di Rosa Ana De Santis

Beth Whaanga è una giovane madre di quattro figli, australiana e protagonista di una campagna di sensibilizzazione sul cancro. Ha posato coraggiosamente con i soli slip,  per una gallery, realizzata dall’amica fotografa Nadia Masott, dal titolo “Sotto il vestito rosso”. Non si definisce sopravvissuta al cancro, ma dichiara di aver scelto la prevenzione per difendersi dalla malattia. Il caso di Beth ricorda infatti, per alcuni versi,  quello della nota Angelina Jolie.

Con una diagnosi di cancro al seno, una predisposizione genetica accertata Beth ha scelto di mostrare le sue nudità e le cicatrici di una mastectomia bilaterale, di una ricostruzione plastica e di un’isterectomia o, per meglio dire, annessiectomia che avrebbe scelto per le ragioni di rischio genetico accertate.

Le sue immagini, esplicite nell’evidenziare i segni dell’impatto chirurgico, hanno colpito duramente il mondo del web. Beth ha perso, scatenando l’ira dei suoi contatti più vicini, ben cento amici sulla propria pagina Fb, ma le immagini sono state condivise ben 150 mila volte e ottenuto 450 mila contatti. Un successo di diffusione che hanno convinto la giovane mamma a non mollare.

La scelta di Beth richiama senza dubbio una serie di sentimenti e una psicologia decisiva nella battaglia contro il cancro, soprattutto quello al seno che ha portato spesso le donne nel passato, ma anche oggi, a vergognarsi della propria malattia e del proprio corpo trasformato dalle terapie e dalla chirurgia. Nel contesto della sensibilizzazione le foto di un corpo così provato possono  avere effetti collaterali sulla sensibilità comune, tali da portare le persone a rifiutare ogni tipo di conoscenza e ogni forma di prevenzione. La chirurgia plastica oggi consente alle donne di ritrovare, dopo una fase ricostruttiva transitoria – variabile da persona  a persona – o addirittura contestuale all’intervento di mastectomia, l’integrità e la pienezza delle proprie forme femminili. L’asportazione delle ovaie inoltre, in una certa fase della vita ancor di più se decisa in via preventiva, può avere effetti psicologici ridotti e avvenire con tecniche laparoscopiche e micro invasive. Questo forse andrebbe valorizzato e documentato più di quanto sia stato fatto finora.

Il corpo di Beth sembra, da quel che le foto mostrano, un corpo non ancora “guarito” dalla chirurgia e non restituisce quindi un’immagine incoraggiante di “post malattia”. Forse è questo l’aspetto più scandaloso e insieme discutibile della campagna fotografica. Raccontare una storia di cancro, di vittoria, o una storia di chirurgia preventiva per rischio genetico significa voler lanciare un messaggio di coraggio e testimoniare una vittoria, nonostante il peso della battaglia. In queste foto è più visibile la battaglia che non la nuova Beth. Una scelta che non basta però a risolvere e giustificare le reazioni degli amici Facebook. Quelli che fino a ieri avranno postato sul suo profilo foto banali di gite al parco o di birre serali, frasi pseudo filosofiche o il menu dei propri gusti musicali o cinefili. Proprio questi sono quelli che hanno condannato Beth. Gli stessi che non si scandalizzano magari per chi mostra nel proprio profilo nudità esibite con velleità seduttive e provocanti.

Questa è la nota amara sulla storia. Una donna che sceglie di presentarsi con le proprie ferite, pagando il pegno di perdere in sex appeal pur nella sua giovane età, nella sinuosità di un corpo snello e nella bellezza di un volto intatto.  Una scelta che può non essere condivisibile nella sua efficacia, ma che racconta la verità di una vita. L’unica cosa che, evidentemente,  non è titolata ad esistere troppo nella cerchia degli amici virtuali di Facebook. Quelli che magari condividono ogni giorno chiacchiere, commenti e opinioni su ogni amenità. Purché nulla sia troppo vero e reale come quella foto di battaglia e quell’amazzone di nome Beth. La loro amica.

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