata al 40 per cento, e soprattutto è ben lontano dai vertici della classifica continentale, posizionandosi al sedicesimo posto relativamente alla carica di direttori generali della Pubblica amministrazione.

Se la cava, invece, per quanto concerne la presenza di donne negli organi di amministrazione: all’ottavo posto della lista e sopra la media europea, da quando il Governo Monti approvava una legge per assicurarsi la parità di genere nei Cda di aziende quotate in borsa: era il 2012 e da allora sono diventate quasi il doppio, arrivando a cinquecentoventi nel 2014. Se, poi, si osserva la percentuale di donne dirigenti delle stesse aziende, l’Italia sale sul podio, raggiungendo quota 29 per cento.

Ma non in tutti gli ambiti è sufficiente introdurre le quote rosa per risolvere la questione di genere. Sul lavoro, che è la vera questione femminile del 2015, non basta. Basti pensare che, nonostante le donne laureate siano centocinquantacinque ogni cento uomini, la percentuale di disoccupate e precarie è più elevata che per i colleghi.

Fra quelle con un figlio, poi, sono lavoratrici poco più del 57 per cento versus l’86 per cento dei padri, la cui percentuale di occupazione rimane stabile, sopra l’80 per cento, pure con tre o più bambini mentre quella femminile scende al 35,5 per cento. Unica nota positiva: il gap salariale è fra i più bassi in Europa, con una percentuale che è meno della metà della media europea. Quando le donne lavorano.

di Tania Careddu

No ius soli, no partita. Si, perché esistono vere e proprie limitazioni legali e amministrative per la partecipazione dei minori non italiani all’attività sportiva sia a livello professionistico sia a quello dilettantistico per il rapporto tra l’ordinamento giuridico generale e quello sportivo. Che può ancora ostacolare la loro partecipazione. La disciplina delle procedure per il tesseramento è demandata all’autonomia statutaria delle federazioni sportive nazionali, nelle quali non è ancora evidente la sottorappresentazione delle minoranze straniere, sulla base dei principi stabiliti dal Comitato olimpico nazionale italiano.

A esclusione delle Federazione italiana hockey e di quella pugilistica, gli statuti delle altre federazioni impediscono il tesseramento dei giovani che non sono in possesso della cittadinanza italiana al momento del passaggio dall’attività sportiva di base a quella agonistica. Per potersi tesserare, ai minori stranieri sono richiesti dei requisiti supplementari rispetto a quelli necessari per i compagni di squadra italiani.

Passi l’intento di evitare, vietando sia i trasferimenti di giocatori minorenni già tesserati sia il primo tesseramento di minori aventi una nazionalità diversa da quella del Paese nel quale chiedono di essere tesserati, il fenomeno del trafficking internazionale di calciatori di minore età, ma questa serie di norme - una sfilza di documenti identificativi del giovane e dei genitori - costituisce un imponente ostacolo alla mobilità dei piccoli stranieri e li pone in una condizione di svantaggio rispetto ai privilegiati, per i quali non esiste nessun limite al tesseramento.

I futuri calciatori stranieri devono fare i conti con il permesso di soggiorno e con la sua durata, la richiesta del quale appare di dubbia legittimità poiché crea una differenza di trattamento basata sulla condizione di regolarità o meno dei genitori, e con la dimostrazione dell’iscrizione a corsi scolastici, in contrasto con il principio di parità. Non possono essere tesserati minori stranieri non accompagnati, minori comunitari senza iscrizione anagrafica, tipo i bambini rom.

Dal quadro normativo vigente emerge la necessità di porre rimedio. E’ di alcuni giorni fa la proposta di legge parlamentare Disposizioni per favorire l’integrazione sociale dei minori stranieri residenti in Italia mediante l’ammissione nelle società sportive appartenenti alle federazioni nazionali, per intervenire “sulla disciplina del tesseramento degli atleti minori stranieri al fine di consentire a tutti questi giovani di poter passare dall’attività sportiva di base a quella agonistica”.

Per evitare che giovani talentuosi, nati o cresciuti nel nostro Paese ma figli di genitori aventi la cittadinanza di Stati non appartenenti all’Unione europea, possano essere penalizzati nel loro percorso sportivo, boicottandone anche l’integrazione sociale.

Così, finalmente, i minori di diciotto anni che non siano cittadini italiani e che risultino regolarmente residenti nel territorio italiano dal compimento del decimo anno d’età possano essere tesserati con le stesse procedure previste per il tesseramento dei ragazzi italiani. Il quale resterà valido fino al completamento delle prassi per l’acquisizione della cittadinanza italiana. Tirando le somme, quale significato avrebbe, ai sensi della repressione del traffico di minori stranieri, ostacolare il tesseramento di questi nati in Italia?


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