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di Tania Careddu
Ventinovemilaquattrocento. Tanti sono i minori allontanati dalla famiglia di origine in seguito a un provvedimento del Tribunale per i minorenni. Di questi, stando ai dati emersi durante un convegno alla Camera dei deputati, per il lancio de ‘Il Manifesto #5buone ragioni per accogliere i bambini e i ragazzi che vanno protetti’, 14.991 si trovano in una comunità educativa e 14.397 in affido famigliare.
Di questi, 6.986 sono affidati a famiglie della stessa rete parentale e 7.411 vivono fuori del nucleo. Il 59,3 per cento sono maschi e il 37,3 per cento femmine e hanno, principalmente, fra gli undici e i diciassette anni, con il 6,8 per cento ha da zero a due anni.
Il 32 per cento di essi è straniero e il 51 per cento “non è accompagnato”, ossia è arrivato in Italia senza adulti di riferimento e si trova senza una famiglia sul territorio italiano, mentre i minori italiani sono 10.148. Finiscono in comunità per “inadeguatezza genitoriale” - che non si riferisce ai normali limiti umani nell’esercitare un ruolo così difficile come quello del genitore ma a un’incapacità grave di rispondere ai bisogni evolutivi e alle esigenze dei figli -, per maltrattamenti, incuria, abusi sessuali o violenza assistita. O anche - dove uno dei due genitori non è in grado di tutelare il minore di fronte alla violenza dell’altro - per problemi di dipendenza da sostanze tossiche di uno o entrambi i genitori o per problemi di rapporti all’interno della famiglia.
In un caso su tre, i minori sono stati sottratti temporaneamente alla loro famiglia in base a una “misura di protezione urgente” per maltrattamento conclamato, abbandono o per altre ragioni particolarmente gravi o impellenti. Va precisato che le difficoltà socioeconomiche, che spesso caratterizzano questi contesti, non costituiscono, da sole, motivo sufficiente per l’allontanamento. Che, nel 31 per cento delle situazioni, è “consensuale”, cioè stabilito con l’assenso dei genitori, e nel 69 per cento è di natura “giudiziale”, ossia effettuato dietro provvedimento delle autorità competenti.
La loro permanenza in comunità può durare pochissimo, per meno di tre mesi e fino a quattro anni, e solo il 10 per cento li supera. La dilatazione dei tempi è determinata da particolari situazioni. Tipo: un problema sanitario proprio o del genitore, la perdita di uno o di entrambi i genitori, la dipendenza del padre o della madre da sostanze psicotrope, o per i casi di “inadeguatezza genitoriale” di cui sopra.
Nel frattempo, la maggior parte dei bambini mantiene rapporti regolari con le famiglie. Che sono 19.500, soprattutto monogenitoriali (aumentate dal 1998) in cui la metà dei padri è disoccupata mentre fra le madri lo è un terzo.
Fra gli ospiti delle comunità educative si contano anche 1.023 neo maggiorenni i quali, grazie a un provvedimento che garantisce loro una progettualità educativa che li accompagni al futuro, sono accolti, a volte gratuitamente, senza il sostegno delle amministrazioni locali. Mentre le comunità, per svolgere al meglio il loro lavoro, avrebbero bisogno di una retta giornaliera per ciascun bambino, compresa tra i centoventicinque e i centocinquantuno euro.
Ma, nella quasi totalità del Paese non si arriva a questa cifra. Tanto per fare un esempio: a Roma ammonta a sessantanove euro circa, e a Milano arriva a settantotto. I bilanci delle strutture sono in rosso: pesano una drastica riduzione delle risorse destinate e un ritardo corposo nei pagamenti.
In Campania, pur percependo la retta giornaliera più alta d’Italia, pari a centotrenta euro per minore (seguita dall’Emilia Romagna, nella quale, però, più del 70 per cento delle strutture lamenta bilancio negativo, e dal Veneto), gli educatori non ricevono lo stipendio da trenta mesi.
Molte comunità hanno serrato i battenti e altre sono in procinto di chiudere. Eppure in Italia i minori fuori famiglia sono meno numerosi che nel resto d’Europa: sono il tre per mille a fronte del nove per mille in Francia, l’otto per mille in Germania, il sei per mille in Gran Bretagna e il quattro per mille in Spagna. E dal 2007 a oggi non sono aumentati.
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di Tania Careddu
S. è in mezzo a una strada, senza soldi e senza lavoro, allontanato dalla casa del padre perché ha sottratto la mamma dalla violenza di lui. C’è K, cittadino congolese, senza fissa dimora da cinque anni. C’è P., ragazza italiana orfana, con una situazione sanitaria poco chiara. Così come J., che dorme in un casottino al binario 16, senza famiglia, reduce da due delicate operazioni chirurgiche. E S., con problemi di natura psichiatrica, chiuso in un silenzio intoccabile. Sono alcune delle storie che transitano nelle stazioni ferroviarie italiane e intercettate dai servizi di accoglienza Help Center, un progetto di Ferrovie dello Stato in parternariato con Anci e Europe Consulting Onlus.
Diecimila metri quadrati di spazi ferroviari, in comodato d’uso gratuito, in dotazione alle organizzazioni del Terzo settore che operano per il supporto e l’orientamento alle persone in difficoltà che orbitano nelle aree di stazione. Quelle di Chivasso, Genova, Torino, Milano, Bologna, Firenze, Pescara, Parma, Roma, Napoli, Foggia, Catania, Messina e Bari, le quali ospitano una marginalità che riflette quella presente nelle principali città italiane. Con criticità di ordine socioeconomico presenti nei contesti urbani, specie di grandi dimensioni.
La prima è la povertà sanitaria. Rilevata ovunque nelle stazioni per effetto di quella che viene definita una lenta ‘disaffezione alla cura’, interessa sia i soggetti senza fissa dimora sia quelli che, pur avendo una casa, stanno inesorabilmente scivolando in una deriva di marginalità a causa delle dinamiche di impoverimento che investono fasce sempre più ampie di popolazione.
L’impossibilità di una progettualità disincentiva dall’investimento per il miglioramento delle condizioni personali di vita, generando un’attitudine rinunciataria. Inoltre, la popolazione senza fissa dimora invecchia più precocemente e si ammala di tutte quelle patologie croniche che degenerano rapidamente: curarsi in strada è difficilissimo, riabilitarsi dopo un intervento chirurgico quasi impossibile, così come conservare un medicinale.
Seconda vulnerabilità: la perdita del lavoro, soprattutto negli utenti fra i quaranta e i quarantanove anni, che produce un malessere sociale esteso il quale ha conseguenze disastrose sulle persone più fragili e che porta con sé danni collaterali, quali depressione, rottura di legami affettivi, gioco d’azzardo patologico, usura. Altre criticità, la mancanza o il rischio di perdere il proprio alloggio e i tagli ai servizi, tanto da farli diventare inefficaci.
Nel 2013, secondo il Rapporto stilato dall’Osservatorio Nazionale sul Disagio e la Solidarietà nelle Stazioni italiane (ONDS), sono stati venticinquemila, di cui dodicimila per la prima volta gli utenti che hanno usufruito dell’assistenza fornita dagli Help Center, le cui porte si sono aperte settecentoventicinque volte al giorno e, ogni ora, circa sei persone si sono presentate per la prima volta.
La parte più rilevante dell’utenza, il 72,6 per cento di presenze, è costituita dagli immigrati, che sono tendenzialmente giovani e la loro permanenza in stazione è spiegata come una fase transitoria che fa parte del processo migratorio, mentre gli italiani, in aumento, rappresentano il 27,4 per cento. Raddoppia, rispetto al 2012, il numero degli over sessanta, con un’incidenza prevalente nelle aree metropolitane. Gli emarginati delle stazioni sono più uomini che donne e hanno tra i diciotto e i trentanove anni. Sono padri separati, disoccupati di lunga durata, pazienti psichiatrici.
La minore presenza delle donne in condizioni di disagio si spiega con considerazioni di carattere generale: prima fra tutte, la naturale capacità delle stesse di reinserirsi nel tessuto sociale e lavorativo, e secondo, poi, la maggiore attenzione che loro ripongono nella cura e nell’interesse degli affetti e dei rapporti che fungono da vera e propria rete di salvataggio in situazioni di difficoltà. Ma, uomini o donne, in tutte le vite di coloro che si rivolgono agli Help Center delle stazioni ferroviarie ci sono le ingiustizie sociali. Dallo sfruttamento lavorativo alle violenze sui figli, dalla malattia mentale all’abbandono. Solo il collante umano può far sperare e salvare. Anche dopo che lavoro, casa e salute saranno diventati beni comuni.
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di Silvia Mari
La storia esce sulle pagine di Corriere Salute. Un giovane italiano decide di farsi leggere il DNA. In Italia dove la legislazione è più ferrea che altrove è ammessa l’indagine solo per seri motivi di salute. Il principio che sorregge questa regolamentazione risponde a un concetto chiave: conoscere i propri geni può avere effetti psico - emotivi di non facile gestione, può dare luogo a strumentalizzazioni immorali o a selezione di specie. Un rischio che può essere corso solo se intervengono ragioni in ordine alla prevenzione e a ad un utilizzo terapeutico che avendo a che fare con il diritto alla salute diventano supererogatorie.
La spesa tra sequenziamento e interpretazione dei dati è arrivata a 3.000 euro ed è evidente la prima criticità in cui cade il sistema sanitario laddove riconosce l’utilizzo per motivi di salute dell’analisi genetica e non ne prevede il pieno sostegno economico.
Sarebbe anche utile sapere quali sono, se ci sono, i centri pubblici deputati a questa particolare analisi non solo per i costi, ma anche per esser certi della veridicità e sicurezza dei risultati. Dal profilo genetico, infatti, si traggono numerose informazioni che hanno a che vedere strettamente con quello che un tempo si sarebbe letto solo in termini di casualità o di fatalismo.
Il dottor Razee è il medico esperto che spiega i risultati al giovane che ha voluto scoprire la verità nascosta nei propri geni. La beffa è che quello che scopre è meno di quello che si attende e che soprattutto nulla diventa un elemento dirimente per il suo futuro, nulla – soprattutto - è mutabile o arginabile con alcuna terapia e valgono per lui, dal test in poi, quelle norme di prevenzione primaria che i medici raccomandano un po’ a tutti. Scopre infatti di avere i geni dell’infarto, ma di averne altrettanti che lo proteggono tali da avere un rischio medio inferiore ad altre categorie. Scopre di poter soffrire di osteoartrite o degenerazione maculare.
L’aspetto di particolare attenzione in questa storia, che denuncia quanto la genetica non possa essere percepita come verdetto sulla vita di una persona, è che i medici che hanno lavorato all’analisi del genoma di questo italiano atipico, hanno avuto bisogno di mettere insieme altri due elementi: l’anamnesi familiare e le abitudini, nonché luoghi e ambienti, di vita.
I geni infatti, per dirla in soldoni, non fanno tutto da soli e questo suscita una serie di interrogativi e di deduzioni. Modificare alcuni fattori epigenetici può davvero cambiare le sorti scritte nel DNA e in che misura percentuale? Nel caso delle sindromi predisponenti al cancro, ad esempio, sui tumori femminili sembrerebbe molto poco. Queste donne in età precoce sviluppano la malattia. Ma non tutte le mutazioni hanno lo stesso potere invalidante.
E laddove conoscere non corrisponde, per limiti della scienza, ad alcun antidoto o misura di autentica prevenzione possibile, a cosa serve davvero sapere? A soddisfare un’ansietà e un’ambizione di conoscenza propria della natura umana, come ben esprimeva Aristotele. A cercare di rendere possibile quel miracolo di ingegneria genetica ad oggi non disponibile che lascia tante persone, meno fortunate del protagonista di questa storia d’avanguardia, senza speranza e con la consapevolezza di avere una bomba ad orologeria dentro di sé.
Un meccanismo che aspetta un qualsiasi pretesto esterno per mettersi in moto. E che forse per altre ragioni ancora ignote del genoma o dell’esterno magari non si attiverà restituendo in cambio un’esistenza insopportabile e l’unica verità possibile: siamo e non siamo i nostri geni.
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di Tania Careddu
Che cosa costituisce il nesso tra la congiuntura economica sfavorevole, l’invecchiamento e lo status della popolazione? La salute. Nel 2013, stando ai dati ISTAT dell’indagine Tutela della salute e accesso alle cure, una persona su due ha una patologia cronica non guaribile. E tutte, allergie a parte, aumentano con l’avanzare dell’età. E, siccome l’Italia presenta il più alto tasso di invecchiamento in ambito europeo e internazionale, i calcoli sono presto fatti: nei soggetti con più di sessantacinque anni, uno su due soffre di artrite, ipertensione arteriosa, osteoporosi, diabete, cefalea, depressione e ansietà cronica. Aumentano anche l’Alzheimer, le demenze senili, i tumori maligni e le malattie della tiroide.
E se la salute fisica è in miglioramento rispetto alla precedente ricerca datata 2005, vuoi per i progressi della medicina e il perfezionamento delle capacità diagnostiche, vuoi per la maggiore consapevolezza e informazione dei pazienti e per i cambiamenti epidemiologici in atto in una popolazione che invecchia e progredisce in termini di istruzione, quella psichica peggiora. Soprattutto tra i giovani e gli adulti sotto i cinquantacinque anni. Principalmente in Campania, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia e Abruzzo.
L’invalidità per malattie mentali - al centro dell’attenzione, ormai da un decennio, ai vari livelli decisionali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dell’Unione europea - colpisce circa settecentomila individui; le persone con disturbi del comportamento alimentare rappresentano lo 0,5 per cento della popolazione, con una quota triplicata fra le donne.
Gli eventi dolorosi hanno un impatto importante sulla salute mentale (di chi dispone di scarse risorse interne per resistere, ndr): da quello in cui si acquisisce consapevolezza di avere una malattia a quello in cui si deve fare i conti con problemi economici; dalle difficoltà con i figli alla perdita del lavoro; dalla rottura del rapporto di coppia al decesso di un familiare che, fra tutti, è quello più frequentemente riportato dagli intervistati.
Le condizioni di salute peggiorano tra i soggetti con bassi livelli di status. C’è da dire, a proposito, che la propensione alla prevenzione e al controllo aumenta al crescere del grado di istruzione raggiunto: per esempio, il 65 per cento dei laureati ha controllato annualmente la pressione contro il 60,9 per cento dei diplomati.
Fortunatamente alcuni programmi di screening promossi, dal Sistema Sanitario Nazionale, in molte regioni d’Italia spingono verso una maggiore e più capillare prevenzione che, però, trova meno adesione tra gli abitanti del Mezzogiorno rispetto a quelli del Nord Est e del Centro. Aumentano, così, anche se il numero rimane bassissimo in Calabria, le donne che si sottopongono allo screening con il pap test e con la mammografia, coinvolgendo positivamente anche le straniere.
Fra i laureati e le persone in buone condizioni economiche diminuiscono i forti fumatori e lievitano gli anziani che svolgono un’attività sportiva. La quale, nel Belpaese, però, è praticata solo dal 20 per cento della popolazione. Male, visto che l’inattività fisica è il quarto fattore di rischio per la mortalità globale. Ed è complice di una condizione di soprappeso.
Sebbene lo Stivale sia penultimo nelle classiche europee, a destare allarme è l’eccesso di chili nei bambini dai sei ai dieci anni: uno su tre. E si consumano sempre più farmaci: ne fa uso un bambino su cinque, più nel Nord Est che al Sud, eccezion fatta per la Sardegna. Viceversa, cala la fiducia nelle terapie non convenzionali: la più diffusa resta l’omeopatia, seguita da osteopatia e chiropratica, dalla fitoterapia e dall’agopuntura.
Tutto questo nella cornice di un welfare familiare sempre più risicato: nell’ultimo anno, stando a quanto riporta il Censis in ‘Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche sociali’, la spesa sanitaria privata ha registrato un meno 5,7 per cento, le famiglie hanno dovuto rinunciare complessivamente a quasi sette milioni di prestazioni mediche private e, per di più, di fronte a un restringimento della spesa sanitaria pubblica. Un Paese molto malato.
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di Rosa Ana De Santis
Il sindaco di Bologna, Merola, non teme il Viminale e inaugura un precedente giuridico importantissimo sul caso dei matrimoni omosessuali. Dal 15 settembre, come scrive l’agenzia di stampa Dire, sarà possibile registrare e recepire il matrimonio di omosessuali avvenuto all’estero. Si tratta di una mossa che vuole aggirare e soprattutto denunciare le inadempienze della legislazione nazionale, nell’auspicio che il Parlamento senta l’urgenza di adeguarsi a norme di civiltà che in molti Paesi Europei sono vigenti.
Il caso è analogo alla legge sul fine vita e alla possibilità di far nascere dei testamenti biologici privati da depositare presso i notai, in attesa che una legge dello Stato possa avere un legittimo e ufficiale battesimo. E assomiglia al caso dei registri in vigore presso i Municipi di Roma Capitale per le coppie di fatto abbandonate dalla norma sui DICO rimasta una scatola vuota.
Bologna non è quindi la prima città a battezzare questa pratica e rispecchia un trend del Paese che è quello di sovvertire lo status quo che nasce dal timore di scardinare la legge e di lanciarla su nuovi fronti di bioetica, spingendo dal “basso” le istanze che arrivano dalle famiglie e dai cittadini e da chi vive sulla propria pelle nuove e diverse modalità di vita sentimentale e privata.
Analogo il caso avvenuto per la legge 40 svuotata di senso dai ricorsi in tribunale di moltissime coppie italiane alla ricerca di un figlio e penalizzate da una legge ricca di veti e censure e lesiva della salute della donna. Ad oggi quella legge è sul banco degli imputati e il Ministro Lorenzin è sceso in campo parlando addirittura del dogma etico dell’eterologa.
Numerosi spunti quindi ci dicono che la strada ufficializzata a Palazzo d’Accursio porterà i suoi frutti, confermando un metodo che forse è anche il più giusto. Dare la parola direttamente ai cittadini e al loro vissuto sulla materia etica, educando le Istituzioni a legiferare senza ricorrere a facili e comode operazioni dall’alto e a freddo è forse la ricetta giusta per un Paese che per corredo genetico patisce il cambiamento.
Se pure arrivasse uno stop dal Viminale, la decisione avrebbe un effetto fortissimo sull’opinione pubblica e questo forse sortirebbe in ogni caso effetti positivi in merito al dibattito e alla sensibilità sul tema dell’omosessualità. Diventerebbe complicato dover educare all’inclusione della differenza, perorare la diffusione di pubblicità progresso contro l’omofobia e impedire parallelamente a due persone dello stesso sesso che scelgono di essere uniti sentimentalmente di avere gli stessi diritti e gli stessi doveri di due eterosessuali.
I costumi sociali e le regole cambieranno, anche questa volta, prima che nel Palazzo si trovi l’alleanza giusta per la votazione che non scontenta nessuno. La corsa verso il progressismo rischia di diventare quella con Papa Francesco.