di Tania Careddu

S. è in mezzo a una strada, senza soldi e senza lavoro, allontanato dalla casa del padre perché ha sottratto la mamma dalla violenza di lui. C’è K, cittadino congolese, senza fissa dimora da cinque anni. C’è P., ragazza italiana orfana, con una situazione sanitaria poco chiara. Così come J., che dorme in un casottino al binario 16, senza famiglia, reduce da due delicate operazioni chirurgiche. E S., con problemi di natura psichiatrica, chiuso in un silenzio intoccabile. Sono alcune delle storie che transitano nelle stazioni ferroviarie italiane e intercettate dai servizi di accoglienza Help Center, un progetto di Ferrovie dello Stato in parternariato con Anci e Europe Consulting Onlus.

Diecimila metri quadrati di spazi ferroviari, in comodato d’uso gratuito, in dotazione alle organizzazioni del Terzo settore che operano per il supporto e l’orientamento alle persone in difficoltà che orbitano nelle aree di stazione. Quelle di Chivasso, Genova, Torino, Milano, Bologna, Firenze, Pescara, Parma, Roma, Napoli, Foggia, Catania, Messina e Bari, le quali ospitano una marginalità che riflette quella presente nelle principali città italiane. Con criticità di ordine socioeconomico presenti nei contesti urbani, specie di grandi dimensioni.

La prima è la povertà sanitaria. Rilevata ovunque nelle stazioni per effetto di quella che viene definita una lenta ‘disaffezione alla cura’, interessa sia i soggetti senza fissa dimora sia quelli che, pur avendo una casa, stanno inesorabilmente scivolando in una deriva di marginalità a causa delle dinamiche di impoverimento che investono fasce sempre più ampie di popolazione.

L’impossibilità di una progettualità disincentiva dall’investimento per il miglioramento delle condizioni personali di vita, generando un’attitudine rinunciataria. Inoltre, la popolazione senza fissa dimora invecchia più precocemente e si ammala di tutte quelle patologie croniche che degenerano rapidamente: curarsi in strada è difficilissimo, riabilitarsi dopo un intervento chirurgico quasi impossibile, così come conservare un medicinale.

Seconda vulnerabilità: la perdita del lavoro, soprattutto negli utenti fra i quaranta e i quarantanove anni, che produce un malessere sociale esteso il quale ha conseguenze disastrose sulle persone più fragili e che porta con sé danni collaterali, quali depressione, rottura di legami affettivi, gioco d’azzardo patologico, usura. Altre criticità, la mancanza o il rischio di perdere il proprio alloggio e i tagli ai servizi, tanto da farli diventare inefficaci.

Nel 2013, secondo il Rapporto stilato dall’Osservatorio Nazionale sul Disagio e la Solidarietà nelle Stazioni italiane (ONDS), sono stati venticinquemila, di cui dodicimila per la prima volta gli utenti che hanno usufruito dell’assistenza fornita dagli Help Center, le cui porte si sono aperte settecentoventicinque volte al giorno e, ogni ora, circa sei persone si sono presentate per la prima volta.

La parte più rilevante dell’utenza, il 72,6 per cento di presenze, è costituita dagli immigrati, che sono tendenzialmente giovani e la loro permanenza in stazione è spiegata come una fase transitoria che fa parte del processo migratorio, mentre gli italiani, in aumento, rappresentano il 27,4 per cento. Raddoppia, rispetto al 2012, il numero degli over sessanta, con un’incidenza prevalente nelle aree metropolitane. Gli emarginati delle stazioni sono più uomini che donne e hanno tra i diciotto e i trentanove anni. Sono padri separati, disoccupati di lunga durata, pazienti psichiatrici.

La minore presenza delle donne in condizioni di disagio si spiega con considerazioni di carattere generale: prima fra tutte, la naturale capacità delle stesse di reinserirsi nel tessuto sociale e lavorativo, e secondo, poi, la maggiore attenzione che loro ripongono nella cura e nell’interesse degli affetti e dei rapporti che fungono da vera e propria rete di salvataggio in situazioni di difficoltà. Ma, uomini o donne, in tutte le vite di coloro che si rivolgono agli Help Center delle stazioni ferroviarie ci sono le ingiustizie sociali. Dallo sfruttamento lavorativo alle violenze sui figli, dalla malattia mentale all’abbandono. Solo il collante umano può far sperare e salvare. Anche dopo che lavoro, casa e salute saranno diventati beni comuni.

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