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di Tania Careddu
“Il fatto di essere zingaro è sufficiente perché l’individuo e il gruppo siano condannati”, scriveva nel 1987 Jean Pierre Liegeois, sociologo francese che da trent’anni ha orientato la sua ricerca sulla popolazione rom. Cosicché la canalizzazione della paura verso una determinata etnia si trasforma in odio razziale. Tanto che ogni due giorni nel nostro Paese, secondo quanto rilevato dall’Associazione 21 luglio, in una ricerca che ha monitorato centoventinove fonti di informazione cartacee e on line, raccogliendo i dati nel rapporto Antiziganismo 2.0, si registra un episodio di “discorso d’odio” grave che penalizza e stigmatizza indistintamente gli appartenenti alle comunità rom e sinte.
Quattrocentoventotto segnalazioni in un anno, il 92 per cento raccolte sui mezzi di informazione. La quale è pesantemente sbilanciata. Purché faccia scalpore. E la notizia sia “sensazionalistica e voyeristica, di solito riservata ai fatti di sangue che si ritiene possano appassionare il pubblico”, si legge nel Terzo libro bianco sul razzismo in Italia, a cura di Lunaria. Sono le pagine di cronaca, che sul mercato vende di più, infatti, a ospitare le notizie sugli stranieri o sui rom. Sovrarappresentati.
Tanto che il discorso mediatico sull’immigrazione si muove all’interno dell’ossessione per la criminalità procurata dagli immigrati. In una duplice ambivalenza: da un lato i media continuano a proporre il binomio straniero/criminale, indicando la strada attraverso la quale lo straniero assume la funzione di capo espiatorio dei problemi della società, e dall’altro solleticano i pregiudizi diffusi nell’opinione pubblica ma li orientano, anche, omettendo un’analisi puntuale degli avvenimenti.
Facendo largo a categorie stereotipiche, ipotesi suggestive non comprovate dai fatti. In barba al “rispetto della verità e con la maggiore accuratezza possibile”, come richiederebbe la Carta dei doveri del giornalista. E bypassando il rispetto del “diritto alla presunzione di innocenza”.
Ma c’è poco da fare: il carnefice è sempre straniero e quand’anche fosse la vittima, il particolare della nazionalità, che campeggia sui titoli nel caso opposto, non è ritenuto così rilevante da essere citato. E quando non sono criminali, la loro presenza, per i media, è associata a situazioni problematiche, in linea, d’altronde, con l’agenda politica.
E’ la retorica dell’emergenza: allarme, invasione, ondata, sono alcune delle parole che descrivono gli sbarchi degli stranieri in Italia. E invasione uguale pericolo: in primis, sanitario, paventato da molti esponenti politici pur senza poter fare riferimento a dati reali, con conseguenti postume smentite di Asl, istituzioni sanitarie e, finanche, del ministero della Salute.
Ma, nel frattempo, è allarme. Anche economico, vedi dopo l’avvio dell’operazione Mare Nostrum, spesso demonizzata dai politici di turno che “drammatizzano” il dibattito, allontanandosi da un’attenta analisi del fenomeno migratorio e delle sue reali dimensioni, manipolando, con l’interpretazione, i numeri e le cifre. Utilizzando un linguaggio stigmatizzante, con dei termini, tipo “clandestino”, che di sparire non hanno nessuna intenzione nonostante il disappunto espresso dalle Linee guida della Carta di Roma, e l’effetto che sortiscono: tendono a deumanizzare e a privare i migranti della loro identità.
Per non parlare degli insulti che sul web trovano terreno fertile tanto da superare quelli registrati nella vita pubblica: si parla di trecentocinquantaquattro casi di discriminazione in un anno, la maggior parte dei quali avvenuti nei social network. La mappa è variegata con gruppi di privati cittadini e pagine che si collegano a movimenti e siti web della destra radicale, dai nostalgici neonazisti fino a gruppi tematici contro l’immigrazione. Una saldatura perversa tra siti web, testate giornalistiche registrate e social network che ritoccano le notizie sui casi di cronaca quotidiana che coinvolgono gli stranieri. E si sa, l’odio in rete ha la violenza di un illimitato contagio. Realmente.
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di Tania Careddu
Partire. Arrivare. A volte, tornare. E’ questo il movimento degli italiani nel mondo. Un fenomeno sociale in continua trasformazione. Non addomesticabile, fatto di storie passate e di nuovi bagagli. Rotte migratorie storiche ma maggiore preparazione scolastica, qualificazione e professionalità, numeri sempre più incisivi, partenze non più solitarie ma di interi nuclei famigliari.
Sono 4.482.115 i cittadini italiani residenti all’estero e iscritti all’AIRE, con un aumento di tre punti percentuali rispetto al 2013, e nell’ultimo anno a partire sono stati più di novantaquattromila.
Soprattutto giovani fra i diciotto e i trentaquattro anni (a dimostrazione del fatto che la scelta di espatriare è quasi sempre legata alla disoccupazione o a una realizzazione nel percorso di studi, vedi l’Erasmus), partiti dalla Lombardia, dal Veneto, dal Lazio, dalla Sicilia e dal Piemonte e diretti verso il Regno Unito, la Germania, la Svizzera e la Francia.
In generale, la metà dei nostri connazionali trasferitisi all’estero è di origine meridionale ma un terzo è partito dalle regione del Nord, principalmente dai grandi comuni. E in molte province italiane, in cima Macerata e Trieste con Fermo e Pordenone al seguito, si registrano più emigrate donne che uomini, le quali scelgono come destinazione l’Argentina. Il primo paese in assoluto a ospitare gli italiani emigrati. Anche se campani, pugliesi, sardi, siciliani e trentini preferiscono la Germania, laziali e veneti il Brasile, lombardi e valdostani la Svizzera e gli umbri la Francia.
Decrescono lievemente i minori iscritti all’Anagrafe Italiani Residenti all’Estero ma aumentano quelli registrati per nascita, figli delle precedenti generazioni emigrate. Mentre lievitano gli over sessantacinque: risiedono soprattutto nel Sud America e spesso vivono in una condizione economica di indigenza. Percepiscono, infatti, pensioni ridotte e inferiori a quelle che spetterebbero loro se vivessero in Italia. Non solo: risentono di una “povertà” culturale causata da un isolamento che li segrega, nella migliore delle ipotesi all’interno delle loro comunità, se non all’interno dei loro ristretti nuclei familiari.
Una condizione che, sovente, viene confermata anche dai governi dei paesi ospitanti, vedi il caso dell’Australia: i bisogni degli anziani emigrati trovano risposte più adeguate dentro la rete familiare e, in particolare, nella relazione genitori anziani-figli adulti, i quali, a loro volta, considerano l’assistenza offerta dalle istituzioni solo un’alternativa secondaria.
Non a torto, però, vista la carenza di idonei servizi di interpretariato, l’insufficiente informazione sull’accesso ai servizi, la mancanza di sensibilità culturale da parte degli erogatori dei servizi e di personale bilingue e culturalmente preparato.
E l’integrazione, dunque? Passa (anche) per la cucina, luogo di scambio e di negoziazione di identità: i migranti portano con sé le proprie abitudini alimentari e ne influenzano quelle dei paesi d’arrivo. E viceversa. E la cucina del Belpaese più di tutte.
Si, perché non è solo esportata da un gruppo risicato di professionisti dell’arte culinaria ma creata nei luoghi, inconsci e privati, raggiunti dagli immigrati. In una koinè che non snatura ma mescola e accomuna: i “macaroni” - italiani emigrati nel resto d’Europa nell’Ottocento, così chiamati a sancire la completa identificazione tra mangianti e mangiato - cucinano spaghetti with meatballs - il piatto più rappresentativo di questo processo. E che profuma di riuscita.
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di Tania Careddu
Sempre più tardi e sempre meno. E’ questa la tendenza alla genitorialità fra le coppie di oggi. I dati, emersi da un’indagine condotta dal Censis “Diventare genitori oggi”, parlano chiaro: l’età media delle donne a diventare madri è passata da circa ventinove anni nel 1995 a trentuno e rotti nel 2011. E, secondo il 46 per cento degli intervistati, ci si dovrebbe occupare della faccenda dopo i trentacinque.
Non solo. Una volta raggiunta l’età “giusta”, si fanno, anche, pochi figli: meno 3,7 per cento rispetto al 2012. Insomma, l’Italia è affetta da infertilità.
Le motivazioni sono, sempre più spesso, di matrice economica, vedi l’attuale crisi, e legate pure all’assenza di politiche sociali adeguate. Cioè, se ci fossero interventi pubblici, tipo sussidi, disponibilità di asili nido, sgravi fiscali, borse di studio, orari di lavoro più flessibili, possibilità di permessi per le esigenze dei figli, ci sarebbe, soprattutto fra gli intervistati dai trentacinque ai quarantanove anni, una maggiore propensione alla genitorialità.
C’è da giurarci? Non si potrebbe, piuttosto, pensare che l’esperienza della genitorialità, cosi come la interpreta la maggior parte del campione, parta da presupposti poco fecondi? Ossia: diventare genitori, per la stragrande maggioranza di questo, è definito principalmente come un aspetto cruciale della realizzazione individuale, cosicché il significato assunto dal figlio rispetto a sé stessi e al proprio vissuto personale risulta prevalente. Assente, o quasi (ahinoi), la versione che vede la nascita del proprio figlio come il supremo completamento (arricchimento, ndr) della dimensione di coppia.
E le cause, invece, dell’infertilità, dichiarata tale dall’Organizzazione mondiale della sanità, dopo dodici o ventiquattro mesi di rapporti mirati in assenza di concepimento? Lo stress, anomalie strutturali e problemi ormonali. Una dimensione, quella della fertilità, che attualmente appare profondamente modificata grazie agli effetti dei grandi progressi medici registrati ma che tuttora coinvolge problematiche di tipo etico.
L’influenza della Chiesa cattolica, e non soltanto per gli appartenenti alla fede, ne è un esempio: continua, infatti, a essere una zavorra sulla posizione degli italiani in merito e non solo (incide pesantemente, anche, su una quota significativa che rifiuta la procreazione fuori dal setting tradizionale).
Ci si aggiungano, poi, le credenze popolari farcite di un bagaglio di conoscenze risicate, gli aspetti strettamente culturali che impattano sull’identità di genere e la scarsa (per non usare il superlativo) informazione. Si consideri che il 45,1 per cento degli italiani ne sa proprio poco e il 60 per cento di loro, laureati compresi, assolutamente niente. Per non parlare della procreazione medicalmente assistita (PMA). Roba da esperti. E da laici.
Di gameti esterni alla coppia non se ne parla per il 30 per cento del campione cattolico praticante. L’eterologa, infatti, è ben vista solo dal 40 per cento degli intervistati. E pensare che alla legge 40 del 2004 - la quale regolamenta la PMA - sono state, di recente, apportate delle modifiche, proprio circa il divieto posto dalla legge sulla fecondazione eterologa, dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale.
Poco conosciuta ai più, e, fra coloro che, invece, sanno di che si tratta, il giudizio non è positivo: applicazione diversificata sul territorio nazionale e limitazioni poste alla coppia. Loro, quelli che l’hanno letta, vorrebbero che si eliminassero le restrizioni sull’eterologa e che si intervenisse sul divieto alla diagnosi preimpianto. Che già, per le coppie alle prese con la procreazione medicalmente assistita, la strada non è in discesa: per l’80,5 per cento del campione la crisi economica è un deterrente specifico, e poi le difficoltà informative, il non sapere a chi rivolgersi, l’incertezza emotiva, la solitudine, l’isolamento e la chiusura in sé stessi.
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di Rosa Ana De Santis
Sabato 18 ottobre il sindaco Marino procederà alla trascrizione di alcuni matrimoni tra omosessuali che sono stati celebrati all’estero. Il Prefetto, Giuseppe Pecoraro, ha invitato il primo cittadino a non andare avanti, data la circolare del Ministro Alfano che ammoniva i sindaci con il disconoscimento di unioni di fatto considerate fuori legge secondo la normativa italiana.
Accadrà che i matrimoni trascritti subito dopo saranno annullati d’ufficio, in quanto illegittimi, annuncia già il Prefetto. Ma accadrà che se altri sindaci andranno avanti, impugnando in nome dei propri poteri istituzionali diritti civili e questa questione in primis, evidentemente sempre più urgente, il livello dell’attenzione politica dovrà aumentare e portare la questione ad un piano più alto e centrale, salvo disconoscere in toto l’azione di tanti Comuni italiani.
Una disomogeneità che diventerebbe insidiosa e fuori controllo e che non può essere liquidata a colpi di circolari impositive da parte del Viminale. Del resto è un tipo di esperimento, quello in corso, cui non siamo disabituati in materia di diritti civili in Italia. Quando la politica rimanda troppo alcuni temi che sono spinti dalla società civile, è la stessa che li rivendica a colpi di tribunale, di ricorsi o di richieste come quelle avanzate ai sindaci coinvolti.
I registri di questi matrimoni esistono già a Bologna, a Grosseto, a Napoli e numerosi sindaci si sono allineati a questa cordata dei diritti civili. Del resto analoga questione si pone anche per i registri delle unioni civili tra le coppie di fatto eterosessuali. Esistono in alcuni Municipi della stessa Capitale senza una chiara investitura legislativa dall’alto che ne disciplini diritti e doveri.
Insomma i cittadini si appropriano di uno spazio che per pavidità e incompetenza, o precisa strategia, la Politica maiuscola rifiuta di disciplinare creando da un lato una vitale e bella tensione di dibattito, una progressiva preziosa coscientizzazione e dall’altra una pericolosa confusione e un depauperamento della capacità di governo delle nostre Istituzioni che si lasciano di fatto sottrarre competenze e autorità.
Ancora una volta, come ha ricordato anche il leader di SEL, Niki Vendola - parte in causa come cattolico e come omosessuale - nella trasmissione “Otto e Mezzo” mercoledì 15 ottobre, arriva dalla Chiesa cattolica un affronto e una sfida ai cattolici seduti in Parlamento, dimessi, ortodossi e eteroguidati dalla Curia di Roma.
Il nuovo Sinodo, il nuovo manifesto di Papa Francesco, pur ostacolato da tanti alti prelati più o meno invischiati nei movimenti talebani (ortodossi sui diritti ma spregiudicati negli affari) come CL, Opus Dei, Neocatecumenali, Legionari di Cristo, Focolarini e simili, prevede di spalancare le porte alle differenze, quindi anche agli omosessuali.
Il sostegno mediatico è pressocchè appannaggio del quotidiano Il Foglio di Giuliano Ferrara, cui segue l'intendenza ottusa, tipo Gasparri e qualche altro reduce dei due ventenni finiti male.
Chissà se sapere che a Roma siede un vicario di Cristo cosi fedele al messaggio cristiano, rilasserà gli animi e aprirà le menti. O se invece non ci ritroveremo nello scenario grottesco di dover rincorrere il Vaticano sui diritti civili e sulla più antica lezione secolare di cosa sia democrazia, uguaglianza e libertà.
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di Tania Careddu
Trenta suicidi negli ultimi tre anni. Otto da gennaio. Effetto carcere. In questo caso non per i detenuti, quanto per gli agenti di polizia penitenziaria. E’ la sindrome di burnout, un eccessivo carico emotivo attribuito al lavoro, con assenza di fattori motivanti. Rigidità dei ruoli, che determinano l’alienazione, affidati a singoli connessa alla sollecitudine di richieste plurime da parte dell’ambiente in un’organizzazione molto strutturata. Vedi la prigione.
Dove la condivisione di spazi ristretti, i processi di alienazione individuale derivati dalla routine mansionale, l’assenza di riconoscimenti da parte dei superiori e delle autorità, la superficialità delle direttive dirigenziali, la rigidità della struttura di comando, uniti a un sovraffollamento dato da una crescita esponenziale della popolazione carceraria e, di contro, una carenza di personale, con un sotto organico a livello nazionale di circa diecimila unità (dato del 2012), il “male di vivere sembra non avere fine”.
E’ la denuncia del Sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria che, per bocca del suo segretario, Donato Capece, porta a conoscenza “lo stato di abbandono in cui è lasciato il corpo di polizia penitenziaria” e aggiunge: “Siamo sotto organico di circa ottomila agenti e se uno sbaglia non gliela perdonano. Eppure riusciamo ancora a salvare la vita a tanti detenuti disperati”.
Per la direttrice dell’associazione Ristretti Orizzonti, Ornella Favaro, le cause sono da attribuirsi al degrado delle carceri e alla mancata nomina del nuovo capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria: “Senza capo del DAP non c’è nessuno che si senta responsabile”.
Per migliorare la qualità del lavoro è fondamentale “introdurre attività che non siano di pura custodia”. Cosa che è nei progetti di Palazzo Chigi, per mano del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri. Ossia l’attribuzione, in seguito alla riforma della polizia penitenziaria per trasformarla in un modello di ‘polizia della giustizia’, di compiti di primo piano, a differenza della situazione attuale che la vede confinata alla funzione di custodia dei detenuti.
Introducendo nuove competenze: “Eseguire gli ordini di arresto per gli imputati con condanne definitive, ricercare latitanti, controllare gli arrestati domiciliari, i soggetti sottoposti alle misure alternative, proteggere i collaboratori di giustizia, i tribunali e i magistrati”.
Ma l’agente di polizia penitenziaria, secondo quanto stabilito dalla legge numero 395 del 1990, non aveva già, oltre a quella di custode del carcerato e di mantenimento dell’ordine nella struttura, anche una mansione di partecipazione all’osservazione e al trattamento rieducativo della popolazione carceraria? Non erano sufficienti queste, elogiate tra l’altro abbondantemente, dal Capo dello Stato nell’Annuale del Corpo di quest’anno.
Dette mansioni consistono nella presa in carico emotiva del prigioniero, in rapporti che vanno ben oltre la sfera della propria consapevolezza, spesso soffrendo di carenze nella preparazione all’impatto emotivo e con l’incapacità di prendere le distanze da una forma mentis di matrice militare che interpreta la realtà su basi dicotomiche, tipo bene o male, positivo o negativo? La stessa dicotomia che è racchiusa nel motto del Corpo: “Vigilando redimere”.