Rende più resilienti e indipendenti ma, per milioni di donne, l’istruzione rimane (solo) un’aspirazione. E’ la speranza ma anche l’ostacolo delle donne immigrate per le quali, più che per altre, visti i rischi associati agli spostamenti forzati, l’istruzione è particolarmente importante. E assume un senso che oltrepassa il sapere. Al di là del miglioramento della loro (futura) posizione sociale ed economica, l’istruzione rafforza la capacità di recupero di fronte alle vulnerabilità - prime fra tutte, lo sfruttamento e la violenza - che le sovrastano e svolge un ruolo protettivo e di prevenzione.

La bellezza salverà il mondo, affermava il principe Miskin ne L’idiota di Dostoevskij. Quale bellezza? Quella delle donne che, a dieci anni dall’inizio della crisi economica mondiale e ai primi bagliori della ripresa, sono state determinanti nel restituire fiducia a un’economia (e a una società) rimasta, per lungo tempo, in difficoltà. Motori della speranza, dunque, moderne, tecnologiche, connesse alla rete, attente al proprio aspetto fisico tanto da salvaguardare la loro bellezza ricorrendo, se necessario, al bisturi.

 

“Facendo della bellezza esteriore un valore che supera l’importanza del proprio essere e delle proprie capacità”, si legge nel rapporto Italiane, 4 istantanee per un ritratto, redatto da Eurispes, è necessario chiedersi quale bellezza salverà il mondo.

 

Se l’Italia si classifica fra le dieci nazioni al mondo per il numero degli interventi plastici sia per i trattamenti estetici non chirurgici e tutti gli studi recenti confermano un progressivo abbassamento dell’età in cui si rivolgono alla medicina estetica, non si può non considerare la grande influenza dei condizionamenti sociali sulla dimensione dell’immagine che spingono alla costante ricerca di raggiungere un’idea di bellezza esteriore. E se prima era una sfera riservata a poche, adesso la chirurgia estetica è diventata (economicamente) accessibile a tutte.

 

In effetti, le donne di oggi stanno tracciando un futuro dei consumi differente in tutti i campi: sebbene i comportamenti di spesa siano ancora orientati a soddisfare bisogni essenziali, le spese voluttuarie hanno registrato un (seppur timido) incremento. Attente alle novità tecnologiche, le donne del 2018 sfruttano tutte le possibilità offerte dal web, nella direzione di un superamento dell’annoso gap tra loro e gli uomini in fatto di competenze tecnologiche. Soprattutto quelle utili nel quotidiano: dall’attualità al gioco, dal lavoro alla musica fino ai rapporti sociali, le donne italiane non posso fare a meno dell’indiscussa utilità dello smartphone.

 

Questa iperconnessione è, però, purtroppo ancora, veicolo privilegiato degli stalkers che, nel 72 per cento dei casi circa, con telefonate e messaggi ripetuti, agiscono indisturbati nella loro attività persecutoria. Facendo leva sui meccanismi di controllo che sottraggono alle donne la dignità personale, l’indipendenza e l’autodeterminazione, il fenomeno dello stalking – vera e propria violenza (di genere) – è un’istantanea sulle donne che, nostro malgrado, ancora, contribuisce a completarne il ritratto.

 

Si, perché, da una parte, i reati di violenza sulle donne sono in costante e forte aumento e dall’altra, la rottura del tabù che, per troppo tempo, ha impedito di affrontare il tema, ha permesso l’emersione del fenomeno. Che, di fatto, al netto dei toni sensazionalistici e morbosi con cui lo trattano i media, è percepito con grande intensità fra la popolazione femminile e continua, a ragione, a essere fonte di grande preoccupazione. Anche perché è convinzione diffusa che non vi siano strumenti sufficienti e sufficientemente adeguati a poter arginare il fenomeno, (indiscutibilmente) in rapida espansione.

 

E che l’intervento legislativo, con l’emanazione della legge numero 38 del 2009 che ha introdotto nell’ordinamento penale italiano le “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”, nella prassi stenti a tutelare puntualmente le vittime. Alle risposte legislative sarebbe opportuno affiancare un cambio di passo culturale. E non solo.

Nel braccio della morte per traffico di droga. E’ il reato per cui, nel 2016, sono andate al patibolo diciassette donne. Di meno rispetto a quelle eseguite sugli uomini, lo 0,6 per cento delle esecuzioni mondiali, le condanne a morte delle donne si concentrano, soprattutto, nei paesi che applicano la Sharia (legge sacra, non elaborata dagli uomini ma imposta da dio, che affianca, quando non sostituisce, la normativa ordinaria).

 

In Afghanistan, in Arabia Saudita, nel Brunei, negli Emirati Arabi, in Iraq, in Mauritania, in Nigeria, nel Qatar, in Somalia, in Sudan e nello Yemen, giustiziate per discriminazione sessuale. Nella maggior parte di questi paesi, in società nelle quali sono ancora profondamente radicate convinzioni discriminatorie nei confronti delle donne, la pena di morte è imposta in casi di adulterio e relazioni sessuali extraconiugali.

 

“Le disposizioni nei codici penali – si legge nel documento La pena di morte nei confronti delle donne, divulgato, di recente, da Nessuno tocchi Caino – spesso non trattano ugualmente donne e uomini e stabiliscono norme e sanzioni più severe per le donne”, sovvertendo i principi di diritto internazionale per i quali l’applicazione della pena di morte deve essere limitata ai reati più gravi (quelli intenzionali con conseguenze letali).

 

E nonostante il diritto internazionale ponga dei limiti all’applicazione della pena di morte nei confronti delle donne in stato di gravidanza, non si salvano nemmeno loro: ratificando la Carta africana sui diritti e il benessere del fanciullo - che vieta di imporre la pena capitale alle “madri di neonati e di bambini piccoli” - in alcuni Stati, l’esecuzione viene rimandata a dopo il parto e in altri commutata in una pena detentiva a vita, da scontare con i lavori forzati.

 

Ma, sebbene l’articolo 12 della Carta araba sui diritti dell’uomo affermi che non può essere giustiziata nemmeno “la madre fino a due anni del figlio”, tanti paesi non hanno ancora tradotto, sul piano interno, questo divieto. In tredici paesi, la forma più utilizzata per giustiziarle è la lapidazione, che è, anche, quella scelta per punire l’omosessualità.

 

Risale al 20 novembre scorso, l’ultima notizia di condanna per adulterio in Arabia Saudita: quattro testimoni oculari, presenti all’atto del tradimento– quelli necessari a sostenere l’accusa – inchiodano la donna alla lapidazione e “il prezzo del suo sangue” vale la metà di quello di un uomo (secondo la diya: compensazione legale prevista dal diritto islamico nei casi di grave violenza nei confronti di un essere umano).

 

E se in Afghanistan, nonostante il sistema giudiziario non contempli la pena di morte, è ancora molto marcata l’influenza dei leader religiosi, nel Brunei si stanno attivando per portare a compimento il nuovo codice penale che, entro il 2018, dovrebbe comprendere l’introduzione della pena capitale per adulterio e rapporti sessuali extraconiugali.

 

In Iraq succede che molte donne detenute sono state condannate al posto di un loro parente maschio. In Pakistan, dove ci sono circa quarantaquattro donne nel braccio della morte, una donna stuprata, per non essere condannata per adulterio, deve provare, con testimoni, la violenza subita; in alcune aree del paese, le donne sono considerate proprietà degli uomini, l’accusa di infedeltà è punita con la morte e l’onore, in nome del quale vengono uccise centinaia di donne all’anno, richiede che un membro della famiglia la ammazzi.

 

In Somalia, le donne accusate di adulterio vengono picchiate e lapidate dagli estremisti islamici secondo esecuzioni extragiudiziarie, tanto frequenti e decise da autoproclamati tribunali della Sharia ed effettuate dallo Stato islamico. Secondo l’articolo 146 del codice penale sudanese, le donne che sposano un uomo non musulmano, accusate perciò di adulterio, sono punite con cento frustate e giustiziate al primo caso rispetto agli uomini che subiscono la stessa sorte dopo il terzo caso. Così, e ancora, nel 2016, dieci donne sono state uccise in Iran, tre in Arabia Saudita, una in Somalia, una in Giappone, una in Egitto e una in Indonesia.

Dalla campagna di diffamazione contro le organizzazioni non governative ai luoghi (troppo) comuni sugli immigrati, è un rincorrersi di informazioni infondate che distorcono la realtà dei fatti. Affermazioni come quella del direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, secondo il quale “i salvataggi dei migranti da parte delle ONG incoraggiano i trafficanti di esseri umani”, alimentano percezioni che confondono interessi criminali a scopo di lucro con operazioni svolte per salvare vite in mare.

Che i luoghi formativi incidano sullo sviluppo dei bambini è cosa nota. Meno risaputo è che sono determinanti sulla possibilità di sottrarli (insieme alle loro famiglie) da una potenziale condizione di povertà. Potrebbe apparire bizzarro ma per sconfiggerne l’ineluttabilità non è necessario avere i requisiti per aprire un conto bancario quanto, piuttosto, fare i conti con l’accessibilità o meno ai servizi socio-educativi.

 

Essere ricchi di scuole con palestre, di asili nido, di biblioteche e di istituti scolastici ben funzionanti e raggiungibili agevolmente salva da un destino (intergenerazionale) di indigenza. Ma l’Italia, a otto anni dalla data stabilita per il raggiungimento dell’obiettivo fissato a Barcellona che indicava almeno al 33 per cento la copertura dei servizi di prima infanzia entro il 2010, è ancora lontana dalla ricchezza, sfiorando la media nazionale del 23 per cento, avendo trecentosettantacinquemila posti disponibili su un milione e mezzo di bambini fino a due anni, distribuiti su tredicimila strutture.

 

E’ ancora più drammatico se disgrega il dato a livello locale, secondo quanto riporta il dossier Povertà educativa, redatto da Con i bambini, per le profonde differenze territoriali economiche e sociali tra le diverse aree del Paese: solo quattro regioni raggiungono la percentuale auspicata mentre tutte quelle del Mezzogiorno, eccezion fatta per la Sardegna, si collocano al di sotto della media.

 

Nei comuni montani, la percentuale di posti sul totale dei residenti è la più bassa d’Italia - Foggia, Caltanissetta, Siracusa e Reggio Calabria le province più svantaggiate - con alcuni virtuosismi nelle province di Prato, di Trieste, di Ravenna, di Aosta, di Siena e di Biella.

 

Nei comuni capoluogo, gli indici di copertura sono, manco a dirlo, più alti che altrove, soprattutto in quelli del centronord, con l’eccezione di Cagliari e Roma che hanno indici spesso superiori a quelli delle città centro-settentrionali, e sono bassi nei comuni a basso reddito.

 

Quanto alla presenza di biblioteche, la Valle d’Aosta e il Molise registrano il rapporto maggiore tra presenza di queste strutture e numero dei bambini sopra i sei anni: tra le regioni sopra i tre milioni di abitanti, il Piemonte è la prima, la Puglia l’ultima.

 

Su quasi sette milioni di studenti, sono poco più di cinque milioni quelli che hanno a disposizione una palestra nelle scuole, le quali nel 73 per cento dei casi sono ubicate in zone con qualche rischio sismico e in Basilicata, in Molise, in Umbria, in Abruzzo e nelle Marche si trovano tutte in zone a rischio sismico elevato.

 

Le scuole calabresi e campane, insieme a quelle siciliane, sono le meno raggiungibili d’Italia con i mezzi pubblici, compresi gli scuolabus. Poveri bambini.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy