di Tania Careddu

Sempre più tardi e sempre meno. E’ questa la tendenza alla genitorialità fra le coppie di oggi. I dati, emersi da un’indagine condotta dal Censis “Diventare genitori oggi”, parlano chiaro: l’età media delle donne a diventare madri è passata da circa ventinove anni nel 1995 a trentuno e rotti nel 2011. E, secondo il 46 per cento degli intervistati, ci si dovrebbe occupare della faccenda dopo i trentacinque.

Non solo. Una volta raggiunta l’età “giusta”, si fanno, anche, pochi figli: meno 3,7 per cento rispetto al 2012. Insomma, l’Italia è affetta da infertilità.

Le motivazioni sono, sempre più spesso, di matrice economica, vedi l’attuale crisi, e legate pure all’assenza di politiche sociali adeguate. Cioè, se ci fossero interventi pubblici, tipo sussidi, disponibilità di asili nido, sgravi fiscali, borse di studio, orari di lavoro più flessibili, possibilità di permessi per le esigenze dei figli, ci sarebbe, soprattutto fra gli intervistati dai trentacinque ai quarantanove anni,  una maggiore propensione alla genitorialità.

C’è da giurarci? Non si potrebbe, piuttosto, pensare che l’esperienza della genitorialità, cosi come la interpreta la maggior parte del campione, parta da presupposti poco fecondi? Ossia: diventare genitori, per la stragrande maggioranza di questo, è definito principalmente come un aspetto cruciale della realizzazione individuale, cosicché il significato assunto dal figlio rispetto a sé stessi e al proprio vissuto personale risulta prevalente. Assente, o quasi (ahinoi), la versione che vede la nascita del proprio figlio come il supremo completamento (arricchimento, ndr) della dimensione di coppia.

E le cause, invece, dell’infertilità, dichiarata tale dall’Organizzazione mondiale della sanità, dopo dodici o ventiquattro mesi di rapporti mirati in assenza di concepimento? Lo stress, anomalie strutturali e problemi ormonali. Una dimensione, quella della fertilità, che attualmente appare profondamente modificata grazie agli effetti dei grandi progressi medici registrati ma che tuttora coinvolge problematiche di tipo etico.

L’influenza della Chiesa cattolica, e non soltanto per gli appartenenti alla fede, ne è un esempio: continua, infatti, a essere una zavorra sulla posizione degli italiani in merito e non solo (incide pesantemente, anche, su una quota significativa che rifiuta la procreazione fuori dal setting tradizionale).

Ci si aggiungano, poi, le credenze popolari farcite di un bagaglio di conoscenze risicate, gli aspetti strettamente culturali che impattano sull’identità di genere e la scarsa (per non usare il superlativo) informazione. Si consideri che il 45,1 per cento degli italiani ne sa proprio poco e il 60 per cento di loro, laureati compresi, assolutamente niente. Per non parlare della procreazione medicalmente assistita (PMA). Roba da esperti. E da laici.

Di gameti esterni alla coppia non se ne parla per il 30 per cento del campione cattolico praticante. L’eterologa, infatti, è ben vista solo dal 40 per cento degli intervistati. E pensare che alla legge 40 del 2004 - la quale regolamenta la PMA - sono state, di recente, apportate delle modifiche, proprio circa il divieto posto dalla legge sulla fecondazione eterologa, dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale.

Poco conosciuta ai più, e, fra coloro che, invece, sanno di che si tratta, il giudizio non è positivo: applicazione diversificata sul territorio nazionale e limitazioni poste alla coppia. Loro, quelli che l’hanno letta, vorrebbero che si eliminassero le restrizioni sull’eterologa e che si intervenisse sul divieto alla diagnosi preimpianto. Che già, per le coppie alle prese con la procreazione medicalmente assistita, la strada non è in discesa: per l’80,5 per cento del campione la crisi economica è un deterrente specifico, e poi le difficoltà informative, il non sapere a chi rivolgersi, l’incertezza emotiva, la solitudine, l’isolamento e la chiusura in sé stessi.

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