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di Vincenzo Maddaloni
Che cosa pensare? In un mondo mediatico in cui si continua a incoraggiare - a scapito di un giornalismo di informazione - un giornalismo speculativo e spettacolare che dequalifica la figura stessa del giornalista fino ad annullarla, c’è poco da pensare. Quel che incuriosisce è sapere se i giornalisti vogliono resistere all’attrattiva del gossip o se al contrario vogliono continuare ad apparire come le caricature di un settore che fa della propria crisi un titolo da prima pagina.
Ne è un esempio l’ultimo numero del The Sunday Times Magazine, che ha dedicato la copertina al Cavaliere «After the fall», «Dopo la caduta», con tanto di resoconto sulle vicende giudiziarie dell’ex premier, lo scandalo del Bunga Bunga e la sua decadenza da senatore. "Welcome, signore, to my palazzo", si legge nel sottotitolo, assieme ad alcune riconoscibilissime frasi dell'ex premier: "Fortunatamente, non ho mai dovuto pagare una donna per fare sesso". E ancora: "I've got the sun in my pocket", "Ho il sole in tasca...". Con tanto di servizio fotografico che mostra un Silvio Berlusconi sfiorito e polveroso.
Quanto basta perché la copertina e il resoconto facciano il giro del mondo o meglio dell’infosfera, il nuovo termine con il quale sulla falsariga della “biosfera” si indica con non poca supponenza, la globalità dello spazio dell’informazione.
Se così stanno le cose, non serve più che un professionista sia formato e aggiornato per poter intervenire con sicura competenza sui nodi più intricati del mondo contemporaneo. Infatti, la funzione del giornalista che prende posizione, argomenta e prova; la figura del giornalista competente che “verifica alla fonte” la si vuole condannata all’estinzione. Sicché posto che sia mai stata un categoria, la professione dei giornalisti alla quale eravamo abituati cessa di esserla ogni giorno di più.
A codicillo, ricordiamo qualche cifra per chi s’è assopito: i dieci anni di e-commerce, i dieci anni di notizie online, i cinque anni di smartphone e almeno i venti di ideologia costruita ad arte dagli intellettuali della rete, secondo i quali la partecipazione online della società civile deve limitarsi a funzioni che permettono di “esaltare” un contenuto con un plebiscito sistematico degli stati d’animo espresso da un “mi piace”. E così è cambiato un mondo e con esso anche il modo di fare informazione. Viviamo già in una nuova éra, da qualche lustro ormai. Qualcuno se ne è accorto?
Infatti, basta aprire un canale qualsiasi della televisione, anche quelle locali, per capire come la “libertà d’informazione e di critica” e “l’obbligo inderogabile del rispetto della verità sostanziale dei fatti” vengano violati di continuo. Le notizie proliferano, ma le garanzie di affidabilità sono quasi inesistenti, è sempre più difficile essere informati, è sempre più difficile capire ciò che sta accadendo perché le scarse notizie chiarificatrici quasi sempre vengono nascoste dietro un gigantesco gioco di contraddizioni.
La sensazione è di vivere in una democrazia sui generis che prospera su una mistura fatta di populismo, di tecnocrazia, di “mi piace” che stordisce lasciando spazio libero all’ambizione dei politici, dei personaggi della finanza, dei teorici, dei portaborse, di persone senza scrupoli che traggono vantaggio dalla assuefazione, dalla demoralizzazione della gente, la quale sempre meno trova conforto in un giornalismo critico e perciò informato.
Oramai è giornalista chi si qualifica tale e chi riceve dalla società il diritto di fregiarsi del titolo. Pertanto, la definizione di una identità professionale rischia di diventare solo soggettiva e quindi doppiamente relativa. Inoltre, siccome gli editori chiedono meno professionismo e più precariato, lo scenario che si va concretizzando, giorno dopo giorno, è quello di schiere di ragazzi e di ragazze impiegati “a ore” che tagliano e incollano, o vanno soavi in onda a leggere strisce di notizie riversate dalle agenzie di stampa dei regimi che si spartiscono il mondo.
Naturalmente con il supporto di squadre di editorialisti e di commentatori dai quali di volta in volta si può ottenere tutto e il contrario di tutto, considerato che sempre meno lettori e ascoltatori sono rimasti con la voglia di approfondire, e che c’è sempre più gente che s’appaga con i “mi piace” piuttosto che con la qualità dei contenuti.
Inoltre, in uno scenario di crisi economica profonda, la più grave - ricordiamolo fino alla nausea - dopo la depressione degli anni Trenta, accade che i movimenti sindacali e del lavoro non rappresentino più un’alternativa generale credibile a un capitalismo in crisi che genera la disoccupazione, la povertà, la sofferenza e la miseria di massa. Non a caso il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, dovendo immaginare in onore di chi si costruiranno statue fra un secolo, indica Lee Kwan Yew, per oltre trent’anni Primo ministro di Singapore.
Perché, spiega Sloterdijk, «è stato Lee Kwan Yew a inventare il modello che si è rivelato di grande successo e che poeticamente potremmo chiamare capitalismo asiatico: un modello economico ancora più dinamico e produttivo del nostro, poiché può fare a meno della democrazia, anzi funziona meglio senza democrazia».
Diciamo che si è su questa strada anche in Europa. In Italia fin dai tempi del governo Monti, ma anche prima. Eppure uno dei compiti prioritari della professione giornalistica è appunto quello di offrire spunti quotidiani a difesa dei principi democratici della società civile.
Basterebbe semplicemente rammentare che contro la crisi e la regressione sociale ci sono moltissimi elementi per un modello alternativo di sviluppo. Per esempio: l’alternativa alla burocrazia e al controllo dall’alto è la democratizzazione e la partecipazione dal basso. Le alternative alle crescenti disuguaglianze e alla povertà sono la ridistribuzione, la tassazione progressiva e le tutele sociali universali e gratuite. E ancora, l’alternativa all’economia della speculazione distruttiva è la socializzazione delle banche e delle istituzioni creditizie, l’introduzione di controlli sui capitali e il divieto di operare in strumenti finanziari sospetti.
La lista potrebbe essere molto più lunga. Pertanto una informazione che tace o peggio ancora che si sofferma su espedienti di richiamo di masse come «After the fall» di Berlusconi, sul gossip insomma, produce effetti devastanti poiché la società alla quale essa si rivolge si ritrova a non sapere più separare il “grano dal loglio”, dal momento che il dibattito pubblico non va oltre all’esercizio consultivo dei “mi piace” evitando ogni approfondimento, ogni chiarificazione e quindi, avallando il progressivo allontanamento del capitalismo dalla democrazia che il filosofo tedesco Peter Sloterdijk indica come la più grave minaccia per la società civile.
In buona sostanza, siamo davanti a un’evoluzione che non è imputabile esclusivamente a internet. Infatti, la storia delle tecnologie è la storia della fluidificazione dell’informazione. Si legge sui libri che proprio i giornali in formato cartaceo, nati alla fine del XVII secolo, hanno avuto un ruolo decisivo in questo procedimento, perché essi facevano circolare l’informazione molto più rapidamente dei libri in uso fino ad allora. Dopotutto, gli esseri umani aspirano a essere parte integrante di questo flusso, e a vedere in questo panta rei (in greco antico “tutto scorre”) un’occasione di protagonismo.
Ben venga dunque una informazione che dia l’impressione di essere “aggiornata” di continuo con una velocità monitorata su ogni nuova generazione di smartphone, benché Roger Penrose - il matematico che ha scritto numerosi libri dedicati all’intelligenza artificiale - non sia d’accordo. Secondo lui il problema non si pone poiché il pensiero cosciente, proprio dell’uomo, è ben diverso dagli algoritmi complessi di cui sono capaci le macchine.
Pertanto, il credere che la “tecnologia” sia il punto centrale è una illusione. Beninteso, oggi la società può valersi di tecnologie che è possibile “usare”, ma esse - lo si tenga bene a mente - sono utilizzate anche per manipolare chi le usa. L’esempio dei “social network” ne è una dimostrazione. La stessa parola usata per descriverli è mistificatoria poiché essi non hanno “nulla di sociale”, sono anzi il contrario del sociale. Essi rappresentano la condanna all’isolamento individuale.
Il problema non è questo soltanto. In un mondo in cui - lo si è detto - si sa chi trarrà maggior vantaggio da un’atomizzazione del dibattito pubblico, la domanda fondamentale che bisogna fare è: la società civile può sopravvivere senza un giornalismo di qualità? Nel momento in cui un numero sempre più grande di persone si ritrova nell’ infosfera a “leggersi” lo smartphone, si deve avere la forza di dare una risposta molto semplice: no, non se ne può fare a meno. Avremmo tutti da guadagnarne.
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di Tania Careddu
In Italia, ogni anno, fra le donne lavoratrici si verificano duecentocinquantamila eventi lesivi che ne pregiudicano l’integrità psicofisica. Alla fine del 2012 si contano novantaseimila donne ‘disabili da lavoro’. Con lesioni, soprattutto, di natura motoria, derivanti dall’impatto traumatico che caratterizza l’infortunio, con danni agli arti inferiori o superiori e alla colonna vertebrale.
Diecimila donne sono affette da disabilità di tipo psicosensoriale, vedi ipoacusia o cecità, e circa quattromila riportano lesioni di natura cardiorespiratoria, risultanti dall’effetto subdolo e prolungato dell’insorgenza della malattia professionale. E seicento donne hanno un’invalidità assoluta. L’età media delle lavoratrici coinvolte è stimata intorno ai settanta anni e il 90 per cento di loro è ultracinquantenne.
Si ammalano, in particolare, le donne del Mezzogiorno, prevalentemente in Campania, in Sicilia e in Puglia, e del Centro, in Toscana e in Umbria, dove si riscontra la maggiore concentrazione di donne disabili da lavoro, meno quelle del Nord, in Emilia Romagna e Lombardia. Quelle che lavorano nei settori industria e servizi, agricoltura e professioni sanitarie, nell’ambito delle quali le infermiere detengono il primato, sono le più colpite. Ma gli infortuni più gravi, quelli che causano i maggiori gradi di menomazione, sono quelli ‘in itinere’. Ossia, quelli che hanno luogo nel percorso casa-lavoro-casa: per le donne che lavorano, il pericolo più reale e diffuso (ne sono colpite circa cinquecento ogni anno) è rappresentato dal percorso di andata o ritorno dal lavoro perché “si può considerare il segmento temporale in cui si concentrano tutti gli stress derivanti dalle molteplici difficoltà di conciliazione lavoro-casa-famiglia con inevitabili riflessi sul piano della lucidità e concentrazione e quindi della sicurezza”.
Al di là dei grandi numeri, a contare, secondo quanto si legge nell’indagine dell’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi del Lavoro (ANMIL) ‘Tesori da scoprire: la condizione della donna infortunata nella società’, a contare è, appunto, la condizione della donna nella società dopo aver subito un infortunio sul lavoro, dimostrandosi una componente “fondamentale e solida”.
Dai dati emersi, infatti, si nota che tende a ricercare in se stessa le risorse per riprendere la propria vita quotidiana. Che continua a essere costituita dall’occuparsi della casa e della famiglia, dall’essere un punto di riferimento nell’ambito del proprio contesto famigliare, primo luogo di importanza per il processo di superamento del trauma, seguito dalla necessità di mantenere attiva e integra la sfera sociale. Ovviamente, non basta: il 42,5 per cento delle donne intervistate soffre ancora di angoscia o ansia e da qui il bisogno, per il 16,5 per cento di loro - che raggiunge il 36 per cento fra le donne sotto i cinquant’anni -, di un sostegno psicologico.
Per buona sorte, le donne infortunate non si sentono discriminate in quanto donne e, per di più, disabili. Anzi, i dati mostrano una buona integrazione nella sfera lavorativa sia nei rapporti con i colleghi sia nell’adeguamento alla (nuova)mansione professionale, anche se non può essere ignorato quel 23,5 per cento di donne che ha perso il lavoro perché spinto a licenziarsi in seguito alla persistenza di un comportamento illecito agito dai datori di lavoro che rifiutano di considerarle come una risorsa. Così come non può essere messa tra parentesi quella minoranza che, in seguito all’infortunio e con l’aumentare del grado di disabilità, subisce l’allontanamento del compagno, soprattutto fra le giovani e fra quelle del Nord, dove, però, è anche più facile costruire un nuovo rapporto sentimentale. Abbastanza autonome negli spostamenti fuori e dentro casa, facile accesso negli uffici pubblici, soprattutto nell’Italia settentrionale, e grande disponibilità fra la gente, quello che profondamente non va è la carente conoscenza e la poca consapevolezza, a prescindere dall’età, dal grado di invalidità e dall’area geografica, della proprie responsabilità e di quelle altrui riguardo al verificarsi o meno di un infortunio sul lavoro: solo il 25,5 per cento del campione, infatti, attribuisce la causa di quanto accaduto a qualcosa o a qualcun altro con un evidente ricaduta sulla propria distrazione o assenza. Manca la certezza che se le condizioni di lavoro fossero adeguate riuscirebbero a prevenire anche gli infortuni causati da distrazione.
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di Tania Careddu
Che il cohousing fosse un strategia di sostenibilità è risaputo, in Danimarca, dagli anni sessanta. Che l’Italia lo abbia ereditato, negli anni novanta, intuendone le potenzialità, pure. Che sia un piano strategico adatto ad affrontare positivamente crisi economica e mal di solitudine della terza età, invece, lo si scopre ora. In uno studio, curato dall’architetto e ricercatore del CRESME, Sandro Polci, che considerando le condizioni abitative degli anziani e abbinandole a quelle economiche, vede nel silver cohousing “una delle esperienze più innovative nel campo della residenzialità e dell’inclusione sociale.
Si tratta di uno strumento per l’approccio sistemico alle nuove forme di socialità, attraverso la costruzione e la realizzazione di comunità residenziali nelle quali i singoli soggetti collaborano, coabitano, condividono e cooperano insieme con un obiettivo comune”.
I dati parlano chiaro: la popolazione anziana è in veloce aumento, con un incremento del 155 per cento dal 1961 al 2011 e con la previsione di un incremento del 33 per cento per il 2050. La situazione economica è preoccupante giacché il 45,9 per cento dei pensionati percepisce una pensione inferiore ai mille euro mensili e un milione e rotti di loro ne ha una sotto i cinquecento euro al mese.
Arrivare alla fine del mese è un impresa, visto che l’80 per cento dell’assegno è speso per tre voci - casa, bollette, spesa. Infine, anche sul piano abitativo la situazione non è rosea: solo il 32,70 degli anziani vive da solo e in case di proprietà; nel 61,2 per cento dei casi l’abitazione ha un numero di vani superiore a quattro, è in condizioni mediocri, non ha un vero e proprio impianto di riscaldamento ed è priva di ascensore.
Va da sé che il silver cohousing è la soluzione per incrementare la capacità di spesa degli anziani, destinando le risorse rimanenti ad aumentare il loro benessere; utilizzare al meglio il patrimonio immobiliare mal distribuito; riscattare gli anziani dai problemi della solitudine, dell’isolamento e dell’esclusione, ovviando ai problemi di mancata assistenza; superare gli ostacoli legati alle cure sanitarie a favore di un’assistenza domiciliare meglio organizzata.
L’indagine Silver cohousing nasce con l’intento di “stimolare la realizzazione di un programma sperimentale che favorisca la condivisione di alloggi esistenti tra due o più coinquilini consentendo la razionalizzazione nell’uso del patrimonio immobiliare esistente, soprattutto da parte di anziani che vivono soli, che sono numerosi e in costante aumento.
L’individuazione di condizioni di razionalizzazione del patrimonio immobiliare abitato dagli anziani consente di pensare anche a un’ottimizzazione delle risorse economiche legate alla quotidianità”. Generando una “liberalizzazione delle risorse” pari a 352 euro al mese a nucleo familiare per nucleo di due anziani fino a 1.028 euro per nucleo di quattro persone. E in un range esteso, da un minimo di 422 milioni di euro fino a un massimo di 2.466 di euro.
Quanto al patrimonio immobiliare, tale politica potrebbe reimmettere sul mercato da centomila a duecentomila alloggi oggi occupati da un solo anziano e da sessantamila a centoventimila abitazioni di grandi dimensioni. Anche se “bisogna evitare che il patrimonio degli anziani venga svalorizzato e perda le caratteristiche di risorsa”.
Parola della direttrice di “Abitare e Anziani”, associazione nazionale nata con l’obiettivo di migliorare le condizioni abitative della terza età, Assunta D’Innocenzo. La quale sostiene che il silver cohousing è “una risposta possibile ma va approfondita, cioè può essere una buona strada se si formano le occasioni, ossia se le istituzioni o le associazioni possano fare da filtro e governare questo processo”.
Nel senso che, a differenza del cohousing che consente di progettare insieme la propria vita, nella accezione silver il processo è piuttosto complicato: “Sono situazioni che si devono autopromuovere, è più difficile liberare un patrimonio perché persone anziane possano andare a vivere insieme”. Però accade, anche in barba ai pregiudizi: “Due consuocere - racconta D’Innnocenzo - hanno venduto le loro rispettive abitazioni e ne hanno acquistato una insieme, vicino ai figli”.
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di Rosa Ana De Santis
Basta percorre una strada statale come la Via Salaria, a dieci minuti dal centro di Roma e dai quartieri bene, anche all’ora di cena. Le troverete appostate, in accomodamenti di fortuna ma stabili, le prostitute. La maggior parte giovanissime, poco più di adolescenti, con accento dell’est. Non di rado capita di vedere qualcuna incinta. Una signora che le organizza e qualche uomo di guardia che spunta. Infine macchine di tutti i tipi e clienti che ogni notte vanno a caccia indisturbati. Non mancano saltuariamente carabinieri e polizia municipale, ma lo spettacolo la sera successiva torna a ripetersi con assoluta tranquillità.
Il convegno in corso a Torino del Gruppo Abele sul fenomeno della prostituzione prova a tracciare un ritratto sociologico dei clienti. E’ impossibile individuare una tipologia specifica dei 2,5 milioni di uomini che pagano per il sesso da strada. Italiani, sposati ma anche stranieri e uomini soli. Sacerdoti, maschi giovani ma anche anziani e molti anche con un titolo d’istruzione alto.
Varietà assoluta della clientela che corrisponde a modalità diverse di approccio con le prostitute. Molti preferiscono le straniere schiave perché con meno potere di negoziazione nello scambio di sesso e denaro e probabilmente più soggiogabili nel rapporto sessuale.
I due grandi sottogruppi sono rappresentati da coloro che nella prostituta cercano un rapporto complementare a una relazione stabile, l’altro da uomini soli che nel sesso mercenario vedono l’unica possibilità di appagamento e l’unica chance.
Il dramma italiano è aver respinto la coscienza del fenomeno della prostituzione, aver chiuso le case delle prestazioni, aver espulso dalla norma la questione - un tipico atteggiamento di rimozione culturale made in Italy - per aver permesso di tollerarlo in modalità squallide, pericolose, ben più plateali e spesso contigue a scellerate violenze, nonché alle mafie che proliferano nell’entrata di donne schiave, di clandestine, di anonime senza documenti lasciate alla mercè dei clienti.
Come le scene dei bordelli sotto al cielo siano tollerabili nel Paese del buon costume, della famiglia, delle leggi ad alto tasso di eticità è il segno della contraddizione assoluta che attraversa il rapporto tra legge e morale in Italia. La confusione tra i valori in cui credere e la necessità di una legge che intervenga su fenomeni dilaganti e criminali come quello della prostituzione, magari anche con finalità restrittive ed educative, è da sempre materia incandescente.
Da una parte è prova di ipocrisia culturale annidata nel corredo genetico dell’italiano fintamente cattolico e di un problema mai risolto e metabolizzato rispetto al sesso e alla libertà delle donne; dall’altra un comodo alibi per i maschi fruitori dei corpi a pagamento per rimanere anonimi, non esibire un documento, non entrare nelle case del sesso e continuare indisturbati la recita dei padri di famiglia al mattino seguente.
La distinzione tra etica e morale è ciò che consente alla legge di essere valida a prescindere dai valori e disvalori di ognuno, di assicurare protezione alle vittime della tratta che sono senza dubbio l’anello più debole dell’oscena catena, ma anche alla moglie di quel cliente che rischia ogni giorno di essere contagiata dalle malattie del sesso.
Normare un fenomeno obbliga a vederlo e a prenderne atto. A inserirlo nel tessuto sociale, a condannarlo e reprimerlo anche, ma in parallelo ad educare, a prevenire, a informare. L’evoluzione morale e politica di un paese liberale non va mai avanti a colpi di esami di coscienza. E’ questa la scommessa che rischia di perdere la legge italiana sui fronti dei diritti individuali, delle scelte morali e dei valori.
Espellerli dalla legge non significa rinunciare a dire che a norma di legge è un reato acquistare sesso per strada da una ragazzina schiavizzata. Mentre non lo è entrare in una casa chiusa e comprare sesso a ore da una donna che sceglie di farlo. Il disvalore di questo secondo caso non è sovrapponibile all’immoralità e illegalità del primo. Quello scenario di macelleria squallidamente erotica che anche all’alba di oggi avrà lasciato agli angoli delle strade immondizie, rifiuti, calze, profilattici e file di bottiglie, mentre alla fermata in tanti aspettano l’autobus per andare a lavoro. O, peggio ancora, a scuola.
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di Tania Careddu
Sebbene il nostro sistema sanitario sia tra i pochi al mondo in grado di garantire gratuitamente ai cittadini un’efficace e capillare assistenza sociosanitaria, pur ammettendone una serie di criticità, in Italia dal 2006 al 2013, la povertà sanitaria, intesa come impossibilità di accesso ai farmaci, è aumentata del 97 per cento. Complice la crisi che, colpendo le famiglie, dapprima sulla capacità di acquistare gli alimenti, il vestiario, e i generi di consumo, ora mina anche quella di comprare le medicine.
A testimoniarlo, il primo Rapporto “Donare per curare” sulla donazione farmaci e povertà sanitaria, realizzato dalla Fondazione Banco Farmaceutico Onlus e da Caritas Italiana.
I numeri: le famiglie povere italiane spendono circa sedici euro al mese per acquistare i farmaci rispetto ai novantadue spesi in media dagli altri nuclei famigliari. Per colmare questa forma di povertà, la Fondazione Banco Farmaceutico ha donato 1.162.859 farmaci, le aziende 812mila confezioni e le farmacie 350mila, aiutando, solo nel corso del 2013, seicentottantamila persone. Fra le quali, quelle che fanno maggior richiesta sono le famiglie numerose, gli anziani con pensione minima, gli immigrati, soprattutto quelli irregolari. Ma anche gli italiani, la cui presenza, negli ultimi due anni, è diventata maggioritaria.
Perché, come ha dichiarato all’Agenzia Dire (che è stato il media partner della presentazione del Rapporto, avvenuta qualche giorno fa), il presidente del Banco Farmaceutico, Paolo Gradnik, “questo è un problema della popolazione italiana. Si nota che, nonostante l’aumento dell’impegno del no profit per dare il proprio contributo, si allarga la forbice tra bisogno e capacità di rispondere”. Un gap confermato anche dal presidente di Assosalute, Stefano Brovelli, il quale afferma che “il numero dei poveri è aumentato, il numero dei bisogni è aumentato e quindi occorre liberare il potenziale di donazione delle aziende che è molto alto”.
Mancando, però, una cultura formativa del privato sulla donazione dei farmaci, sarebbe indispensabile un corpo normativo unico. Che dal 2006 a oggi si è tentato, in maniera embrionale, di mettere a punto. Con il decreto legge 219 del 2006 nell’articolo 157 vengono “individuate le modalità che rendono possibile l’utilizzo, da parte di organizzazioni senza fini di lucro, di medicinali non utilizzati, correttamente conservati e in corso di validità”, con la legge 244 del 2007, introdotta poi nella Finanziaria 2008, all’articolo 2 si specifica che le residenze sanitarie, le asl e le organizzazioni no profit possono riutilizzare per i propri assistiti le confezioni di medicinali integri, in corso di validità e ben conservati.
L’ultimo atto in materia è all’esame del Parlamento e consentirebbe, se approvato, alle aziende farmaceutiche di donare quei farmaci integri e pronti da consegnare che sono sottratti al circuito commerciale per diverse futili ragioni.
E Perciò, sostiene Gradnik, siccome “in alcuni casi si tratta di vera emergenza, è quanto mai urgente che la commissione Sanità del Senato approvi in via definitiva la proposta di legge che consentirebbe la donazione di farmaci da parte delle aziende farmaceutiche.
E’ ora che la politica dia segnali concreti sul fronte della povertà sanitaria”. Una condizione, questa, che muove necessariamente da una premessa intercettata già nel 2003 da un’indagine, volta a esplorare il legame tra povertà e accesso ai servizi sanitari, che ha preso il via a seguito della firma di un protocollo d’intesa tra la Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (FIMMG) e la Caritas Italiana.
E cioè che i gruppi sociali maggiormente svantaggiati, vedi i giovani, le donne, i malati cronici, i detenuti, gli immigrati, coloro che commercializzano il proprio corpo a scopi sessuali, i rimpatriati, presentano peggiori condizioni di salute rispetto alla popolazione ricca, con un indice di mortalità più alto, causa gli stili di vita, le condizioni poco favorevoli di lavoro, i fattori ambientali, la scarsa dotazione di risorse materiali. Le uniche a cui attingere: i medicinali donati gratuitamente. Forse.