di Tania Careddu

Caposaldo di molte campagne elettorali, la parità di genere è diventata una delle questioni più discusse nell’attuale dibattito politico e sociale italiano, utilizzando le quote rosa come mezzo per velocizzare i tempi di un’evoluzione che cerca concretezza dietro a slogan, obiettivi programmatici e promesse elettorali. Le due ultime legislature ne sono un lapalissiano esempio con la legge sulle quota rosa nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa sotto il governo Monti e con la più recente doppia preferenza di genere imposta per l’elezione del Parlamento europeo.

Però, rispettare delle quote numeriche per l’ambito lavorativo o imporsi delle soglie specifiche in ambito elettorale non sono misure sufficienti per un reale progresso sul tema. Dalla politica al mondo delle imprese, passando per il campo lavorativo, bisognerebbe, invece, guardare alla qualità dei numeri.

Certamente dal 1976, anno in cui è stata eletta a ministro la prima donna, sono stati fatti passi in avanti. Ma dal 1948 a oggi, è (solo) quella attuale la legislatura che ha la più folta presenza di donne in Parlamento, sono duecentottantaquattro, e il governo Renzi quello con il più nutrito numero di donne ministro, sono settantadue, al momento del suo insediamento.

E’ quando si tratta di incarichi prestigiosi, secondo quanto si legge nel minidossier redatto da Openpolis, Gender Equality fra Politica, Imprese e Lavoro, che la disparità di genere si accentua: per esempio, le donne presidenti di Commissione sono una su quattordici alla Camera e due su quattordici al Senato, ai ministeri con portafoglio le donne sono il 30 per cento e il 27 per cento quelle dopo la nomina di viceministri e sottosegretari. Su oltre novantatré mila incarichi politici, poco più del 21 per cento è ricoperto da una donna.

Raramente, a eccezione della terza carica dello Stato, una donna è a capo di un organo monocratico o guida un’amministrazione: in Regione sono il 10 per cento, stessa percentuale in Provincia e il 13 per cento in Comune, dove le donne sindaco sono mille e sessantotto. E se l’Italia nel confronto con gli altri Paesi membri dell’Unione europea è il tredicesimo per presenza di donne in Parlamento, pari al 30 per cento, ed è quinto per la percentuale di donne ministro, corrispondente al 50 per cento, quanto ai ruoli di responsabilità nelle imprese sia pubbliche sia private, il Belpaese è al di sotto della media europea, fissata al 40 per cento, e soprattutto è ben lontano dai vertici della classifica continentale, posizionandosi al sedicesimo posto relativamente alla carica di direttori generali della Pubblica amministrazione.

Se la cava, invece, per quanto concerne la presenza di donne negli organi di amministrazione: all’ottavo posto della lista e sopra la media europea, da quando il Governo Monti approvava una legge per assicurarsi la parità di genere nei Cda di aziende quotate in borsa: era il 2012 e da allora sono diventate quasi il doppio, arrivando a cinquecentoventi nel 2014. Se, poi, si osserva la percentuale di donne dirigenti delle stesse aziende, l’Italia sale sul podio, raggiungendo quota 29 per cento.

Ma non in tutti gli ambiti è sufficiente introdurre le quote rosa per risolvere la questione di genere. Sul lavoro, che è la vera questione femminile del 2015, non basta. Basti pensare che, nonostante le donne laureate siano centocinquantacinque ogni cento uomini, la percentuale di disoccupate e precarie è più elevata che per i colleghi.

Fra quelle con un figlio, poi, sono lavoratrici poco più del 57 per cento versus l’86 per cento dei padri, la cui percentuale di occupazione rimane stabile, sopra l’80 per cento, pure con tre o più bambini mentre quella femminile scende al 35,5 per cento. Unica nota positiva: il gap salariale è fra i più bassi in Europa, con una percentuale che è meno della metà della media europea. Quando le donne lavorano.

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