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di Carlo Musilli
Se vuoi catturare l’attenzione di qualcuno, parlare di sesso è un metodo infallibile. Di solito vanno bene anche le altre tre esse magiche (sport, sangue e soldi), ma la potenza comunicativa del coito e dei suoi derivati non teme rivali. Il teorema è perfettamente dimostrato dall’attenzione che media e pubblico hanno dedicato nelle ultime settimane all’inchiesta sulle baby-squillo dei Parioli.
Eppure, nell’approccio alla vicenda romana sembra esserci anche qualcosa di più raro. Stavolta a suscitare buona parte dello sdegno, o piuttosto del prurito mascherato da sdegno, non sono state soltanto le prostitute-bambine, ma anche le loro origini, il fatto che siano dei Parioli, uno dei quartieri più ricchi della Capitale.
La continuità e l’attenzione con cui si analizza questa storia non si spiegano esclusivamente con la morale o il moralismo, né basta chiamare in causa il gusto morboso e voyeur dello spettatore-lettore (nessuno escluso). Non è neppure il coinvolgimento del marito di Alessandra Mussolini, la quale - una delle poche volte che andrebbe lasciata in pace - viene attaccata da chi scorda il concetto di responsabilità penale individuale (e che probabilmente taccerà di filofascismo chi oserà ricordarglielo).
Certo, si ricorda come la stessa Mussolini propose la castrazione chimica per i pedofili, senza immaginare che un giorno suo marito avrebbe fatto parte della categoria. Ma per quanto indiretto, l’ingresso nel racconto di un nome noto non è stato altro che un surplus utile a tenere alta la notizia. Ma è arrivato dopo. Ha aumentato l’appeal della cronaca, non l’ha generato.
Tutti questi elementi hanno avuto un peso nella risonanza assicurata all'inchiesta, ma vale la pena di concentrarsi su un altro fattore ancora, quello socio-economico. Com'è ovvio, a nessuno viene in mente di sminuire né tento meno di mettere in dubbio la vergogna e la drammaticità di quanto è successo. Non esiste nulla di più infame di un racket di minori, è ovvio. Cambiare prospettiva è però lecito, e forse per un attimo conviene distogliere l'obiettivo dai fatti e rivolgerlo verso noi che li guardiamo.
Di indagini sullo sfruttamento della prostituzione, minorile e non, sono pieni i tavoli delle procure e dei commissariati d’Italia. Eppure, la maggior parte dei reati non fa notizia, o quantomeno non suscita particolari clamori. Cos’ha allora di speciale la storiaccia dei Parioli? Le ragazzine coinvolte sono italiane e provengono da quella che in gergo borghese si definisce una buona famiglia; il luogo dove si organizza e si consuma l'affaire è il quartiere bene per eccellenza, il santa santorum dei benpensanti conservatori; i clienti sono professionisti e colletti bianchi, non i soliti dei vialoni della periferia a caccia di schiave a basso costo. Il primo criterio, quello della condivisione della nazionalità, è il più scontato in termini giornalistici. A meno di non volersi produrre in odiose ipocrisie, bisogna riconoscere che se le vittime fossero state romene, cinesi o mozambicane non avrebbero suscitato la stessa attenzione.
Per lo stesso principio, se domani affondasse una nave con dentro 100 stranieri e un italiano, tg e giornali parlerebbero prevalentemente - o quasi esclusivamente - del nostro connazionale. "E' la stampa, bellezza", diceva Bogart.
Il secondo criterio implica una distinzione ulteriore basata sul censo e sullo status sociale, meno evidente nelle cronache di tutti i giorni. Chiunque conosca Roma sa che il "pariolino" è un tipo sociale ben definito, oggetto di studi antropologici da bar. I suoi tratti principali sono semplici: un po' snob e un po' cafonal, figlio di professionisti, imprenditori o politici, tendenzialmente di una destra perbenista e conservatrice, attaccato a status symbol modaioli e ostentatamente costosi.
Naturalmente non tutti gli abitanti dei Parioli sono così e forse non lo sono nemmeno le persone coinvolte nel caso di cronaca, ma lo stereotipo esiste ed è ben radicato nella Capitale. E' in questo microcosmo di cartapesta che la storia delle baby squillo è esplosa, sbandierando la depravazione che si nasconde in casa di quelli che ben pensano, dimostrando che queste cose succedono anche fra le persone ricche, o che sembrano ricche, o che avrebbero dovuto essere ricche.
E' sbagliato supporre che in questa presa di coscienza si possa celare un po' di compiacimento? Forse. Ora però facciamo uno sforzo di fantasia: immaginiamo la reazione di media e pubblico se la stessa storia fosse stata ambientata a San Basilio o a Tor Bella Monaca. Sicuri che non sarebbe cambiato nulla?
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di Rosa Ana De Santis
Il caso di questa coppia è solo l’ultimo di una lunga serie di casi giudiziari che hanno sollevato accuse e dubbi di costituzionalità sulla legge 40. Ma nella storia di questa coppia che prova ad avere un figlio pur essendo la donna potatrice di una grave anomalia genetica c’è anche la legge 194, la sua applicabilità, metodi e procedure, medici obiettori e discriminazione di fatto. Nei giorni delle quote rosa, delle camicie bianche delle deputate forse è opportuno che una riflessione culturale sull’eguaglianza e il diritto di genere vada oltre la banale, forse necessaria, aritmetica della rappresentanza parlamentare.
E’ il 2010 e siamo all’ospedale Pertini di Roma quando Valentina, dopo già numerose gravidanze a rischio e non proseguite naturalmente, ottiene il referto dell’analisi dei villi coriali dell’ultima e scopre che il feto ha gravissime malformazioni. Chiede quindi l’aborto terapeutico, essendo oltre i tre mesi standard previsti dalla legge 194. Valentina racconta di un aborto avvenuto in bagno, senza assistenza medica, dopo 15 ore di dolori lancinanti, vomito e di un parto della morte avvenuto alla presenza del marito. I medici presenti, tutti obiettori, avrebbero avuto il diritto, va così in Italia, di esercitare un autentico abbandono terapeutico in nome di propri giudizi di valore sulla vita.
Sul caso si è espressa anche l’Associazione Coscioni evidenziando un vero e proprio reato di omissione di soccorso. Ma di fatto l’obiezione di coscienza ammessa nelle strutture pubbliche, una contraddizione fortissima con la norma che riconosce il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, può generare situazioni di questo tipo - almeno finché gli obiettori non andranno ad esercitare in strutture private e religiose - e le percentuali ci dicono che accade più di frequente di quanto non si creda. In alcune regioni il diritto all’aborto è di fatto nella pratica difficilissimo e inesistente.
Come se fosse una pena da espiare per la donna che vi ricorre, come se dietro quella scelta non ci fosse, per i casi più disparati, il diritto - sancito per legge peraltro - a scegliere la maternità che è cosa ben diversa dall’accadimento naturale e basta del rimanere incinta. Valentina e suo marito non hanno denunciato l’ospedale e oggi viene loro impedito di accedere alla fecondazione assistita come stabilita nella legge 40 - perché non la coppia ha problemi di fertilità, ma di salute - cosi come viene negata la diagnosi pre impianto con selezione degli embrioni sani.
La legge colabrodo ha collezionato emendamenti ed è stata di fatto sconfessata da Strasburgo e dai tribunali cui si sono rivolte molte coppie. L’allargamento alle coppie fertili ma portatrici di sindromi genetiche ereditarie, la diagnosi pre impianto rappresentano le vittorie giuridiche che imporrebbero una rivisitazione complessiva del testo della norma che però, come tutta la giurisprudenza italiana sulla bioetica, fatica a trovare posto nell’agenda di governo per limiti di metodo e per resistenze moralistico-culturali.Altro discorso è la legge 194, la cui applicabilità è messa a rischio da un’obiezione di coscienza deregolamentata che di fatto pone il diritto di libertà individuale di una donna in subalternità a quello di una deontologia professionale. Ipotetica e strumentale, peraltro, in diversi casi che vedono medici obiettori in ospedale e abortisti nelle cliniche private. Ma la supremazia dell’obiezione sulla legge diventa supremazia di un diritto su un altro.
Una supremazia che così restituisce un’idea vuota e inefficace della libertà delle donne e della loro autonomia di vita nel tessuto sociale del paese. L’aborto come la nascita di un figlio non rappresentano materia di legge, ma pensiero morale. E nessuna scelta morale può essere risolta interamente alla norma, che ha il solo compito di arginarla e tutelarla, alla sua infrazione o alla sua pena.
Esiste un fondamento di libertà da salvaguardare affinché ogni scelta, morale o immorale, rimanga tale. Senza libertà non vi è possibilità alcuna di pensare qualcosa di giusto. Dovrà cominciare a valere anche per le donne. Anche per le donne che vogliono o non vogliono diventare mamme. Anche per Valentina che non vuole mettere al mondo coscientemente un figlio ammalato grave. E per un’altra Valentina che invece vorrà farlo.
Passa dalla libertà di scelta una società giusta. Una che non saprebbe più che farsi di scenografiche quote rosa o di totalitarie dottrine di coscienza di pochi che obiettano la loro contro quella di tanti. Più spesso di tante.
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di Rosa Ana De Santis
E’ di qualche giorno fa la notizia della maxi multa a Novartis e La Roche, entrambe in Big Pharma, per aver occultato un farmaco low cost a vantaggio di uno identico ma molto più costoso. La multa comminata dall’Antitrust è di 180 milioni di euro. Grazie a questa operazione congiunta tra i due colossi farmaceutici moltissimi ammalati, sia del sistema sanitario pubblico che a carico di assicurazioni private, sarebbero stati costretti a rinunciare alle cure.
Si chiamano Avastin e Lucentis, e il loro principio attivo - grazie alla scoperta di un ricercatore italiano Napoleone Ferrara - è il medesimo. Con Avastin utilizzato per tumori molto gravi, con Lucentis per combattere la maculopatia senile. Avastin si vende a massimo 80 euro, Lucentis oltre i 900.
Le due aziende decidono di fare cartello con un meccanismo di partecipazioni per ostacolare la diffusione di Avastin per la cura delle patologie oculari più diffuse tra gli anziani. La Roche, infatti, non avrebbe registrato Avastin come farmaco per i disturbi della vista e avrebbe agevolato quindi la commercializzazione di Lucentis, incassando parte dei profitti. L’azione dietro le quinte sarebbe stata accompagnata da una sponsorizzazione del farmaco costoso, procurando allarme e confusione tra i pazienti e alla resa dei conti un aumento dei costi vertiginoso per il sistema sanitario pubblico.
Non è certamente la prima volta che lo scandalo dei farmaci generici occultati per speculazioni economiche investe le case farmaceutiche. Eclatante il caso e l’ultima vittoria del governo indiano contro Big Pharma e in modo particolare con Novartis per la questione dei brevetti. L’India, non a caso considerata la farmacia del Sud del mondo, incassò una grande successo sul farmaco antitumorale Glivec.
Nessuno sarà cosi ingenuo da ritenere che le case farmaceutiche debbano comportarsi come associazioni missionarie di cura, ma certamente profitti e guadagni non possono essere del tutto deregolati, sia perché si tratta di farmaci e salvavita e non di prodotti qualsiasi, sia perché esiste un tema di libertà di ricerca scientifica. Il conflitto tra diritto alla salute e proprietà intellettuale, quindi la guerra sui brevetti, è ciò che finora ha consentito alle case farmaceutiche di considerare legittimo un vero e proprio impero industriale che potesse prevaricare il diritto alla salute e anche la libertà di ricerca.
L’ultima vicenda Antitrust non fa che ribadire l’illiceità di alcune manovre speculative che danneggiano tanto il diritto di cure delle persone, quanto la garanzia della libertà di ricerca che può mettere qualsiasi scienziato in qualsiasi laboratorio del mondo nelle condizioni di arrivare ad un farmaco equivalente e low cost.La vicenda giudiziaria avrà il suo corso e i due nomi illustri hanno preparato già il ricorso. Nel frattempo numerosi pazienti potranno sapere che Avastin può curarli tanto quanto l’altro e lo scoop sul caso sarà servito intanto a ripristinare una buona e corretta informazione. Perché è questo l’altro amaro capitolo della vicenda. Cosa, in nome dei guadagni di questi colossi, viene raccontato.
In che modo il diritto all’informazione è salvaguardato per garantire una scelta libera e consapevole da parte dei pazienti e di chi ci cura. E cosa viene taciuto non soltanto sul caso dei farmaci low cost, ma magari su effetti collaterali e pericoli di medicine che per le stesse ragioni di profitto indisciplinato devono essere vendute a tappeto.
Il primato del profitto, se lasciato indisturbato e senza controllo, può arrivare ad orrori di questo tipo. E’ accaduto in occidente con farmaci ritirati poi dal mercato, accade più spesso di quanto non si creda nei Paesi in via di sviluppo. Accade che se le medicine diventano affari tra titani il diritto alla salute diventa solo materia di polemica per qualche romantico della morale.
C’è invece un serissimo problema di accesso alle cure e di trasparenza delle stesse che deve diventare oggetto di attenzione da parte della politica e sarà ancora una volta questa necessaria supremazia della legge sui numeri a garantirci se non la verità su tutto, almeno un po’ più di giustizia.
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di Rosa Ana De Santis
Il caso di Ventimiglia ricorda quello delle altre baby prostitute del quartiere Parioli della Capitale. Questo era stato un business già meglio organizzato: una banda di papponi, un listino con percentuali fissate, un appartamento per gli incontri.
Le due studentesse della Provincia di Imperia, hanno 14 e 15 anni, e il loro mese da prostitute è stato del tutto auto organizzato, con una semplicità e normalità che forse rappresenta il dato più allarmante della storia. Vengono da famiglie “normali” e per loro stessa ammissione, davanti a chi le interroga, dicono che “nulla è mai mancato” dentro casa. I guadagni delle prestazioni sessuali non protette da alcuna contraccezione – cosi pare fossero preferite – sono servite per fare shopping, mentre le foto hot su wapp per ricaricare il telefono cellulare.
Il primo cliente è un giovanotto sbarbato e dall’aria perbene. L’appuntamento è nell’auto del cliente in un parcheggio appartato. Una ragazza seduta accanto al posto di guida, l’altra sul sedile posteriore. Si turnano e decidono di fare tutto rimanendo insieme e vicine per darsi coraggio. Un elettricista, un idraulico, un quarantenne sposato e padre. Poi uno da cui fuggono perché troppo anziano che le martella di messaggi. E infine quel cliente, l’ultimo che le guarda in faccia e vede due bambine e decide di denunciare tutto preso da un senso autentico di vergogna, di colpa o di paura. Chissà.
I commenti sul caso, gli esperti della psicologia scesi sul campo, puntano il dito sulle famiglie smembrate e assenti, sulla società vuota, sul potere insidioso dei mass media e la libertà “sbagliata” dei giovani. C’è questo, ma non solo questo. E’ il tema del sesso e della sua gestione che, totalmente disatteso nel processo educativo dei figli da scuola e famiglia e consegnato al web e alle tv ludiche, sta portando effetti collaterali pericolosi. Conseguenze che un tempo non esplodevano per quei retaggi culturali, moral-religiosi e familiari che oggi invece sono saltati per cambiamenti di ordine economico e quindi sociologico.
I programmi scolastici italiani hanno del tutto disatteso l’importanza di educare i giovanissimi alla sessualità, sia su quei comportamenti necessari a tutelare la propria salute e fertilità, sia per l’acquisizione di una certa consapevolezza psicologica ed emotiva necessaria per una vita sessuale consapevole e non mercificata. Si è passati dalla stagione della verginità e dalla negazione della sessualità per ragioni religiose o per semplice eredità culturale di ascendenza cattolica, all’assoluta mercificazione del corpo e al depauperamento delle funzioni sessuali come atti di sentimento e di rilievo psicologico. Una sorta di alienazione meccanica che ha esposto i ragazzi, anche quelli che provengono da contesti di non disagio sociale, ad essere all’apparenza più liberi e protagonisti e in verità più vulnerabili e molto meno consapevoli di ciò che fanno. La diffusione di alcune malattie a trasmissione sessuale che erano scomparse da decenni, come la sifilide e la gonorrea e le gravidanze tra giovanissime, ne sono una conferma.
L’Italia paga il prezzo di essere vittima della sua ancestrale cultura sessuofobica, di cui la Chiesa ha enormi responsabilità culturali. Se un tempo però bastava non parlarne per salvare le apparenze perché sussistevano dei protettivi di ordine sociale e familiare per quanto odiosi: ci si sposava presto e di solito una volta, le donne avevano un ruolo del tutto interno al nucleo familiare, si iniziava più tardi la vita sessuale per paura dei padri (sempre più le donne dei maschi); oggi questi deterrenti non esistono più e la famiglia, anche perché minacciata dalla crisi economica e disgregata dai nuovi modelli di lavoro e consumo, è meno capace non tanto di controllare, come accadeva un tempo, ma anche di avere tempo e modo di educare.
Non parlarne più e confidare che i ragazzi sappiano tutto aiutati da tecnologie e cultura del “gruppo”, significa consegnare i figli e le figlie ai lupi. Gli stessi di ieri che però oggi non devono fare la fatica di convincere: basta comprare.
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di Rosa Ana De Santis
Beth Whaanga è una giovane madre di quattro figli, australiana e protagonista di una campagna di sensibilizzazione sul cancro. Ha posato coraggiosamente con i soli slip, per una gallery, realizzata dall’amica fotografa Nadia Masott, dal titolo “Sotto il vestito rosso”. Non si definisce sopravvissuta al cancro, ma dichiara di aver scelto la prevenzione per difendersi dalla malattia. Il caso di Beth ricorda infatti, per alcuni versi, quello della nota Angelina Jolie.
Con una diagnosi di cancro al seno, una predisposizione genetica accertata Beth ha scelto di mostrare le sue nudità e le cicatrici di una mastectomia bilaterale, di una ricostruzione plastica e di un’isterectomia o, per meglio dire, annessiectomia che avrebbe scelto per le ragioni di rischio genetico accertate.
Le sue immagini, esplicite nell’evidenziare i segni dell’impatto chirurgico, hanno colpito duramente il mondo del web. Beth ha perso, scatenando l’ira dei suoi contatti più vicini, ben cento amici sulla propria pagina Fb, ma le immagini sono state condivise ben 150 mila volte e ottenuto 450 mila contatti. Un successo di diffusione che hanno convinto la giovane mamma a non mollare.
La scelta di Beth richiama senza dubbio una serie di sentimenti e una psicologia decisiva nella battaglia contro il cancro, soprattutto quello al seno che ha portato spesso le donne nel passato, ma anche oggi, a vergognarsi della propria malattia e del proprio corpo trasformato dalle terapie e dalla chirurgia. Nel contesto della sensibilizzazione le foto di un corpo così provato possono avere effetti collaterali sulla sensibilità comune, tali da portare le persone a rifiutare ogni tipo di conoscenza e ogni forma di prevenzione. La chirurgia plastica oggi consente alle donne di ritrovare, dopo una fase ricostruttiva transitoria – variabile da persona a persona – o addirittura contestuale all’intervento di mastectomia, l’integrità e la pienezza delle proprie forme femminili. L’asportazione delle ovaie inoltre, in una certa fase della vita ancor di più se decisa in via preventiva, può avere effetti psicologici ridotti e avvenire con tecniche laparoscopiche e micro invasive. Questo forse andrebbe valorizzato e documentato più di quanto sia stato fatto finora.Il corpo di Beth sembra, da quel che le foto mostrano, un corpo non ancora “guarito” dalla chirurgia e non restituisce quindi un’immagine incoraggiante di “post malattia”. Forse è questo l’aspetto più scandaloso e insieme discutibile della campagna fotografica. Raccontare una storia di cancro, di vittoria, o una storia di chirurgia preventiva per rischio genetico significa voler lanciare un messaggio di coraggio e testimoniare una vittoria, nonostante il peso della battaglia. In queste foto è più visibile la battaglia che non la nuova Beth. Una scelta che non basta però a risolvere e giustificare le reazioni degli amici Facebook. Quelli che fino a ieri avranno postato sul suo profilo foto banali di gite al parco o di birre serali, frasi pseudo filosofiche o il menu dei propri gusti musicali o cinefili. Proprio questi sono quelli che hanno condannato Beth. Gli stessi che non si scandalizzano magari per chi mostra nel proprio profilo nudità esibite con velleità seduttive e provocanti.
Questa è la nota amara sulla storia. Una donna che sceglie di presentarsi con le proprie ferite, pagando il pegno di perdere in sex appeal pur nella sua giovane età, nella sinuosità di un corpo snello e nella bellezza di un volto intatto. Una scelta che può non essere condivisibile nella sua efficacia, ma che racconta la verità di una vita. L’unica cosa che, evidentemente, non è titolata ad esistere troppo nella cerchia degli amici virtuali di Facebook. Quelli che magari condividono ogni giorno chiacchiere, commenti e opinioni su ogni amenità. Purché nulla sia troppo vero e reale come quella foto di battaglia e quell’amazzone di nome Beth. La loro amica.