di Tania Careddu

Quando l’aria economica e politica si fa irrespirabile, l’economia sommersa permette a un gran numero di soggetti produttivi di prendere fiato. E il comparto agricolo è uno di questi: per massimizzare la produttività di un’attività con una modesta redditività, il lavoro perde la caratteristica di costo fisso e diviene un fattore che varia con il livello di produzione. E diventa nero. Sebbene sia difficile da stimare per l’eterogeneità delle fonti e la dispersività dei dati, una cosa è certa: è in crescita in tutti i Paesi e dal 2007 a oggi ha generato cinquecentoquarantanove miliardi di euro l’anno.

Con ordine: la grande maggioranza delle aziende agricole è di piccole dimensioni - individuali o a conduzione diretta - che produce, spesso, per l’autoconsumo utilizzando una manodopera familiare. Ma quando la stagione chiama, si fa ricorso alla manodopera giornaliera, costituita per lo più da migranti, rumeni, bulgari, albanesi, polacchi, indiani, pachistani, provenienti dall’Africa equatoriale e dal Nord Africa. In nero.

Utilizzata in tutti i lavori agricoli, generici e specializzati, dalla semina alla raccolta, dalla selezione alla lavorazione, dalla pastorizia alla zootecnica. In condizioni di estremo sfruttamento se non di vero e proprio schiavismo.

Senza uno straccio di contratto, sconosciuta agli enti previdenziali e di vigilanza, senza tutele previste dalla legge. Ma tant’è: ci si adegua al clima generale per poter lavorare. Soprattutto nelle aree depresse del Sud, in testa Campania, Calabria e Puglia, la più flagellata. Dove, nel 2013, è risultata in nero più della metà dei lavoratori delle aziende agricole, con picchi del 70 per cento nel Salento, del 54 per cento nella provincia di Bari e del 40 per cento in quella di Foggia. Con irregolarità visibili anche sul salario che, generalmente, ammonta alla metà di quello previsto dai contratti. Ma le peculiarità del lavoro agricolo, vedi l’informalità dei rapporti e gli incarichi a giornata, rendono più ostici anche i controlli.

D’altronde, il perdurare di una profonda crisi economica che genera forti difficoltà al sistema produttivo e la pressione fiscale ormai insopportabile, da un lato spinge le aziende verso la ricerca di ‘soluzioni’ poco ortodosse e dall’altro costringe i lavoratori, in mancanza di lavoro e sospinti dal bisogno, ad accettare condizioni di lavoro punitive retribuite in nero.

E’ il caso (anche) degli italiani: operai, muratori, carpentieri, geometri, ragionieri e finanche fornai, approdano nei campi dopo la chiusura di fabbriche e imprese, in seguito a un licenziamento o a una drastica riduzione del salario. Per venti euro al giorno, un quinto del minimo sindacale, dodici ore di lavoro dall’alba al tramonto, trentacinque euro per raccogliere le ciliegie o quaranta come braccianti.

Vivono in baraccopoli, senza acqua potabile, servizi igienici e assistenza medica (il 70 per cento di loro ha contratto malattie), che costituiscono veri e propri ghetti. Gli schiavi del nuovo millennio vengono reclutati dai ‘caporali’, anello di congiunzione del sistema agricolo che garantisce la disponibilità della manodopera al momento giusto e direttamente in azienda, i quali si ‘servono’ nei mercati dei paesi o nelle periferie delle grandi città per cercare forza lavoro giornaliera e condurla nei campi, in un servizio ‘tutto compreso’. Inclusa la percentuale per la prestazione: il 60 per cento della paga giornaliera.

E però, purtroppo, quattrocentomila uomini trovano lavoro tramite loro, operativi in ottanta epicentri di sfruttamento. Dal 2011, quando è stato istituito il reato di caporalato, trecentocinquantacinque caporali sono stati denunciati o arrestati. Ancora troppo pochi.

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