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di Rosa Ana De Santis
Mentre tutti si preoccupano dell’onda di immigrati e le forze politiche della destra cavalcano il dramma degli sbarchi per alimentare odio sociale e paura, nessuno presta debita attenzione all’emigrazione 2.0 che riguarda la nostra cara Italia. Se un tempo gli immigrati erano i non istruiti, i contadini, i manovali, le persone più umili, oggi è soprattutto la nostra intelligentia ad andar via. Quella preparata da un sistema di istruzione pubblico che per quanto flagellato da sprechi e risorse all’osso continua a sfornare eccellenze.
I numeri della ricerca ISFOL (Istituto per la formazione professionale dei lavoratori) hanno analizzato la mobilità geografica dei dottori di ricerca e i loro compensi. Chi abbandona l’Italia guadagna una media di 10.000 euro in più l’anno. Un numero secco che non lascia troppi margini di incertezza per quanti, dopo peregrinazioni contrattuali precarie, decidono per il grande passo.
Va di moda nobilitare il salto come forma di crescita e di specializzazione, ma questa tentazione è quella che impedisce di vedere questa diaspora per quello che è davvero: un depauperamento di intelligenze, di valore, di patrimonio anche economico. Una resa di un Paese che proprio in questo momento di estrema crisi avrebbe bisogno dei suoi migliori giovani. Al momento l’unico risultato tangibile in materia è di avere un governo dei giovani che è salito al potere con la pratica di palazzo, ahinoi, più vecchia e abusata della storia italiana.
Gli altri numeri confermano il divario di retribuzione nel territorio nazionale tra le specializzazioni scientifico-tecniche e quelle umanistiche. Un dato che non sorprenderebbe altrove quanto invece stupisce nella patria delle scienze umane e dei beni culturali. Pompei che si sbriciola ne è forse l’icona più tragica e simbolica al temo stesso.
Chi è andato all’estero ha spesso ottenuto forme contrattuali flessibili, ma si dichiara soddisfatto della tipologia di lavoro, conforme al titolo di studio raggiunto, e della retribuzione con una percentuale del 97%. In Italia infatti spesso si è impiegati con forme di lavoro subordinato e permanente, ma spessissimo per mansioni del tutto inappropriate per il proprio curriculum di studi.
Efficacissimi i programmi quali l’Erasmus, che preparano i giovani studenti a proiettarsi in esperienze professionali fuori confine, anche se spesso non accessibili pienamente a tutti per limiti economici di sponsorizzazione prevista.
La ricerca dice quindi che la nostra scuola funziona, che i nostri ricercatori sul mercato hanno un valore altissimo e che emigrano, come possono. Un’emigrazione che porta fuori le lauree e non le braccia e che proprio per questo avrà effetti dannosi sul lungo periodo.
A Firenze, giovedi prossimo, al lancio ufficiale di Erasmus ci sarà anche il giovane capo del governo, Matteo Renzi. La smania di un crono programma serrato non potrà certamente riportare a casa tutti i cervelli in fuga, ma dare dei segnali si. Quasi obbligatoriamente per un governo che pone la sua novità politica anche nella sua connotazione anagrafica.
Storie come quella di Rossella Lucà, 30 anni, rientrata dal Belgio per lavorare al CNR o di altri ricercatori: Carolina Pagli, Stefano Bolognesi e Andrea Lamorgese, rientrati grazie al programma Rita Levi Montalcini promosso dal Miur raccontano del bisogno di invertire la tendenza. La ricetta anti crisi passa anche da qui.
Lasciare la patria, anche se non con la valigia di cartone e con 50 euro di aereo low cost, non è mai indolore, e non è mai solo, almeno non sempre, una scelta di libertà. Il problema è che, sempre più spesso, diventa l’unica.
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di Maria Rosaria De Falco
Il Parco Nazionale d' Abruzzo, Lazio e Molise, lo scorso 14 marzo, ha perso a Pescasseroli (L'Aquila) il quinto orso di quest'anno. Si tratta di un esemplare femmina, di età tra i 5 e i 6 anni. Ancora una volta, per la morte apparentemente ignota di un orso, si tentano diverse ipotesi: da quella dell'avvelenamento a quella di una grave malattia deducibile da sintomi presentati al momento del ritrovamento.
Il più antico parco d' Italia (coevo a quello del gran Paradiso), nell'ultimo periodo ha quanto mai raggiunto l’apice di una lunga crisi riguardante proprio il suo storico simbolo. Si tratta di una sottospecie dell’Orso Bruno, endemico dell’Italia centro-meridionale: l'Orso Bruno Marsicano, senonché "Ursus Arctos Marsicanus”.
Poco più di quaranta anni fa, il numero di esemplari presenti nel parco raggiungeva i 60. Oggi, secondo le più recenti stime, gli esemplari sono solo 40. I casi di morte sono troppo frequenti per trattarsi di un esemplare così notevole, e le crescite si sono fermate. Tra il 2002 e il 2003 sono morti 27 individui; nel 2011 la riproduzione della specie ha toccato il minimo storico con appena tre cuccioli. Tra il 2007 e il 2013, degli esemplari della specie riservata, 3 sono morti per avvelenamento, 3 per investimento, 4 per aggressione con sostanze tossiche.
Si è raggiunto il rischio estinzione, che già da tempo permane e si aggrava a causa di fattori quali il bracconaggio - la vera piaga del parco - la frammentazione dell'habitat naturale e le occasioni di "incontro-scontro" con l'uomo, in particolare per alcuni esemplari "confidenti". Gli orsi "confidenti" sono quegli esemplari di orso che, perdendo la naturale diffidenza verso l'uomo e le zone più antropiche, si avvicinano a questi per la facilità con cui riescono a nutrirsi.
Infatti, quando in Primavera si risveglia dal suo letargo, s'imbatte nelle sempre più estese attività zootecniche come allevamenti e coltivazioni che col tempo hanno invaso il suo ambiente naturale riducendo le possibilità di caccia. Pertanto, il fenomeno altro non è che una replica all'uomo che tratta il territorio come una bestia da soma nel suo mancato approccio biocentrico.
Anche in aree di riserva integrale, create all’unico scopo di tutelare la sopravvivenza dell'Orso Marsicano, vi è l'incompatibile presenza di intere mandrie di bovini allo stato semibrado, portatrici di numerose malattie. Secondo alcune voci raccolte, inoltre, si sarebbe reso poco conto ai cittadini e alle istituzioni circa i fondi stanziati nel 2007: si parla della modica cifra di 10.224.707 euro per ben tre progetti riguardanti l'orso marsicano; e quando, mesi fa è stata portata la questione orso in parlamento, ha avuto luogo un rimbalzo di colpe e responsabilità circa la salvaguardia dell’orso e i fondi stessi. L’Unione Europea ha avviato un’indagine sull’impiego dei fondi per la tutela dell’orso bruno marsicano.
Dopo un commissariamento durato dal 2005 ad oggi, solo lo scorso 18 marzo, il Parco ha finalmente visto un riferimento amministrativo: è cominciata l'era del presidente Carrara, sul quale diverse associazioni e comitati locali avevano espresso numerose perplessità, paventando l’occupazione dei vertici dei Parchi nazionali italiani da parte di amministratori locali invece che con la nomina di esperti in campo ambientale. Ai più radicali, invece, è apparso quantomeno singolare che il neopresidente, nel suo discorso d'insediamento, abbia ringraziato una serie di padrini politici di matrice renziana.
Ad inaugurare la presidenza di Carrara è stato il perfezionamento di un "protocollo d'intesa" nel quale le tre regioni interessate dal parco (Abruzzo, Lazio e Molise) sanciscono l'impegno congiunto nel mettere tempestivamente in pratica azioni concrete per la conservazione dell'orso, impegno del resto preso con l'Unione Europea.
Il corpo forestale dello Stato ha poi attivato nel PNALM il Nucleo operativo anti veleno che avrà il compito, d'ora in avanti, di individuare eventuali esche avvelenate lasciate dai bracconieri con il vigliacco obiettivo di uccidere esemplari di fauna selvatica.
Tuttavia, si spera che stavolta l'obiettivo non sia la conservazione bensì il rilancio, dell'Ursus Arctos Marsicanus e di altre specie, così come è avvenuto dal 1970 al 2000 sotto l'amministrazione Tassi. Chi il Parco l'ha visto sbocciare a appassire nella sua salvaguardia, lo ricorda fino al 2000 come un fiorire di progetti di rilancio della natura. Dalla seconda metà degli anni '70 al 2000, ad esempio, furono iniziati e conclusi con ammirevoli risultati, progetti come il rilancio dell'orso, del capriolo, della lince e di molte specie botaniche che oggi, costituiscono una delle tante peculiarità del Parco.
Progetti pilota dalla quale partenza fu reso possibile il ripristino dell'intera catena alimentare del Parco, dal piccolo erbivoro al grande carnivoro. Il progetto "Val di Rose", ad esempio, fece sì che la popolazione di camosci restasse integra per poi registrare una prospera crescita della specie fino ad oggi. Prova ne sia, tutt'ora, che il numero di turisti che frequentano Val di Rose è inferiore al numero di camosci che la popolano, rendendo quell'angolo di parco una delle più suggestive e selvatiche zone faunistiche presenti in Italia e, forse, in Europa.
Le politiche adottate in quel fiorente periodo, infatti, furono imitate da diversi Parchi di tutta Europa. Cosa di notevole importanza, poi, furono promossi e portati avanti progetti di riconciliazione uomo-ambiente concretizzatisi nell'accoglienza selettiva del turismo ecologista e ambientalista, in contrasto con gli afflussi di massa che, oggi, sembrano dominare.
La pericolosa ascesa verso il rischio estinzione dell’Orso Bruno Marsicano e di altre specie, è iniziata proprio dal 2000 quando, per ignoti motivi, si è deciso di puntare sono alla conservazione piuttosto che al rilancio della biodiversità. Sebbene in loco siano adottate alcune politiche di sensibilizzazione e informazione, occorrerebbero conoscenza e rispetto della biodiversità di cui noi stessi siamo parte e che, purtroppo, oggi sembrano mancare.
La libertà della biodiversità, poi, sembra essere un concetto troppo lontano da molti turisti che, per la rarità degli esemplari del parco, tentano di avvicinarsi violando gli habitat naturali o avvicinandoli con esche alimentari. Lo scioglimento di questo groviglio di problematiche aggravate per anni, non sta in una banale politica di ampliamento del turismo di massa al fine di conoscere il parco e il suo patrimonio genetico, bensì in una conoscenza fine al rispetto dello stesso.
Le stesse politiche interne dovrebbero essere più complete e lungimiranti, permettendo sì la presenza e l’espansione di attività locali come quelle economiche o dell’allevamento ma tenendo conto dei limiti ammissibili dello sfruttamento di un territorio, senza rischiare una distruzione dell’identità naturalistica del territorio. Inoltre, una maggiore vigilanza più complessiva rispetto a quella attuale, diminuirebbe di gran lunga episodi di bracconaggio, investimenti automobilistici e aggressioni con sostanze tossiche.
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di Rosa Ana De Santis
L’appuntamento per la canonizzazione dei beati Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II è per il 27 aprile. Piazza San Pietro diventerà il set di un cinema: trentaquattro telecamere, nove satelliti, riprese in HD. Un santo a tempo di record, Wojtyla, morto nel 2005 e beatificato nel 2011. L’altro, morto nel 1963, è diventato beato soltanto nell’anno giubilare 2000, scontando, non si capisce bene il perché, più Purgatorio. L’evento sarà storicamente unico: 2 papi viventi per 2 papi santi, in una scenografia tecnologico-mediatica impressionante.
A Roma si attendono 5 milioni di pellegrini e l’evento è già tutto tranne che un appuntamento religioso. Media e albergatori saranno i protagonisti, la Giunta Marino in fibrillazione e la reazione di una città che sarà letteralmente assediata. A fare gli onori di casa sarà Papa Bergoglio, Pontefice in carica, e forse anche Ratzinger, Pontefice dimesso e in autoprigionia nel Vaticano, avrà un qualche ruolo “emerito”. Chissà.
Un marketing che fa tornare alla memoria la macchina che si mobilitò per il Giubileo del 2000 e che Giovanni Paolo II seppe condurre con la disinvoltura di chi durante tutto il proprio pontificato era riuscito a padroneggiare e a servirsi benissimo dei media e del loro potere di diffusione. Era stata questa la chiave del successo di Wojtyla nel mondo giovanile, basta pensare al fenomeno goliardico, a tratti stucchevole, dei “papa boys”.
La sua fama era stata possibile grazie ad un' attenzione spasmodica - per la prima volta nella storia della Chiesa - al linguaggio giovanile, cogliendo l'opportunità storica di porsi come leader, prima ancora che come papa, fornendo una risposta al bisogno di aggregazione di una generazione orfana di idee nuove, che pativa una crisi identitaria determinata dalla fine dell'ideologia del cambiamento.
Insieme alla propria azione temporale e politica contro il comunismo e l’URSS, l’icona di un uomo vecchio e malato sotto il peso della croce é stato il suo lascito simbolico, l'ultima grande mossa mediatica. Ma nessuna innovazione giunse da Woytila, uomo dell’establishment. Mai pontificato, infatti, fu più dogmatico e conservatore di quello polacco.
Dalla condanna della teologia della liberazione fino all’abbandono di uomini santi come Monsignor Romero, dal silenzio su traffico di armi e dittature sudamericane all’inasprimento di una certa morale dogmatica, Woytilaa scelse di puntare il dito contro le istanze della chiesa degli umili, imponendo un ulteriore giro di vite al conservatorismo su Chiesa e sacerdozio.
Decisamente un papa diverso e per i suoi tempi di rottura, Giovanni XXIII, che riuscì a organizzare un Concilio Vaticano II a tempi di record e che non si fece scrupolo di rompere alcuni formalismi, di utilizzare un linguaggio emotivo e intimo verso la comunità dei fedeli, intercettando un bisogno di novità e un modo diverso di esser vicini ai fedeli.
Per i tempi, una straordinaria innovazione nella comunicazione che oltrepassava la comunità cattolica e arrivava anche ai non credenti, comunque ammirati da quel papa buono e dalla sua capacità di entrare in sintonia con le sofferenze di tutti. Un papa che apriva le braccia invece di puntare il dito.
C’è in questo, in papa Giovanni XXIII, un tratto di affinità con Papa Francesco: comprendere e accogliere tutti, rispettare il senso più profondo dell'esercizio pastorale originario, i sentimenti in luogo della solennità nel rispetto assoluto della lettera e dello spirito del Vangelo.
Queste le due Chiese che il 27 aprile si daranno appuntamento sotto la Cupola di San Pietro. Una è quella di Papa Wojtyla, vicina ai movimenti, alle lobby della religione, ad un potere molto temporale; l’altra è quella dell’Ospedale da campo, come l’ha definita Bergoglio all’inizio del suo Pontificato. Quella in cui c’è posto per una carezza del papa da portare ai bambini, come disse Papa Roncalli nel famoso “Discorso della luna”, l’11 ottobre del 1962.
Un dualismo che continua a tradire le contraddizioni di un‘istituzione troppo umana. Talmente umana da aver portato un papa tedesco a dimettersi come un capo di stato qualsiasi per drammi, omertà e abusi, storici e vicini, come quelli sui bambini: ombre e vittime non gradite nel grande reality show della Santità.
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di Tania Careddu
Sono ragazzi, in qualche caso bambini. Partono dai loro Paesi d’origine, Somalia, Gambia, Egitto, Siria, Eritrea, Senegal, Costa d’Avorio e Mali, che offrono condizioni di vita difficili, senza coinvolgere i propri famigliari. Soprattutto se la mamma è vedova o hanno dei fratelli più piccoli verso i quali nutrono la responsabilità di farsi carico del mantenimento. Oppure per il rischio di essere arruolati nell’esercito, circostanza piuttosto frequente in seguito a insuccessi scolastici. Viaggiano (anche per due anni) non accompagnati, senza adulti di riferimento, subendo spesso violenze e detenzione nei Paesi di transito.
Prima di raggiungere l’Europa (l’Italia), infatti, effettuano varie tappe in Africa, dove, ai confini dei vari Stati, militari in pianta stabile, qualche volta, sparano e uccidono. Pagano i trafficanti per superare i campi profughi adibiti alla loro accoglienza ma del tutto inospitali. Talvolta vengono ridotti in prigionia, subendo torture a suon di scariche elettriche.
Quando riescono a liberarsi, a fronte di un pagamento o lavorando in schiavitù e se hanno la fortuna di non essere detenuti dai trafficanti in luoghi isolati, stipati per mesi in quaranta in una singola stanza, intraprendono il viaggio in mare. Che costa dai tremila a più di quattromila dollari, dura dieci giorni, pochi viveri a disposizione, chiusi in una stiva senza sapere dove verranno portati.
Quando ( e se) arrivano all’agognata meta, i luoghi di accoglienza, principalmente in Sicilia, sono del tutto inadeguati e non possono sostenere la permanenza prolungata dei minori migranti. Mancano gli standard essenziali di accoglienza, soprattutto per il lungo periodo, a causa della carenza di servizi igienici e letti, e le misure minime di protezione dagli adulti. Sono vittime, anche, di gravi carenze a livello sanitario: tanti minori non sono stati visitati dai medici nonostante le condizioni di salute precarie.
Spesso, all’arrivo, non vengono nemmeno foto segnalati, anche perché alcuni si rendono irreperibili per la paura che le procedure di identificazione non vadano a buon fine, impedendo il proseguimento e l’attuazione del loro progetto migratorio che consiste nella ricerca di un futuro e di una identità in Nord Europa, dove, probabilmente, raggiungeranno alcuni famigliari.
Una difficoltà che l’operazione Mare Nostrum ha cercato di superare avviando sulle navi stesse le operazioni di identificazione e accertamento dell’età dei minori, che però rischia di non garantire pienamente la tutela dei loro diritti. Il trasferimento dei bambini non accompagnati nelle comunità per minori tende a essere lento per l’insufficienza di risorse economiche a disposizione delle comunità stesse, con il conseguente risultato che si allontanino prima del loro collocamento e prima della nomina di un tutore o senza l’ottenimento del permesso di soggiorno.
“Siamo sconcertati di fronte a questa situazione”, commenta la direttrice Programmi Italia e Europa di Save the Children, l’associazione che ha redatto il dossier Minori migranti in arrivo via mare 2013, Raffaella Milano. Che continua: “Apprezziamo l’impegno dello Stato italiano nel cercare di evitare nuove tragedie in mare attraverso l’impiego delle navi della marina militare. Allo stesso tempo, non riteniamo accettabile che, dopo lo sbarco, sia solo l’Ufficio dei Servizi Sociali di Augusta a farsi carico della prima accoglienza dei minori arrivati da soli, in condizioni di particolare vulnerabilità, dovendo provvedere da solo a fornire beni e servizi primari e a occuparsi anche di reperire posti di accoglienza sul territorio nazionale. Il tutto in mancanza di risorse adeguate”.
Prosegue la direttrice Milano: Questo avviene perché oggi manca in Italia un sistema nazionale di accoglienza e protezione per i minori stranieri non accompagnati. E’ questo il punto principale della proposta di legge elaborata da Save the Children e deposta alla Camera il 4 ottobre scorso da parte di deputati esponenti di diversi partiti politici e il cui iter è iniziato il 23 dicembre con l’assegnazione alla Prima Commissione Affari Costituzionali. Riteniamo indispensabile che si giunga a una rapida approvazione della legge per superare, una volta per tutte, questa gestione emergenziale del tutto inadeguata rispetto a un flusso costante di arrivo di minori che, viaggiando senza adulti di riferimento, in mancanza di una rete di accoglienza e protezione, si trovano esposti a gravi rischi anche una volta giunti in Europa”. E sono tanti: novecentoottantotto, solo dal primo gennaio al 19 marzo 2014.
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di Maria Rosaria De Falco
Il 5 marzo, giunge notizia dell'ennesimo tentativo di suicidio: nel modenese, una 15enne ha tentato di suicidarsi sui binari. Grazie al lesto istinto del macchinista, il treno si ferma in tempo e la ragazza viene portata via dalla mano di un passante. Il motivo sarebbe quello dei brutti voti a scuola e, probabilmente, la delusione che è costretta a portare a casa.
Si sa che l'autolesionismo è il gesto più estremo che segue alla disperazione e alla depressione, ma i brutti voti a scuola non sembrano decisivi per indurre al suicidio. Che sia o no questo il caso, è opportuno riflettere sui dati forniti dall' ISTAT: negli ultimi dieci anni sono 10.000 i suicidi: 1000 l'anno. Altrettanti, sono quelli non riusciti.
Che vi sia l'assenza di un ambiente normativo e culturale che riconosca la responsabilità dei media, al fine di sostenere ogni singolo membro della società nella costruzione di un libero pensiero sulle condizioni reali dell'esistere, è un dato di fatto a cui ci si è inconsapevolmente rassegnati; tuttavia a partire dagli affermati e devianti reality, passando per i social network, c'è qualcosa che sfugge all'occhio scarsamente acuto dello spettatore.
Già nel 1968, il sociologo canadese McLuhan affermò il preoccupante meccanismo secondo il quale " il medium è il messaggio". I mass media, dunque, hanno il potere di modificare profondamente la percezione della realtà per la loro stessa natura comunicativa dapprima nel singolo individuo, poi nell'intera società creando immaginari collettivi. Con questo, McLuhan afferma anche che la più piccola unità modulare, se ripetuta in modo rumoroso e ridondante, finirà gradatamente per imporsi.
E' il caso dell'ultima moda facebook: "Nomination". Consiste nell'invitare amici e amici di amici - di cui neanche si conosce la faccia - a bere fino a schiantarsi a terra. E' uno dei modi per compensare i vari complessi sociologici dei ragazzi, fini all'accettazione sociale o al risultare "figo" alla ragazza che, su facebook, ti ha come amico ma non sa chi tu sia. Peccato che, nel 90% dei casi, questo istrionismo porti al coma etilico.
Si chiama sindrome di Werther, volgarmente chiamata "contagio per emulazione": una spirale distruttiva che parte (nel migliore dei casi) dalla disinformazione dei media che sembrano avere la forza catastrofica di provocare casi di emulazione con la spettacolarizzazione delle notizie, anzitutto se si tratta di suidici. Chissà che audience!
E' dall'inizio dell'attuale crisi economica che il fenomeno sta investendo l'intera geopolitica mondiale a causa del fatto che il suicidio viene presentato come una normale risposta alla crisi, e i suicidi quasi come degli eroi.
A partire dalle immagini mandate in onda durante i servizi sul fatto di cronaca, magari per l'edizione delle 20.00, quando i bambini sono tavola con le famiglie traboccanti di problemi finanziari o d'altro genere, ed ecco che hanno luogo innumerevoli episodi in cui fanciulli, nel tentativo di imitare i suicidi presentati come eroi, compiono azioni pericolose di cui c'è poco o niente di cui stupirsi.
Basta guardare per soli 10 minuti l'odierna televisione, per accorgersi che nel suo ventaglio di offerte d'intrattenimento e cronaca, offre uno spettacolo a dir poco deviante che, nel più favorevole dei casi, suggestiona gli spettatori senza che questi se ne rendano conto.
Considerando motivo e periodo storico che danno il nome di "Sindrome di Werther" a questa, ci sarebbe da provare culturalmente disdegno e rabbia nel pensare quanto la televisione sia oggi uno strumento di manipolazione psicologica in tutte le sue forme e che, rendendoci automi, ha potere forgiante, cui permettiamo la sempre più crescente autorevolezza da indurre l'individuo a suicidarsi se è disperato, al femminicidio se è geloso.
E' noto che, nel 1774, J. W. Goethe pubblicò un romanzo dal titolo "I dolori del giovane Werther" in cui il protagonista della storia, Werther, non corrisposto nel suo fervore amoroso verso l’amata, sceglie il suicidio per porre fine alla propria sofferenza. A seguito di tale pubblicazione si verificò un ondata di suicidi emulativi in tutta Europa raggiungendo dimensioni tali da convincere i governi di alcuni paesi a proibire la diffusione del libro. Una reazione analoga la si osservò in Italia dopo la divulgazione, nel 1802, del romanzo di Ugo Foscolo "Le ultime lettere di Jacopo Ortis". Sembra essere questo l'antenato nella moderna persuasione. Quella che viene oggi attuata con fini tutt'altro che culturali.
Sarebbe opportuna una revisione delle strutture comunicative a scopo informativo e non semplicemente spettacolare, astenendosi dal vendere le notizie come merce dissetante della brama di chiacchierare dei suicidi e della loro vita privata violata tanto spettacolarmente.