di Rosa Ana De Santis

L’Osservatorio romano sulle migrazioni, del centro studi Idos con la collaborazione della Caritas di Roma, Roma capitale, provincia di Roma e regione Lazio, conta i numeri di una crisi che colpisce in modo anomalo la popolazione degli immigrati. Il focus del lavoro è sul Lazio e su Roma, un terreno ancora sotto scacco della crisi economica. Il numero degli immigrati occupati è rimasto molto alto: 175.757 a Roma e 244.867 in provincia e soprattutto, nel complesso, rimane più alto di quello degli italiani.

Parliamo quasi sempre di lavori poco qualificati e di rapporti precari: i famosi mestieri che a quanto pare gli italiani prima non hanno voluto fare più e poi non hanno potuto fare più per colpa di una “cattiva competizione” al ribasso della manodopera.

C’è anche una quota, decisamente più piccola, di imprenditoria in mano straniera che, a differenza di quella italiana, è cresciuta di circa il 12%. In testa il Bangladesh, seguito dalla Romania e in crescita la presenza di donne. Redattore Sociale, nel presentare questo studio, valorizza anche molto il ruolo delle associazioni di stranieri che prestano opera di sostegno e supporto informativo per le comunità di immigrati e quindi anche per le attività economiche intraprese con un ostacolo di burocrazia e procedure che diventa ancor più pesante, quando non incomprensibile,  per i non italiani.

I numeri servono a restituirci diversi spunti di riflessione. Che l’immigrazione non è tutta fatta di persone che rimangono senza occupazione: persone marginalizzate e contigue alla criminalità, come la cronaca spesso tende a suggerire. Che gli stranieri hanno occupato quote di mercato occupazionale che erano state trascurate dagli italiani, eredi dell’opulenza e del benessere pre crisi. Ci dicono infine che la crisi economica, come ciclicamente avviene, genera un rinnovamento della società che va oltre il dato meramente finanziario e misurabile.

L’Italia che si sveglierà da questi anni bui, sarà, inesorabilmente, un’Italia diversa. La fotografia di Roma e Lazio potrebbe non essere perfettamente calzante su altri territori nazionali, ma nel Nord, nelle fabbriche, l’impiego dei lavoratori stranieri, specialmente nell’edilizia, non è una novità. Cosi come nell’agricoltura e nelle raccolte stagionali al Sud, dove i lavoratori sono quasi tutti africani.

Esiste però un altro punto di vista dell’analisi che è fatto di abusi, violazione di diritti, rapporti a nero senza tutele e molto altro in cui malavita e italiani contrari agli immigrati ( solo nelle urne s’intende) si sono uniti in un’opera a tappeto di sfruttamento.

Da una parte quindi la crisi ha offerto braccia di lavoratori e opportunità di lavoro, dall’altra non è corrisposta una crescita adeguata di sensibilità culturale all’integrazione e quindi di diritto. Per questo si è temporeggiato indecentemente sul concetto di cittadinanza, non rendendosi conto che quella di sangue toglierebbe questo diritto a molti italiani che identità etnica - per fortuna - non ce l’hanno. Per questo si è optato per la criminalizzazione della clandestinità.

Perché in questo modo tenere i lavoratori stipati nei capannoni di una Rosarno d’Italia fosse ancor più semplice per la malavita. Perché la paura rendesse più facile la schiavitù. Come quella delle giovanissime lungo le strade. Perché gli italiani potessero prendersela con i gommoni per la loro povertà e non con le politiche rigoriste e le banche. Perché Facebook continuasse a ospitare i profili dei razzisti d’Italia senza che nessuno morisse di vergogna.

di Tania Careddu

Industria farmaceutica italiana: leader in Europa, seconda solo alla Germania, è uno dei più potenti motori della nostra economia ed è tra i settori che, storicamente, ha attratto i più alti tassi di investimenti esteri. Di più: attualmente, negli ultimi sette anni, è anche il mercato di maggior interesse delle organizzazioni criminali. Con un guadagno pari a diciotto milioni e rotti di euro recuperati con il furto di farmaci dagli ospedali.

E’ quanto emerge da un’analisi, “The theft of medicines from Italian hospitals”, la più documentata a livello europeo, effettuata dal centro Transcrime di Università Cattolica di Milano – Università di Trento, che ha registrato il numero di furti di farmaci riportati dai media dal 2006 al 2013: sessantotto casi, cioè un ospedale su dieci è stato vittima di un furto, subendo una perdita media, per ogni furto, di circa trecentotrentamila euro.

Distribuiti su tutto il territorio nazionale ma soprattutto nelle regioni affacciate sull’Adriatico, i furti avvengono, in particolare, in Campania e in Puglia, seguite dal Molise, e al Centro-Nord, nel Lazio, in quota maggiore in Lombardia e in Friuli Venezia Giulia. Sono più frequenti di notte, per la minore concentrazione di attività ospedaliere e per il ridotto numero di personale in sede, e nei mesi più freddi, fra ottobre e marzo, perché le condizioni climatiche sono più favorevoli per il trasporto, evitando i rischi di danni legati alle alte temperature. Gli ospedali più grandi, sopra gli ottocento posti letto e con un maggior numero di discipline (sopra le ventuno) sono quelli più colpiti: vedi il Federico II di Napoli e il Cardarelli di Campobasso.

I farmaci più appetibili sono quelli più costosi, tipo gli antitumorali, gli immunosoppressori, gli antireumatici e i biologici. Sarebbero i medicinali di Classe H, interamente rimborsati dallo Stato (italiano), che finiscono sul mercato illegale nazionale o, più facilmente, estero, in Paesi caratterizzati da un sistema sanitario più carente del nostro dove l’approvvigionamento interno dei medicinali non è sufficiente, come quello dell’Est Europa, o da difficoltà ad accedere ai canali legali, dove la crisi economica ha ridotto il budget di rimborso dei farmaci, come avviene in Grecia. Quindi, “ripuliti” tramite società schermo registrate all’estero, rientrano nel mercato legale parallelo per essere esportati in Paesi caratterizzati da più alti margini di profitto o venduti di nuovo a grossisti o broker farmaceutici italiani.

Nonostante la tracciabilità dei farmaci italiani, soprattutto di quelli di Classe H che, dal 2010, sono più strettamente monitorabili grazie a un nuovo sistema di tracciabilità e nonostante si ammetta una frammentazione del settore del trasporto che lo rende certamente più vulnerabile, tutto fa pensare, però, che per effettuare così facilmente questo tipo di furti ci debba essere una efficiente organizzazione, una vasta conoscenza e avanzate competenze che non possono prescindere dalla collaborazione di “operatori” del settore, vedi grossisti, compagnie di trasporto, dottori, che possono, per esempio, fornire indicazioni precise sulla struttura ospedaliera o sugli orari.

Una complicità confermata anche dal fatto che le irruzioni avvengono o forzando le porte o, in un episodio su quattro, senza rompere niente.

Un fenomeno, questo dei furti di farmaci negli ospedali, ignorato e sottostimato ma in rapida espansione per diversi motivi: le medicine sono beni essenziali, non facilmente sostituibili e con un’ampia base di fruitori; la domanda, oltre a essere anelastica, è in continua crescita per l’aumento dell’età della popolazione, per gli stili di vita e per i redditi più elevati che permettono una maggiore possibilità di accedere ai medicinali; l’alto valore commerciale dei farmaci, specialmente di alcuni; la difficile reperibilità causata dalle caratteristiche del sistema sanitario di qualche Paese e dallo stretto controllo con cui sono prescritti dai medici; infine, per la loro specifica conformazione - piccoli e leggeri - possono essere facilmente nascosti e trasportati. Allora perché non abbandonare attività illecite più rischiose e ingombranti e dedicarsi a questo più agevole e lucroso mercato? Tutta salute…

di Carlo Musilli

Se vuoi catturare l’attenzione di qualcuno, parlare di sesso è un metodo infallibile. Di solito vanno bene anche le altre tre esse magiche (sport, sangue e soldi), ma la potenza comunicativa del coito e dei suoi derivati non teme rivali. Il teorema è perfettamente dimostrato dall’attenzione che media e pubblico hanno dedicato nelle ultime settimane all’inchiesta sulle baby-squillo dei Parioli.

Eppure, nell’approccio alla vicenda romana sembra esserci anche qualcosa di più raro. Stavolta a suscitare buona parte dello sdegno, o piuttosto del prurito mascherato da sdegno, non sono state soltanto le prostitute-bambine, ma anche le loro origini, il fatto che siano dei Parioli, uno dei quartieri più ricchi della Capitale.

La continuità e l’attenzione con cui si analizza questa storia non si spiegano esclusivamente con la morale o il moralismo, né basta chiamare in causa il gusto morboso e voyeur dello spettatore-lettore (nessuno escluso). Non è neppure il coinvolgimento del marito di Alessandra Mussolini, la quale - una delle poche volte che andrebbe lasciata in pace - viene attaccata da chi scorda il concetto di responsabilità penale individuale (e che probabilmente taccerà di filofascismo chi oserà ricordarglielo).

Certo, si ricorda come la stessa Mussolini propose la castrazione chimica per i pedofili, senza immaginare che un giorno suo marito avrebbe fatto parte della categoria. Ma per quanto indiretto, l’ingresso nel racconto di un nome noto non è stato altro che un surplus utile a tenere alta la notizia. Ma è arrivato dopo. Ha aumentato l’appeal della cronaca, non l’ha generato.

Tutti questi elementi hanno avuto un peso nella risonanza assicurata all'inchiesta, ma vale la pena di concentrarsi su un altro fattore ancora, quello socio-economico. Com'è ovvio, a nessuno viene in mente di sminuire né tento meno di mettere in dubbio la vergogna e la drammaticità di quanto è successo. Non esiste nulla di più infame di un racket di minori, è ovvio. Cambiare prospettiva è però lecito, e forse per un attimo conviene distogliere l'obiettivo dai fatti e rivolgerlo verso noi che li guardiamo.

Di indagini sullo sfruttamento della prostituzione, minorile e non, sono pieni i tavoli delle procure e dei commissariati d’Italia. Eppure, la maggior parte dei reati non fa notizia, o quantomeno non suscita particolari clamori. Cos’ha allora di speciale la storiaccia dei Parioli? Le ragazzine coinvolte sono italiane e provengono da quella che in gergo borghese si definisce una buona famiglia; il luogo dove si organizza e si consuma l'affaire è il quartiere bene per eccellenza, il santa santorum dei benpensanti conservatori; i clienti sono professionisti e colletti bianchi, non i soliti dei vialoni della periferia a caccia di schiave a basso costo.

Il primo criterio, quello della condivisione della nazionalità, è il più scontato in termini giornalistici. A meno di non volersi produrre in odiose ipocrisie, bisogna riconoscere che se le vittime fossero state romene, cinesi o mozambicane non avrebbero suscitato la stessa attenzione.

Per lo stesso principio, se domani affondasse una nave con dentro 100 stranieri e un italiano, tg e giornali parlerebbero prevalentemente - o quasi esclusivamente - del nostro connazionale. "E' la stampa, bellezza", diceva Bogart.

Il secondo criterio implica una distinzione ulteriore basata sul censo e sullo status sociale, meno evidente nelle cronache di tutti i giorni. Chiunque conosca Roma sa che il "pariolino" è un tipo sociale ben definito, oggetto di studi antropologici da bar. I suoi tratti principali sono semplici: un po' snob e un po' cafonal, figlio di professionisti, imprenditori o politici, tendenzialmente di una destra perbenista e conservatrice, attaccato a status symbol modaioli e ostentatamente costosi. 

Naturalmente non tutti gli abitanti dei Parioli sono così e forse non lo sono nemmeno le persone coinvolte nel caso di cronaca, ma lo stereotipo esiste ed è ben radicato nella Capitale. E' in questo microcosmo di cartapesta che la storia delle baby squillo è esplosa, sbandierando la depravazione che si nasconde in casa di quelli che ben pensano, dimostrando che queste cose succedono anche fra le persone ricche, o che sembrano ricche, o che avrebbero dovuto essere ricche.

E' sbagliato supporre che in questa presa di coscienza si possa celare un po' di compiacimento? Forse. Ora però facciamo uno sforzo di fantasia: immaginiamo la reazione di media e pubblico se la stessa storia fosse stata ambientata a San Basilio o a Tor Bella Monaca. Sicuri che non sarebbe cambiato nulla?   



di Rosa Ana De Santis

Il caso di questa coppia è solo l’ultimo di una lunga serie di casi giudiziari che hanno sollevato accuse e dubbi di costituzionalità sulla legge 40. Ma nella storia di questa coppia che prova ad avere un figlio pur essendo la donna potatrice di una grave anomalia genetica c’è anche la legge 194, la sua applicabilità, metodi e procedure, medici obiettori e discriminazione di fatto. Nei giorni delle quote rosa, delle camicie bianche delle deputate forse è opportuno che una riflessione culturale sull’eguaglianza e il diritto di genere vada oltre la banale, forse necessaria, aritmetica della rappresentanza parlamentare.

E’ il 2010 e siamo all’ospedale Pertini di Roma quando Valentina, dopo già numerose gravidanze a rischio e non proseguite naturalmente, ottiene il referto dell’analisi dei villi coriali dell’ultima e scopre che il feto ha gravissime malformazioni. Chiede quindi l’aborto terapeutico, essendo oltre i tre mesi standard previsti dalla legge 194. Valentina racconta di un aborto avvenuto in bagno, senza assistenza medica, dopo 15 ore di dolori lancinanti, vomito e di un parto della morte avvenuto alla presenza del marito. I medici presenti, tutti obiettori, avrebbero avuto il diritto, va così in Italia, di esercitare un autentico abbandono terapeutico in nome di propri giudizi di valore sulla vita.

Sul caso si è espressa anche l’Associazione Coscioni evidenziando un vero e proprio reato di omissione di soccorso. Ma di fatto l’obiezione di coscienza ammessa nelle strutture pubbliche, una contraddizione fortissima con la norma che riconosce il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, può generare situazioni di questo tipo - almeno finché gli obiettori non andranno ad esercitare in strutture private e religiose - e le percentuali ci dicono che accade più di frequente di quanto non si creda. In alcune regioni il diritto all’aborto è di fatto nella pratica difficilissimo e inesistente.

Come se fosse una pena da espiare per la donna che vi ricorre, come se dietro quella scelta non ci fosse, per i casi più disparati, il diritto - sancito per legge peraltro - a scegliere la maternità che è cosa ben diversa dall’accadimento naturale e basta del rimanere incinta. Valentina e suo marito non hanno denunciato l’ospedale e oggi viene loro impedito di accedere alla fecondazione assistita come stabilita nella legge 40 - perché non la coppia ha problemi di fertilità, ma di salute - cosi come viene negata la diagnosi pre impianto con selezione degli embrioni sani.

La legge colabrodo ha collezionato emendamenti ed è stata di fatto sconfessata da Strasburgo e dai tribunali cui si sono rivolte molte coppie. L’allargamento alle coppie fertili ma portatrici di sindromi genetiche ereditarie, la diagnosi pre impianto rappresentano le vittorie giuridiche che imporrebbero una rivisitazione complessiva del testo della norma che però, come tutta la giurisprudenza italiana sulla bioetica, fatica a trovare posto nell’agenda di governo per limiti di metodo e per resistenze moralistico-culturali.

Altro discorso è la legge 194, la cui applicabilità è messa a rischio da un’obiezione di coscienza deregolamentata che di fatto pone il diritto di libertà individuale di una donna in subalternità a quello di una deontologia professionale. Ipotetica e strumentale, peraltro, in diversi casi che vedono medici obiettori in ospedale e abortisti nelle cliniche private. Ma la supremazia dell’obiezione sulla legge diventa supremazia di un diritto su un altro.

Una supremazia che così restituisce un’idea vuota e inefficace della libertà delle donne e della loro autonomia di vita nel tessuto sociale del paese. L’aborto come la nascita di un figlio non rappresentano materia di legge, ma pensiero morale. E nessuna scelta morale può essere risolta interamente alla norma,  che ha il solo compito di arginarla e tutelarla, alla sua infrazione o alla sua  pena.

Esiste un fondamento di libertà da salvaguardare affinché ogni scelta, morale o immorale, rimanga tale. Senza libertà non vi è possibilità alcuna di pensare qualcosa di giusto. Dovrà cominciare a valere anche per le donne. Anche per le donne che vogliono o non vogliono diventare mamme. Anche per Valentina che non vuole mettere al mondo coscientemente un figlio ammalato grave. E per un’altra Valentina che invece vorrà farlo.

Passa dalla libertà di scelta una società giusta. Una che non saprebbe più che farsi di scenografiche quote rosa o di totalitarie dottrine di coscienza di pochi che obiettano la loro contro quella di tanti. Più spesso di tante.

di Rosa Ana De Santis

E’ di qualche giorno fa la notizia della maxi multa a Novartis e La Roche, entrambe in Big Pharma, per aver occultato un farmaco low cost a vantaggio di uno identico ma molto più costoso. La multa comminata dall’Antitrust è di 180 milioni di euro. Grazie a questa operazione congiunta tra i due colossi farmaceutici moltissimi ammalati, sia del sistema sanitario pubblico che a carico di assicurazioni private, sarebbero stati costretti a rinunciare alle cure.

Si chiamano Avastin e Lucentis, e il loro principio attivo - grazie alla scoperta di un ricercatore italiano Napoleone Ferrara - è il medesimo. Con Avastin utilizzato per tumori molto gravi, con Lucentis per combattere la maculopatia senile. Avastin si vende a massimo 80 euro, Lucentis oltre i 900.

Le due aziende decidono di fare cartello con un meccanismo di partecipazioni per ostacolare la diffusione di Avastin per la cura delle patologie oculari più diffuse tra gli anziani. La Roche, infatti, non avrebbe registrato Avastin come farmaco per i disturbi della vista e avrebbe agevolato quindi la commercializzazione di Lucentis, incassando parte dei profitti. L’azione dietro le quinte sarebbe stata accompagnata da una sponsorizzazione del farmaco costoso, procurando allarme e confusione tra i pazienti e alla resa dei conti un aumento dei costi vertiginoso per il sistema sanitario pubblico.

Non è certamente la prima volta che lo scandalo dei farmaci generici occultati per speculazioni economiche investe le case farmaceutiche. Eclatante il caso e l’ultima vittoria del governo indiano contro Big Pharma e in modo particolare con Novartis per la questione dei brevetti. L’India, non a caso considerata la farmacia del Sud del mondo, incassò una grande successo sul farmaco antitumorale Glivec.

Nessuno sarà cosi ingenuo da ritenere che le case farmaceutiche debbano comportarsi come associazioni missionarie di cura, ma certamente profitti e guadagni non possono essere del tutto deregolati, sia perché si tratta di farmaci e salvavita e non di prodotti qualsiasi, sia perché esiste un tema di libertà di ricerca scientifica. Il conflitto tra diritto alla salute e proprietà intellettuale, quindi la guerra sui brevetti, è ciò che finora ha consentito alle case farmaceutiche di considerare legittimo un vero e proprio impero industriale che potesse prevaricare il diritto alla salute e anche la libertà di ricerca.

L’ultima vicenda Antitrust non fa che ribadire l’illiceità di alcune manovre speculative che danneggiano tanto il diritto di cure delle persone, quanto la garanzia della libertà di ricerca che può mettere qualsiasi scienziato in qualsiasi laboratorio del mondo nelle condizioni di arrivare ad un farmaco equivalente e low cost.

La vicenda giudiziaria avrà il suo corso e i due nomi illustri hanno preparato già il ricorso. Nel frattempo numerosi pazienti potranno sapere che Avastin può curarli tanto quanto l’altro e lo scoop sul caso sarà servito intanto a ripristinare una buona e corretta informazione. Perché è questo l’altro amaro capitolo della vicenda. Cosa, in nome dei guadagni di questi colossi, viene raccontato.

In che modo il diritto all’informazione è salvaguardato per garantire una scelta libera e consapevole da parte dei pazienti e di chi ci cura. E cosa viene taciuto non soltanto sul caso dei farmaci low cost, ma magari su effetti collaterali e pericoli di medicine che per le stesse ragioni di profitto indisciplinato devono essere vendute a tappeto.

Il primato del profitto, se lasciato indisturbato e senza controllo, può arrivare ad orrori di questo tipo. E’ accaduto in occidente con farmaci ritirati poi dal mercato, accade più spesso di quanto non si creda nei Paesi in via di sviluppo. Accade che se le medicine diventano affari tra titani il diritto alla salute diventa solo materia di polemica per qualche romantico della morale.

C’è invece un serissimo problema di accesso alle cure e di trasparenza delle stesse che deve diventare oggetto di attenzione da parte della politica e sarà ancora una volta questa necessaria supremazia della legge sui numeri a garantirci se non la verità su tutto, almeno un po’ più di giustizia.


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