di Tania Careddu

Partire. Arrivare. A volte, tornare. E’ questo il movimento degli italiani nel mondo. Un fenomeno sociale in continua trasformazione. Non addomesticabile, fatto di storie passate e di nuovi bagagli. Rotte migratorie storiche ma maggiore preparazione scolastica, qualificazione e professionalità, numeri sempre più incisivi, partenze non più solitarie ma di interi nuclei famigliari.

Sono 4.482.115 i cittadini italiani residenti all’estero e iscritti all’AIRE, con un aumento di tre punti percentuali rispetto al 2013, e nell’ultimo anno a partire sono stati più di novantaquattromila.

Soprattutto giovani fra i diciotto e i trentaquattro anni (a dimostrazione del fatto che la scelta di espatriare è quasi sempre legata alla disoccupazione o a una realizzazione nel percorso di studi, vedi l’Erasmus), partiti dalla Lombardia, dal Veneto, dal Lazio, dalla Sicilia e dal Piemonte e diretti verso il Regno Unito, la Germania, la Svizzera e la Francia.

In generale, la metà dei nostri connazionali trasferitisi all’estero è di origine meridionale ma un terzo è partito dalle regione del Nord, principalmente dai grandi comuni. E in molte province italiane, in cima Macerata e Trieste con Fermo e Pordenone al seguito, si registrano più emigrate donne che uomini, le quali scelgono come destinazione l’Argentina. Il primo paese in assoluto a ospitare gli italiani emigrati. Anche se campani, pugliesi, sardi, siciliani e trentini preferiscono la Germania, laziali e veneti il Brasile, lombardi e valdostani la Svizzera e gli umbri la Francia.

Decrescono lievemente i minori iscritti all’Anagrafe Italiani Residenti all’Estero ma aumentano quelli registrati per nascita, figli delle precedenti generazioni emigrate. Mentre lievitano gli over sessantacinque: risiedono soprattutto nel Sud America e spesso vivono in una condizione economica di indigenza. Percepiscono, infatti, pensioni ridotte e inferiori a quelle che spetterebbero loro se vivessero in Italia. Non solo: risentono di una “povertà” culturale causata da un isolamento che li segrega, nella migliore delle ipotesi all’interno delle loro comunità, se non all’interno dei loro ristretti nuclei familiari.

Una condizione che, sovente, viene confermata anche dai governi dei paesi ospitanti, vedi il caso dell’Australia: i bisogni degli anziani emigrati trovano risposte più adeguate dentro la rete familiare e, in particolare, nella relazione genitori anziani-figli adulti, i quali, a loro volta, considerano l’assistenza offerta dalle istituzioni solo un’alternativa secondaria.

Non a torto, però, vista la carenza di idonei servizi di interpretariato, l’insufficiente informazione sull’accesso ai servizi, la mancanza di sensibilità culturale da parte degli erogatori dei servizi e di personale bilingue e culturalmente preparato.

E l’integrazione, dunque? Passa (anche) per la cucina, luogo di scambio e di negoziazione di identità: i migranti portano con sé le proprie abitudini alimentari e ne influenzano quelle dei paesi d’arrivo. E viceversa. E la cucina del Belpaese più di tutte.

Si, perché non è solo esportata da un gruppo risicato di professionisti dell’arte culinaria ma creata nei luoghi, inconsci e privati, raggiunti dagli immigrati. In una koinè che non snatura ma mescola e accomuna: i “macaroni” - italiani emigrati nel resto d’Europa nell’Ottocento, così chiamati a sancire la completa identificazione tra mangianti e mangiato - cucinano spaghetti with meatballs -  il piatto più rappresentativo di questo processo. E che profuma di riuscita.

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