di Rosa Ana De Santis

L’epilogo giudiziario della Corte d’Appello di Roma per la morte di Stefano Cucchi, avvenuta nel 2009 all’ospedale Sandro Pertini, sei giorni dopo l’arresto per detenzione di stupefacenti, lascia di sasso familiari, media e opinione pubblica. Ribaltata la sentenza di primo grado in virtù del secondo comma dell’articolo 530, che peraltro condannava soltanto i medici per omicidio colposo e lasciava immuni gli agenti di polizia penitenziaria.

“Per insufficienza di prove” - cosi recita la sentenza - vengono assolti tutti gli imputati, ma viene però lasciato irrisolto un omicidio, giacché Stefano non può essersi picchiato da solo e muore quando era sotto controllo medico, senza un colpevole che paghi.

La famiglia Cucchi, sin dagli inizi del procedimento legale, ben immaginando le difficoltà di individuare colpevoli e responsabilità, aveva mostrato le foto di Stefano sul tavolo dell’autopsia, contravvenendo a ogni naturale forma di protezione del proprio dolore. Il volto viola per le percosse, gli occhi gonfi, la schiena rotta, pelle e ossa di una morte per inedia. Così è accaduto ancora alla fine della lettura di quest’ultima sentenza. Gigantografie di uno scheletro pestato che rimangono con una spiegazione, ma senza colpevoli. Una conclusione grottesca.

L’impianto accusatorio per omicidio colposo e non preterintenzionale lasciava presagire questo epilogo. Cosi commenta l’avvocato Fabio Anselmo della famiglia Cucchi, che forse è il meno sorpreso di tutti. Tanto più vero in un paese di impunità garantita per chi indossa l’uniforme della legge. Lunga la lista di altri casi scandalosi, da Aldovrandi a Uva.

Per il pm Stefano fu picchiato nelle camere di sicurezza del tribunale, dove aspettava la convalida del suo arresto. Cosi lo vede anche suo padre quando entra in aula. In ospedale un concorso spietato di responsabilità lo condanna definitivamente a morte. Le sue richieste di vedere i familiari e di avere farmaci non vengono prese in alcuna considerazione e la protesta del giovane geometra per i suoi diritti negati si trasforma in una morte per inedia, sotto un lenzuolo in un ospedale pubblico italiano.

Per la III Corte d’Assise in ogni caso Cucchi morì per l’incompetenza e le gravi omissioni dei medici. Le percosse che pure furono immediatamente riscontrate già in una prima visita al Fatebenefratelli, cui fu sottoposto prima del processo, non erano tali - secondo la Corte - da indurlo a morire e la schiena spezzata, visibile anche in una delle foto dell’orrore, poteva risalire al passato e non a quei giorni. Oggi i legali dei tre agenti coinvolti parlano di percosse o avvenute prima dell’arrivo di Stefano in tribunale (quando era in mano dei carabinieri e quando già arrivò con tumefazioni e lividi e si disse al padre che era caduto nella stazione in cui si trovava) o successivamente. O forse prima e anche dopo, viene da pensare. O forse mai, come vuole lasciar credere quest’assoluzione plenaria della Corte D’Appello.

Si prepara il ricorso in Cassazione e un’azione legale contro il Ministero della Giustizia. Anche di un ricorso alla Corte Europea se sarà necessario. E’ la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, ad annunciarlo. La sentenza ultima è lo smacco finale di perizie contraddittorie da parte della Corte di Primo Grado. Ad oggi sappiamo che il pestaggio c’è stato, un pestaggio mirato e pesante, come mostrano le foto, che porta Stefano a dover esser definitivamente ricoverato al Sandro Pertini.

Sappiamo anche che sta male e chiede aiuto, ha bisogno di incontrare familiari e di ricevere farmaci. Sappiamo che si spegne senza che nessuno faccia qualcosa per farlo mangiare e bere. La protesta di un uomo con le ossa rotte e lasciato solo, colpevole di detenere 29 grammi di hashish.

Ad oggi non si capisce, aldilà di questo lungo processo colabrodo, il perché picchiare, perché questo furore, questa violenza contro un ragazzo magro e inoffensivo. Perché ridurlo così? Ad oggi la giustizia non sa dire il nome di chi lo ha picchiato né di quanti. Hanno riconosciuto le colpe dei medici in primo grado, ma con quest’ultimo atto li mandano a casa con una bonaria riprovazione morale. Forse nemmeno. E ricordiamo, perché vale la pena rammentarlo in questa farsa delle contraddizioni, che questo è il paese in cui la legge vuole far vivere a tutti i costi coloro che non vogliono più vivere.

Ad oggi sappiamo anche, ahinoi, che l’unica vera ragione di questo scandalo giudiziario e morale è perfettamente quella che espresse il senatore Giovanardi quando, in un suo delirio tra i tanti altri, parlò di Cucchi come di una vittima dell’anoressia e della droga. Stefano era un geometra, un ragazzo semplice, non un figlio di papà, un ragazzo che consumava hashish probabilmente e che aveva avuto un passato di dipendenza.

Uno che si può pensare di picchiare a sangue indisturbati, chissà perché, magari per noia o per general generico odio sociale (Genova docet), uno cui può essere negato il diritto di visita di un familiare anche quando lo chiede dando in pegno e come scambio la sua stessa sopravvivenza, perché non ha più altro per chiedere di essere ascoltato.

Uno che non è nessuno, quindi, e che è stato persino un tossicodipendente. Figurarsi. Uno il cui diritto non può valere sulle uniformi che lo Stato stipendia con i nostri soldi per assicurare alla giustizia i colpevoli. E cosi, nella confusione tra poliziotti e medici, tra cadute accidentali alla stazione dei carabinieri e lividi in faccia la mattina dell’udienza, tutti si salvano tranne lui.

Una giustizia che riconosce il misfatto ma non sa trovarne i responsabili è quasi una barzelletta. Soprattutto quando tutto questo avviene tra un tribunale e un ospedale, nelle mani dello Stato. Nel sogno di un paese normale chi commette un abuso nel nome dello Stato dovrebbe pagare doppiamente, ma così mai è stato.

Nel sogno di un paese normale non avremmo dovuto vedere i poster dell’orrore di un cadavere che sembra tornato da Auschwitz e che invece moriva cosi nella Capitale e in mano al braccio della giustizia. Una pena di morte studiata a tavolino. Questo è stato Stefano Cucchi. Chissà se su di lui avremo una parola dell’ultimo leader coraggioso rimasto, che si chiama Papa Francesco.

Non sapremo come andrà a finire la storia di Stefano. Ma sappiamo che l’ipoteca altissima che mette sull’irreprensibilità delle nostre forze dell’ordine e dell’amministrazione della giustizia è un prezzo che pagheremo tutti in termini di paura e di scoramento. E molti altri, dopo di lui, con la vita.

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