di Tania Careddu

Generano ricchezza e sviluppo. I due milioni e quattrocentomila lavoratori stranieri producono centoventitre miliardi di euro, rappresentando l’8,8 per cento della ricchezza complessiva prodotta in Italia. Che ne dicano i nostri connazionali, sostenuti dalla stampa ma smentiti dal dossier "Il valore dell’immigrazione", elaborato dalla Fondazione Leone Moressa, non è vero che gli immigrati non contribuiscano al sistema previdenziale italiano e rubino i lavori agli abitanti dello Stivale.

E non è nemmeno giusto quanto gli rimproverano, cioè l’uscita dei loro capitali dalla Penisola; la popolazione straniera produce, indubbiamente, meno reddito e ha quindi meno risorse da poter investire in strumenti finanziari (che risultano, spesso, inappropriati alle loro esigenze).

E’ vero che ogni contribuente immigrato ha percepito poco meno di tredicimila euro all’anno, quasi settemila e cinquecento euro in meno di un contribuente italiano, ma bisogna rintracciare la causa prima di cadere nei soliti pregiudizi: i diversi percorsi lavorativi e i differenti profili professionali tra italiani e immigrati. Sintomo della forte sperequazione esistente all’interno della società italiana, è anche indizio dei limiti e delle distorsioni del modello di integrazione degli immigrati.

E, nonostante fra il 2008 e il 2012 il numero dei contribuenti stranieri sia aumentato dell’1,9 per cento, con un incremento dei redditi dichiarati pari a quattro miliardi abbondanti di euro, la crisi colpisce anche loro. Di più: accentuandosi ulteriormente le disuguaglianze esistenti, rallentano significativamente i processi di inclusione economica e di mobilità sociale degli immigrati. Cosicché il potere d’acquisto reale in loro possesso è diminuito per un importo pari a settecentoquarantacinque euro, con un aggravio di quasi settecento euro nel confronto con gli italiani. E però loro reagiscono senza colpo ferire: l’imprenditoria straniera, infatti, rappresenta l’8,2 per cento del totale delle imprese in Italia.

Nel complesso, sebbene siano messe a dura prova da un basso potenziale di crescita a causa del settore in cui sono inserite, le imprese straniere producono il 6,1 per cento del totale del valore aggiunto prodotto dalle aziende nel Belpaese, per un importo pari a più di ottantacinque milioni di euro. Più di trentaquattro sono prodotti dalle imprese del settore dei servizi, quasi diciassette dalle attività commerciali e sedici da quelle del settore manifatturiero. Pazienza se vengono loro mosse delle critiche per l’uscita di denaro dalle casse nostrane; sta di fatto che, nel 2013, le rimesse che sono riusciti a inviare al Paese d’origine sono state pari a cinque miliardi e mezzo di euro.

E chi lo dice che rubano il lavoro? Sebbene a lavorare siano oltre due milioni, l’occupazione straniera si concentra in pochi settori e professioni scarsamente qualificati che raramente gli italiani prendono in considerazione. Che non occupino le stesse posizioni, lo si riscontra anche negli stipendi: gli immigrati dovrebbero lavorare ottanta giorni in più per averli uguali. Elementi, tutti sommati, che li portano a una situazione di maggiore precarietà rispetto a quella dei colleghi italiani.

Una discriminazione che conduce, inevitabilmente, all’immobilità sociale. Con ripercussioni probabili sulle nuove generazioni. E nonostante ciò, il valore economico da loro apportato è evidente anche in barba a quanti (tanti, troppi) pensano che l’immigrazione sia solo un costo. Ammesso che elaborare una stima puntuale del rapporto costi benefici della presenza della popolazione straniera risulti alquanto ostico, si può certamente affermare, per alcune caratteristiche della struttura della spesa pubblica italiana, che l’incidenza delle uscite a favore degli immigrati sia assai modesta.

Semplicisticamente, tenuto conto che la spesa pubblica italiana più alta è quella destinata alle pensioni, che è in linea con gli altri Paesi europei per la sanità ed è inferiore per l’istruzione, si può dedurre che sia principalmente orientata verso la popolazione anziana. E considerando che l’età media degli stranieri è, di sicuro, più bassa di quella degli italiani, va da se che gli stranieri usufruiscono proprio poco dei “nostri” soldi. Insomma, la spesa pubblica complessivamente rivolta agli stranieri può essere calcolata in dodici miliardi e mezzo di euro, l’1,57 per cento della spesa pubblica nazionale. E in milioni di pregiudizi.

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