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Bene primario, prezioso e da preservare, l’acqua, in Italia, costa molto, vale altrettanto e se ne spreca troppa. Gestita come se fosse una proprietà privata, l’acqua (in bottiglia) viene svenduta per pochi millesimi di euro al litro a fronte di guadagni stratosferici per chi la gestisce. L’Italia è al secondo posto nel mondo (dietro al Messico) con il maggior numero di consumo pro capite di acque in bottiglia e in cui vengono imbottigliati oltre quattordici miliardi di litri all’anno e il primo stato in Europa con consumo a persona di circa duecentosei litri annui.
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- Scritto da Tania Careddu
Entro il 2050, 5,7 milioni di lavoratori a rischio povertà. Parola di Confcooperative che nel focus “Millennials, lavoro povero e pensioni: quale futuro?”, avverte che “se questa tendenza non dovesse essere invertita”, precari e neet andranno ad alimentare le file dei nuovi poveri. Quale tendenza? Tremilioni di neet e 2,7 milioni di lavoratori impiegati nel working poor o impegnati in ‘lavori gabbia’ (cioè confinati in attività non qualificate dalle quali è difficile uscire e che obbligano a una bassa intensità lavorativa, pregiudicandone le aspettative di reddito e di crescita professionale) sono i protagonisti di uno scenario sul futuro previdenziale e sulla tenuta sociale dell’Italia che non promette nulla di buono.
Un pericoloso mix di fattori - ritardo nell’ingresso nel mondo del lavoro, discontinuità contributiva e debole dinamica retributiva - è la base per le condizioni di nuove povertà. “Queste condizioni - spiega il presidente di Confcooperative, Maurizio Gardini - hanno attivato una bomba sociale che va disinnescata”. Perché lavoro e povertà sono due emergenze che turbano il patto intergenerazionale che, invece, dovrebbe garantire ai figli le stesse opportunità dei padri. Altrimenti, continua Gardini, “rischiamo di perdere un’intera generazione”.
Che è stretta nella maglie di uno “sfrangia mento” del lavoro rispetto al passato: bassa qualità e bassa intensità stanno determinando uno slittamento verso il basso delle remunerazioni, definendo, in maniera sempre più marcata, la distanza tra i destini dei lavoratori e la sostenibilità dei sistemi di welfare.
Così, per centosettantamila giovani sottoccupati, seicentocinquantaseimila con contratto part time involontario e quattrocentoquindicimila impegnati in attività non qualificate, lavorare non basta più a salvarli dalla discriminazione con le generazioni precedenti: “Già oggi - specifica Gardini - il confronto fra la pensione di un padre e quella prevedibile del proprio figlio segnala una decisa divaricazione del 14,6 per cento”. Se, poi, i figli vivono al Sud, la differenza è ancora più netta: anche solo limitandosi a osservare il fenomeno dei neet, nelle sei regioni meridionali se ne contano oltre la metà, 1,1 milioni, di cui settecentomila concentrati in Sicilia e Campania.
Secondo un sondaggio dell’istituto Ixè, Giovani italiani (e italiane) alla ricerca dell’indipendenza, il confronto tra la percezione della propria condizione e quella della famiglia di origine (boomers) conferma lo stato di difficoltà vissuto dai millennials italiani (per intenderci, i giovani nati fra gli Ottanta e i primi del nuovo millennio).
Tanto diversi che, secondo il Rapporto COOP 2017, “nella concezione dei millennials, la casa si spoglia del suo contenuto di bene e cassaforte della famiglia per diventare servizio e, secondo alcune proiezioni, entro i prossimi dieci anni, un terzo di coloro che oggi sono acquirenti andrà a riversarsi sulla locazione”. Primi a invertire la tendenza, i millennials sono più poveri (e con meno aspettative sul futuro) del 17 per cento rispetto agli standard delle generazioni precedenti, perdendo quasi un quinto della ricchezza reale.
Anche se, stando ai risultati di una ricerca realizzata da State Global Advisors, in collaborazione con Prometeia, La rievoluzione delle pensioni: rapporto sullo stato dell’arte delle pensioni italiane, il 75 per cento di loro dichiara di avere nozioni limitate o inesistenti sulle pensioni. In fondo, come dare loro torto, se la questione li riguarda appena?
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Sono quasi centosessantamila, e in costante aumento, gli alunni con disabilità che frequentano le scuole italiane. Con una presenza più cospicua nel Mezzogiorno che nelle regioni del Nord, gli studenti disabili sono soprattutto affetti da deficit intellettivi o da disturbi dello sviluppo, del linguaggio e dell’apprendimento.
Aiutati dagli insegnanti di sostegno, che ne favoriscono l’inclusione scolastica approntando percorsi formativi adeguati, gli alunni con una qualche forma di disabilità sono più seguiti in Sardegna e nel Lazio: sono ottant’ottomila, in totale, gli insegnanti a loro dedicati, seimila in più rispetto all’anno scolastico precedente, uno ogni due studenti.
Ma il rapporto tra alunno e insegnante di sostegno è minore di quello previsto dalla Legge 244 del 2007, con picchi negativi in Molise e con un monte ore medio settimanale che fa del Mezzogiorno la realtà italiana più adeguata ai bisogni di supporto.
Le maggiori criticità sono attribuibili alla discontinuità del rapporto fra il docente di sostegno e l’alunno disabile: circa il 35 per cento delle famiglie in entrambi i gradi scolastici considerati nell’indagine “L’integrazione degli alunni con disabilità nelle scuole primarie e secondarie di primo grado”, stilata dall’Istat, lamenta l’assenza di continuità che grava sulla piena realizzazione del progetto individuale dello studente con disabilità.
Di più: agli alunni che necessitano di assistenza all’autonomia e alla comunicazione mancano, nel 15 per cento dei casi, le figure professionali che garantiscano e supportino la socializzazione e l’indipendenza. Carenza che si rivela più drammatica, considerato che una quota consistente di studenti disabili mostra difficoltà nell’interazioni con i compagni (e non solo) nei momenti di socializzazione, come gite di istruzione e visite didattiche brevi, per la complessità della gestione e dell’organizzazione, soprattutto dove previsto il pernottamento.
Scarseggia, eccezion fatta per le regioni del Mezzogiorno, anche, la pratica della condivisione del progetto didattico ed educativo dello studente disabile con la sua famiglia; stabilita dalla normativa, è fondamentale non solo per lo scambio di preziose informazioni, ma anche per favorire un filo continuo tra educazione formale e percorso al di fuori dell’ambiente scolastico.
Uno dei problemi più irrisolti è l’abbattimento delle barriere architettoniche: mancano le scale e i bagni a norma oltre che i segnali visivi, acustici e tattili per agevolare la mobilità degli alunni con disabilità senso-percettive all’interno degli edifici.
Una scuola primaria su tre e una secondaria su quattro è carente di postazioni informatiche che fungono da ‘facilitatore’ nel processo di inclusione scolastica e nello svolgimento della didattica. Virtuose solo l’Emilia Romagna e la Provincia autonoma di Trento ma solo poco più di un quarto delle scuole italiane vanta tutto il personale per il sostegno formato con corsi specifici in materie tecnologiche educative.
Ora, la vera sfida innovativa del sistema d’istruzione italiano, che festeggia i cinquant’anni della scuola dell’infanzia, non può prescindere dal miglioramento costante dell’integrazione degli alunni con disabilità, secondo il ‘Sistema integrato di educazione e istruzione 0-6 anni’. Per finanziarlo è stato creato un Fondo specifico da 239 milioni di euro, affinché siano garantite “pari opportunità di educazione, istruzione, cura, relazione e gioco, superando disuguaglianze e barriere territoriali, economiche, etniche e culturali”. Che sia questa la Buona Scuola?
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Rende più resilienti e indipendenti ma, per milioni di donne, l’istruzione rimane (solo) un’aspirazione. E’ la speranza ma anche l’ostacolo delle donne immigrate per le quali, più che per altre, visti i rischi associati agli spostamenti forzati, l’istruzione è particolarmente importante. E assume un senso che oltrepassa il sapere. Al di là del miglioramento della loro (futura) posizione sociale ed economica, l’istruzione rafforza la capacità di recupero di fronte alle vulnerabilità - prime fra tutte, lo sfruttamento e la violenza - che le sovrastano e svolge un ruolo protettivo e di prevenzione.
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La bellezza salverà il mondo, affermava il principe Miskin ne L’idiota di Dostoevskij. Quale bellezza? Quella delle donne che, a dieci anni dall’inizio della crisi economica mondiale e ai primi bagliori della ripresa, sono state determinanti nel restituire fiducia a un’economia (e a una società) rimasta, per lungo tempo, in difficoltà. Motori della speranza, dunque, moderne, tecnologiche, connesse alla rete, attente al proprio aspetto fisico tanto da salvaguardare la loro bellezza ricorrendo, se necessario, al bisturi.
“Facendo della bellezza esteriore un valore che supera l’importanza del proprio essere e delle proprie capacità”, si legge nel rapporto Italiane, 4 istantanee per un ritratto, redatto da Eurispes, è necessario chiedersi quale bellezza salverà il mondo.
Se l’Italia si classifica fra le dieci nazioni al mondo per il numero degli interventi plastici sia per i trattamenti estetici non chirurgici e tutti gli studi recenti confermano un progressivo abbassamento dell’età in cui si rivolgono alla medicina estetica, non si può non considerare la grande influenza dei condizionamenti sociali sulla dimensione dell’immagine che spingono alla costante ricerca di raggiungere un’idea di bellezza esteriore. E se prima era una sfera riservata a poche, adesso la chirurgia estetica è diventata (economicamente) accessibile a tutte.
In effetti, le donne di oggi stanno tracciando un futuro dei consumi differente in tutti i campi: sebbene i comportamenti di spesa siano ancora orientati a soddisfare bisogni essenziali, le spese voluttuarie hanno registrato un (seppur timido) incremento. Attente alle novità tecnologiche, le donne del 2018 sfruttano tutte le possibilità offerte dal web, nella direzione di un superamento dell’annoso gap tra loro e gli uomini in fatto di competenze tecnologiche. Soprattutto quelle utili nel quotidiano: dall’attualità al gioco, dal lavoro alla musica fino ai rapporti sociali, le donne italiane non posso fare a meno dell’indiscussa utilità dello smartphone.
Questa iperconnessione è, però, purtroppo ancora, veicolo privilegiato degli stalkers che, nel 72 per cento dei casi circa, con telefonate e messaggi ripetuti, agiscono indisturbati nella loro attività persecutoria. Facendo leva sui meccanismi di controllo che sottraggono alle donne la dignità personale, l’indipendenza e l’autodeterminazione, il fenomeno dello stalking – vera e propria violenza (di genere) – è un’istantanea sulle donne che, nostro malgrado, ancora, contribuisce a completarne il ritratto.
Si, perché, da una parte, i reati di violenza sulle donne sono in costante e forte aumento e dall’altra, la rottura del tabù che, per troppo tempo, ha impedito di affrontare il tema, ha permesso l’emersione del fenomeno. Che, di fatto, al netto dei toni sensazionalistici e morbosi con cui lo trattano i media, è percepito con grande intensità fra la popolazione femminile e continua, a ragione, a essere fonte di grande preoccupazione. Anche perché è convinzione diffusa che non vi siano strumenti sufficienti e sufficientemente adeguati a poter arginare il fenomeno, (indiscutibilmente) in rapida espansione.
E che l’intervento legislativo, con l’emanazione della legge numero 38 del 2009 che ha introdotto nell’ordinamento penale italiano le “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”, nella prassi stenti a tutelare puntualmente le vittime. Alle risposte legislative sarebbe opportuno affiancare un cambio di passo culturale. E non solo.