di Tania Careddu

Una violenza endemica, di genere, che oltraggia i diritti umani. Profondamente segnato da culture patriarcali e da dinamiche di potere decisamente sfavorevoli al sesso femminile. Silente eppure frequente: il matrimonio forzato. Occuparsene, per capirlo, significa interrogare le culture, affrontare l’accesso delle donne ai beni sociali ed economici nelle diverse realtà culturali. Soprattutto in quelle caratterizzate da società “poco sviluppate”, in cui le tradizioni definiscono l’identità individuale e sessuale e dove le scelte del nucleo famigliare prevalgono prepotentemente su quelle soggettive.

Le quali, spesso, sono condizionate da un gioco di valori, dall’esperienza (poca), da un calcolo del rapporto costi/benefici, dalla consapevolezza (o meno) di sé e del proprio desiderio. O ancora: affrontare la profonda e strutturale differenza tra i sessi, fare i conti con una limitazione della libertà degli individui e una prevalenza di usi, costumi e sistema di valori collettivi che investe uomini e donne, considerare i radicalismi religiosi, spesso abbinati a una rigida gerarchia di norme codificate dalla tradizione.

Vuol dire tenere in conto del livello di povertà - fattore primario di rischio per i matrimoni (forzati, ovviamente) infantili, dove l’obbligo di sposarsi imposto alle minorenni origina dalla speranza che il matrimonio porti alla famiglia dei vantaggi finanziari o sociali - o dal valore della “purezza sessuale” fisiologica delle ragazzine.

In Italia, secondo quanto si legge nella pubblicazione del dipartimento per le Pari opportunità “Il matrimonio forzato in Italia: conoscere, riflettere, proporre. Come costruire una stima del numero delle donne e bambine vittime in Italia di matrimoni forzati”, non è possibile quantificare il fenomeno per la sua liquidità, la difficoltà di racchiuderlo in una definizione univoca e condivisa, la carenza di basi di rilevamento e di rappresentatività statistica.

Si possono, però, considerare sia i casi di matrimoni forzati (isolati e sporadici) in cui agiscono fattori di costrizione tradizionali anche all’interno di famiglie native - dove si può rilevare un aumento dei matrimoni precoci, in particolare nel Sud Italia e in quelle piccole comunità in cui sia fortemente presente l’elemento del controllo della sessualità femminile e dell’onore familiare - sia le forme di conflitto che si generano nell’esperienza migratoria tra prime, seconde e terze generazioni di migranti.

Le cui figlie vivono in bilico tra due culture: laddove i legami identitari sono più radicati, le pressioni riescono ad avere presa anche fra quelle ragazze che, vivendo nel Belpaese, sembrano aver conquistato autonomia di pensiero e libertà di scelta. I matrimoni forzati si “celebrano” più frequentemente fra i migranti del subcontinente indiano e dei paesi musulmani. Gli immigrati del Marocco e dell’Albania rappresentano le comunità maggiormente degne di interesse, perché si tratta di gruppi in cui la folta presenza di donne da una parte e di seconda generazione dall’altra sono componenti importanti per poterne intravedere il rischio.

La cui concretizzazione ha serie conseguenze: intrappolamento in situazioni di violenza da parte dei mariti, gravidanze forzate o precoci, ridotto accesso all’educazione, abbandono scolastico e sempre più scarse opportunità di impiego, compromissione dello sviluppo psicologico. “Io non voglio fare del male, io voglio essere libera”. H., vittima di matrimonio forzato.

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