di Tania Careddu

Un’esperienza antica e contemporanea di discriminazione. Shoah e Porrajmos. Dai ghetti ai campi di concentramento fino ai campi nomadi. Il parallelo fra il popolo ebraico e quello rom emerge con mille similitudini. E anche con un’enorme differenza: il popolo del Libro e della scrittura il primo, il popolo dell’Oblio, dell’oralità e della trasfigurazione simbolica, il secondo.

Vittima, quest’ultimo, di un’ulteriore ingiustizia: la memoria negata. La loro persecuzione non è ancora diventata un dato storico, nemmeno nei processi del dopoguerra si è voluto riconoscere loro qualcosa. A Norimberga, nessun rom è stato invitato, diversamente dagli ebrei, a denunciare i propri carnefici. Eppure, non si può continuare a dire che non è stato uno sterminio razziale: la documentazione - scritti nazisti e decreti emanati dal Reich - lo confermano a chiare lettere.

Un annullamento collettivo alimentato dalla mancanza di testimonianze messe nero su bianco e documenti versus il materiale degli ebrei che hanno lavorato sodo, dopo la seconda guerra mondiale, per testimoniare l’infausto destino ma soprattutto per comprendere le ragioni storiche e culturali della loro ghettizzazione.

A ben guardare, anche per i rom, esiste una sorta di “elaborazione del male” (meglio definibile della malattia mentale, ndr), attraverso la trasformazione in simboli e leggende. Ex post, è facile capirlo: la causa risiede nella disumanizzazione del diverso. Sulla base della razza. Inferiore e perciò destinata, secondo l’ideologia nazionalsocialista, nemmeno alla sudditanza e alla servitù al Terzo Reich ma proprio alla morte.

Più o meno come per gli ebrei. Nemici, funzionali alle dittature, scelti tra quelli estranei alla cultura dominante, quindi difficili da controllare. In nome di questa lucida costruzione, nella migliore delle ipotesi falsi si falsifica, altrimenti si cancella e si ammazza il diverso. Con una cultura “altra” e indi non integrabile. E però, gli ebrei erano (e sono) un popolo unito dalla religione, da una forte potenza economica, da un grado di istruzione elevato e da una consapevolezza che li porta a essere coesi e solidali nei confronti del mondo circostante.

I rom no. Divisi in innumerevoli comunità, molto differenti e slegate fra loro, nomadi a causa di spostamenti forzati (e non per cultura, come vorrebbero i più), sono visti come non cittadini. Ladri e delinquenti erano registrati dai fascisti negli anni Trenta e Quaranta, sebbene facessero i cestai, i saltimbanchi e confezionassero oggetti, sono stati uccisi dal pregiudizio. I superstiti indirizzati alla rieducazione coatta. Impartita con i campi nomadi.

Da Hermann Arnold a oggi, dispositivi pedagogici e luoghi transitori in attesa (infinita) di un’inclusione reale, in realtà nascondono un utile posto in cui ammassare la gente valutata in eccesso e permettono una facilità di controllo altrimenti poco attuabile. Una ghettizzazione funzionale, come per il popolo ebreo.

Ma il periodo napoleonico, per i rom, sembra ben lungi dal venire. Anzi, sembra di essere tornati all’epoca della “campagna dei cartelli” del trentotto. Quelli con su scritto “E’ vietato l’ingresso ai cani, ai mendicanti e agli ebrei” di hitleriana memoria sembrerebbero essere stati sostituiti da “E’ severamente vietato l’ingresso agli zingari anche davanti al negozio”. Così in una panetteria romana nel 2014.

In comune, “da che mondo è mondo, i rom e gli ebrei sono stati sempre usati come capri espiatori su cui riversare il malcontento dell’opinione pubblica soprattutto nei periodi di crisi economica. Del resto, l’Europa non è mai stata denazificata realmente così come l’Italia non è mai stata defascistizzata totalmente”, ha dichiarato un intellettuale rom, Alexian Santino Spinelli, nel Report Vietato l’ingresso!, redatto dall’Associazione 21 luglio.

Un’Europa che, però, ha finanziato il progetto RECALL - Recalling the Rom and Sinti Holocaust: paths inside the memory - (capofila del progetto, Opera Nomadi Nazionale e coordinatrice, Irene Salerno), per promuovere azioni di rimembranza di eventi storici poco noti.

Come, appunto, le deportazioni in massa subìte dai rom, che li accomunano al resto dei cittadini europei. Azioni che mantengano, a lungo termine, effetti di inclusione sociale di gruppi marginali, valorizzandone le diversità. E la divulgazione della partecipazione attiva che rom e sinti diedero alla Resistenza al nazifascismo. Per conoscere. E quindi per non dimenticare.

di Tania Careddu

La cifra non è nota. Né allo Stato né alla Chiesa. Tantomeno ai poveri cristiani. E soprattutto ai non cristiani. La stima aggiornata dei costi annui della Chiesa cattolica, effettuata dall’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR) nell’inchiesta "I costi della Chiesa", è pari all’incirca a 6.424.807.772 euro. Così ripartita: 1.034.667.00 euro derivanti dall’otto per mille, che destina a questa e allo Stato italiano l’otto per mille del gettito Irpef, calcolato in base alle scelte (espresse e non, il 60 per cento) compiute dai contribuenti in occasione della dichiarazione dei redditi.

Viene utilizzato dalla Chiesa per gli stipendi dei sacerdoti, per il culto e la pastorale nelle diocesi, per le Caritas diocesane, per la costruzione di nuove chiese, per gli interventi caritativi nel Terzo mondo, per il restauro dei beni culturali ecclesiastici, per la catechesi e l’educazione cristiana e per le cause matrimoniali gestite dai tribunali ecclesiastici regionali.

C’è poi la somma di 236.335 euro, provenienti dall’otto per mille di competenza dello Stato che, destinato ad altri fini - tipo calamità naturali, assistenza ai rifugiati e conservazione dei beni culturali - finisce sempre nelle casse della Chiesa. Altri 54.500.000 è quanto si ricava dal cinque per mille, impiegato per le associazioni cattoliche. Ammontano inoltre a 13.000.000 le esenzioni Irpef per erogazioni liberali deducibili dal proprio reddito complessivo a favore dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero della Chiesa cattolica.

Senza entrare nei dettagli delle esenzioni Imu, Ici, Tares e Tasi, arcinoti alle cronache, l’imposta Ires è ridotta di quasi la metà per gli enti ecclesiastici, che agiscono nel campo della sanità, dell’istruzione e del turismo, i quali possono dedurre dal reddito complessivo anche i canoni, le spese per manutenzione o restauro dei beni, quelle per attività commerciali svolte dall’ente e dai membri delle entità religiose. Sconto: 100.000.000. E altri 150.000.000 per l’Irap, applicata anche agli enti ecclesiastici sopracitati, in proporzione al fatturato.

Quarantacinque milioni di euro sono l’entità dell’impatto di una serie di benefici legati, per esempio, alle modalità di costituzione e registrazione, anche in materia di sicurezza degli immobili di proprietà ecclesiastica che sono, altresì, esentati dal dotarsi di attestato di prestazione energetica (il cui costo si aggira intorno ai trecento euro per unità immobiliare di proprietà dei comuni mortali); esenti da imposte daziali e doganali le merci provenienti dall’estero e dirette alla Città del Vaticano, per i dipendenti della quale gode dell’esonero Irpef. Ottantacinque milioni il disavanzo che procurano il Fondo di previdenza per il clero, la spesa per la “sicurezza sociale dei dipendenti vaticani e dei loro famigliari”, gli assegni sociali per suore e frati che non hanno maturato contributi (anche perché non vengono versati).

E gli stipendi? Ci pensa lo Stato italiano. Per i cappellani delle Forze armate, l’onere, nel 2014, è ammontato a 10.445.732 euro. Più i costi relativi al loro aggiornamento spirituale. O quelli necessari all’assistenza spirituale al personale della Polizia di Stato di religione cattolica, ai quali vanno aggiunte le spese per i festeggiamenti di San Michele Arcangelo, patrono della Polizia di Stato: sei milioni di euro.

Di più: la Polizia di Stato comprende un ispettorato di pubblica sicurezza con il compito di effettuare la vigilanza in piazza San Pietro, nonché di garantire la sicurezza del Papa nelle sue trasferte sul territorio italiano; vescovi e cardinali godono di una scorta e, per evitare i furti nelle chiese, è impiegato un corposo personale. Il tutto alla modica cifra di quaranta milioni.

La retribuzione degli insegnanti di religione cattolica  è più alta di quella che percepiscono i colleghi di altre materie e le scuole paritarie private, per il 62 per cento cattoliche, sono finanziate dallo Stato italiano con trecentoventicinque milioni e altri quarantasei e rotti destinati ai sei atenei cattolici italiani. Contributi consistenti sono stati erogati per la stampa di testate cattoliche le quali, per avere un’idea, nel 2010, sono stati pari a 15.349.570. Radio Maria è a parte: un milione di euro per lei.

Stimabile in due milioni di euro, il beneficio derivante dalle agevolazioni tariffarie per le affissioni a contenuto religioso; tariffe postali agevolate la cui copertura per il mondo cattolico è calcolabile intorno ai 7.500.000. Finanziamenti statali all’associazionismo e un centinaio di milioni ogni anno (cifra soggetta a cambiamenti) spesi nei modi più impensati: si va da un elicottero del costo di venticinque milioni di euro, utilizzato quasi esclusivamente da Ratzinger, alle organizzazioni di “cerimonie, iniziative e incontri, in particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, dedicati ai valori universali indicati al primo comma di cui i Santi patroni speciali d’Italia sono espressione”.

Ai contributi statali, poi, si aggiungono anche quelli erogati dalle amministrazioni locali, a ogni livello: regionale, provinciale e comunale. Dai contributi regionali agli oratori a quelli comunali per i cappellani cimiteriali, dalle esenzioni comunali dalle tariffe per la gestione dei rifiuti agli sconti per l’accesso a zone a traffico limitato. E così via. Ma la religione è una cosa personale. Non un affare di stato.

di Tania Careddu

Adolescenza: fase della vita di un essere umano in cui avviene una trasformazione psichica, che ne determina l’identità sessuale, e una rivoluzione corporea. Quando fra le due realtà non avviene la fisiologica fusione, il pensiero si ammala, negli affetti e nelle emozioni, facendo a volte emergere un disagio in forme di comportamento che rendono (solo) evidente la crisi. In due modalità: lo sconfinamento verso la trasgressione sociale, con veri atti di devianza, o il ripiegamento su se stessi, con l’eventualità di attraversare condizioni depressive.

I comportamenti trasgressivi hanno la funzione di rappresentare, malamente e in maniera autolesionistica, aspetti autoaffermativi, interpretati come una marcata autonomia decisionale e comportamentale. Assunzioni di sostanze psicoattive, comportamenti devianti, guida pericolosa, promiscuità sessuale sono le condotte messe in atto più frequentemente dagli adolescenti in crisi, senza considerarne le conseguenze.

Milleottocentoquarantacinque ragazzi, tra gli undici e i diciotto anni, studenti della scuole secondarie di primo e secondo grado, intervistati nell’indagine I divieti trasgrediti dai nostri figli, promossa dal Movimento Italiano Genitori (Moige), entrano in contatto con mondi che dovrebbero essere a loro preclusi: alcol, fumo, videogiochi+18, pornografia e giochi con vincite in denaro. Ben l’86,5 per cento di loro dichiara di aver bevuto alcolici e per il 23,6 per cento la quantità consumata in media negli ultimi tre mesi è pari a oltre quattro bicchieri ogni qualvolta si presenti l’occasione.

Una condotta favorita dall’approvazione del bere da parte degli amici, dal fatto che loro bevono abitualmente, dal tempo trascorso insieme e da una blanda disapprovazione da parte della famiglia, poco coesa e poco autorevole (da non confondersi con autoritaria, ndr). Sebbene sia diffusa la consapevolezza dei rischi per la salute connessi al fumo e la conoscenza del divieto di acquisto di tabacco per i minori, elevata è la percentuale di adolescenti che dice di aver fumato almeno una volta, la prima tra i quattordici e i quindici anni. Perché la sigaretta è eretta a simbolo di autonomia e adultità ed esercita fascinazione proprio nei mutamenti evolutivi, in particolare quando occorre “proporsi”, rappresenta “ribellione” e il “sentirsi importante” ed è considerata fortemente socializzante.

Legata, invece, a una perdita massiccia della dimensione affettiva è la visione di materiale pedopornografico, anche se, fortunatamente, il consumo sembra orientarsi verso una fruizione rara e occasionale. Mentre l’utilizzo di videogiochi vietati ai minori di diciotto anni trova ampia diffusione, soprattutto fra i maschi nei videogiochi con contenuti violenti e ingaggi fisici.

Giocano durante tutta la settimana con un impegno di circa due ore al giorno. Da una a dodici volte negli ultimi dodici mesi, ha giocato con giochi on line con vincite in denaro il 15,7 per cento dei minori, e una o più volte la settimana il 2,2 per cento, considerandola una pratica poco nociva e meno rischiosa rispetto alle altre aree critiche, per l’osservazione dell’uso frequente anche tra gli adulti di riferimento, fra i quali il gioco d’azzardo è purtroppo una condotta approvata.

I giochi più utilizzati? Le scommesse sportive, il poker o Texas Hold’em e le lotterie come il Gratta e Vinci, prediligendo giochi in cui il risultato sia immediato, corrispondente a vincite istantanee. Testimonianza del fatto che i divieti, fra gli adolescenti, servono a poco. Vince l’esempio che gli viene dato.

di Tania Careddu

Piogge con andamento e intensità intermittenti, trombe d’aria e ondate di calore: cambiamenti climatici dall’entità ancora poco conosciuta che stanno mettendo a repentaglio le aree urbane italiane. Ma cause antropiche, scelte insediative e fenomeni di abusivismo ne hanno amplificato gli impatti.

Dal 2010 a oggi, nella Mappa del rischio climatico nelle città italiane, elaborata da Legambiente, sono ottanta i Comuni dove si sono registrati impatti rilevanti, quali allagamenti, frane, esondazioni, trombe d’aria, temperature estreme, danni alla infrastrutture e al patrimonio storico.

Centododici i fenomeni meteorologici: trenta casi di allagamento da piogge intense, trentadue casi di danni alle infrastrutture per temporali, otto casi di danni al patrimonio storico (fra questi, mura aureliane nella Capitale, archivio di Stato, biblioteca nazionale e Palazzo Reale a Genova), ventidue casi di eventi causati da trombe d’aria e venti da esondazioni fluviali.

Risultato: ventinove giorni di stop a metropolitane e treni urbani, di cui dieci a Roma, nove a Milano, otto a Genova, sei a Napoli e cinque a Torino; trentotto giorni di blackout elettrico da Nord a Sud con una frequenza costante e un apice il 4 febbraio 2012 in cui quattro Regioni si sono trovate al buio, con centoventimila e rotti utenze senza energia elettrica: novantacinquemila nel Lazio, circa settemila in Abruzzo, quasi seimila in Molise, più di dodicimila in Campania.

Individuare il rapporto tra accelerazione dei processi climatici e problematiche legate a fattori insediativi o infrastrutturali del territorio italiano è la nuova, urgente sfida per rispondere con nuovi modelli di intervento. Che non si riducano a intubare o deviare fiumi, alzare argini o asfaltare altre aree urbane. Perché, se è vero che la spiegazione può essere di natura idrogeologica, è altrettanto plausibile ricercare la causa degli effetti dei cambiamenti climatici nel modo in cui si è costruito e in cui sono stati gestiti il territorio e la rete di smaltimento delle piogge.

Un esempio per tutti: la portata delle piogge che è caduta sulle province sarde di Olbia, Nuoro e Ogliastra è stata pari al quantitativo che dovrebbe cadere in sei mesi, ma la ragione dei danni (sedici morti, duemila sfollati, diecimila utenze senza elettricità) è da attribuire alla maniera nella quale si è edificato negli ultimi decenni. Idem per la provincia di Messina in occasione dell’alluvione dell’ottobre 2009, in Basilicata nel dicembre 2013, a Parma nell’ottobre 2014 e a Roma, dove le zone intorno ai fiume Tevere e Aniene, in cui si è gettato cemento abusivamente, sono a forte rischio allagamento.

Così Milano, Pescara, Genova e la Toscana. A significare che alcune zone sono più esposte al rischio di altre, innanzitutto per ragioni idrogeologiche: l’81,2 per cento dei Comuni è, infatti, a rischio di dissesto idrogeologico con quasi sei milioni di persone che abitano in quelle aree. E che rischiano di andare sott’acqua ogni autunno. E le spese per la corsa ai ripari si vanno a sommare, ogni volta, a quei sessantuno miliardi e mezzo di euro spesi dal 1944 al 2012 per danni provocati, appunto, da eventi estremi.

Urge arrivare all’approvazione del piano nazionale di adattamento che permetterebbe di passare dagli obiettivi generali agli interventi specifici, presenti nella programmazione 2014-2020 dei fondi europei. Perché una pioggia di soldi non vada sprecata. E centotrentotto vittime siano le ultime.

di Tania Careddu

Sono oltre venticinquemila i minori autori di reato segnalati dall’Autorità giudiziaria ai Servizi minorili per gli interventi socioeducativi e l’attivazione dei provvedimenti disposti nei loro confronti. Secondo quanto si legge nel Report dell’Istat - "I giovani nelle strutture minorili della giustizia" - redatto in collaborazione con il dipartimento per la Giustizia minorile del ministero della Giustizia, sono prevalentemente italiani e di sesso maschile, con un’età compresa fra i sedici e i diciassette anni, e risiedono principalmente in Sicilia e Puglia.

Mentre i minori stranieri, che sono quasi quattromila, abitano in Lombardia ed Emilia Romagna e provengono da altri Paesi europei, dalla Romania, dall’Albania, dall’Africa, vedi Marocco e Tunisia, dall’America e dall’Asia.

La maggior parte dei minori ha un solo procedimento penale a proprio carico, accusata soprattutto di reati contro il patrimonio - furto e rapina, ricettazione, danneggiamento - violazioni delle disposizioni sulle sostanze stupefacenti, lesioni personali volontarie e di violenze private e minacce. Non trascurabile la percentuale di coloro che commettono violazioni del codice della strada e delle disposizioni sulle armi. Reati puniti, per quanto possibile, con misure alternative alla reclusione.

Sono in calo, infatti, gli ingressi negli istituti penali, le strutture più simili alle carceri per i detenuti adulti, con la differenza dell’insussistenza del problema del sovraffollamento - gli istituti affollati sono solo quelli di Treviso e Pontremoli -, in cui non è solo presente il personale educativo ma anche il corpo di polizia penitenziaria.

Nel 2013, i minori accolti sono stati quattrocentouno - centosettantasei stranieri – con una quota di giovani adulti superiore a quella dei minori di diciasette anni. Milleduecentocinquantatre quelli usciti per trasformazione della pena o in collocamento in comunità o per emissione in libertà oppure per l’affidamento in prova al servizio sociale. Che, sospeso il processo, svolge nei riguardi del minore attività di osservazione, sostegno, controllo ed elabora il progetto di messa alla prova.

Esito positivo sempre più frequente: estinzione del reato. Un provvedimento che, nel 2013, ha visto un andamento crescente anche rispetto agli ingressi in comunità, strutture, perlopiù private, a causa del numero limitato di comunità ministeriali sul territorio italiano, nonostante sia la misura cautelare più applicata per la sua capacità di contemperare le esigenze educative con quelle contenitive e di controllo: si sono registrati milleottocentonovantaquattro ingressi a fronte di milletrecentocinquantaquattro uscite.

Il 63,7 per cento dei minori ospitati è in attesa di giudizio e la permanenza, per la maggior parte di loro, non è superiore a un anno, tranne per il 3,8 per cento delle ragazze che sono presenti da più di due anni. Un fenomeno che caratterizza le comunità, essendo a carattere non restrittivo, è l’allontanamento non autorizzato, pratica che coinvolge quattro minori su dieci.

Sono invece poco più di duemila (una media di diciotto al giorno e in diminuzione rispetto al 2012) i minori transitati, nel corso del 2013, nei centri di prima accoglienza, tipologia di servizio minorile in cui la permanenza non può superare le novantasei ore, a seguito di flagranza di reato. Tutti numeri che stanno a indicare la complessità che avvolge i percorsi di devianza minorile, caratterizzati, quasi sempre, da condizioni sociali profondamente disagiate. Cose da grandi.


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