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- Scritto da Tania Careddu
Nel braccio della morte per traffico di droga. E’ il reato per cui, nel 2016, sono andate al patibolo diciassette donne. Di meno rispetto a quelle eseguite sugli uomini, lo 0,6 per cento delle esecuzioni mondiali, le condanne a morte delle donne si concentrano, soprattutto, nei paesi che applicano la Sharia (legge sacra, non elaborata dagli uomini ma imposta da dio, che affianca, quando non sostituisce, la normativa ordinaria).
In Afghanistan, in Arabia Saudita, nel Brunei, negli Emirati Arabi, in Iraq, in Mauritania, in Nigeria, nel Qatar, in Somalia, in Sudan e nello Yemen, giustiziate per discriminazione sessuale. Nella maggior parte di questi paesi, in società nelle quali sono ancora profondamente radicate convinzioni discriminatorie nei confronti delle donne, la pena di morte è imposta in casi di adulterio e relazioni sessuali extraconiugali.
“Le disposizioni nei codici penali – si legge nel documento La pena di morte nei confronti delle donne, divulgato, di recente, da Nessuno tocchi Caino – spesso non trattano ugualmente donne e uomini e stabiliscono norme e sanzioni più severe per le donne”, sovvertendo i principi di diritto internazionale per i quali l’applicazione della pena di morte deve essere limitata ai reati più gravi (quelli intenzionali con conseguenze letali).
E nonostante il diritto internazionale ponga dei limiti all’applicazione della pena di morte nei confronti delle donne in stato di gravidanza, non si salvano nemmeno loro: ratificando la Carta africana sui diritti e il benessere del fanciullo - che vieta di imporre la pena capitale alle “madri di neonati e di bambini piccoli” - in alcuni Stati, l’esecuzione viene rimandata a dopo il parto e in altri commutata in una pena detentiva a vita, da scontare con i lavori forzati.
Ma, sebbene l’articolo 12 della Carta araba sui diritti dell’uomo affermi che non può essere giustiziata nemmeno “la madre fino a due anni del figlio”, tanti paesi non hanno ancora tradotto, sul piano interno, questo divieto. In tredici paesi, la forma più utilizzata per giustiziarle è la lapidazione, che è, anche, quella scelta per punire l’omosessualità.
Risale al 20 novembre scorso, l’ultima notizia di condanna per adulterio in Arabia Saudita: quattro testimoni oculari, presenti all’atto del tradimento– quelli necessari a sostenere l’accusa – inchiodano la donna alla lapidazione e “il prezzo del suo sangue” vale la metà di quello di un uomo (secondo la diya: compensazione legale prevista dal diritto islamico nei casi di grave violenza nei confronti di un essere umano).
E se in Afghanistan, nonostante il sistema giudiziario non contempli la pena di morte, è ancora molto marcata l’influenza dei leader religiosi, nel Brunei si stanno attivando per portare a compimento il nuovo codice penale che, entro il 2018, dovrebbe comprendere l’introduzione della pena capitale per adulterio e rapporti sessuali extraconiugali.
In Iraq succede che molte donne detenute sono state condannate al posto di un loro parente maschio. In Pakistan, dove ci sono circa quarantaquattro donne nel braccio della morte, una donna stuprata, per non essere condannata per adulterio, deve provare, con testimoni, la violenza subita; in alcune aree del paese, le donne sono considerate proprietà degli uomini, l’accusa di infedeltà è punita con la morte e l’onore, in nome del quale vengono uccise centinaia di donne all’anno, richiede che un membro della famiglia la ammazzi.
In Somalia, le donne accusate di adulterio vengono picchiate e lapidate dagli estremisti islamici secondo esecuzioni extragiudiziarie, tanto frequenti e decise da autoproclamati tribunali della Sharia ed effettuate dallo Stato islamico. Secondo l’articolo 146 del codice penale sudanese, le donne che sposano un uomo non musulmano, accusate perciò di adulterio, sono punite con cento frustate e giustiziate al primo caso rispetto agli uomini che subiscono la stessa sorte dopo il terzo caso. Così, e ancora, nel 2016, dieci donne sono state uccise in Iran, tre in Arabia Saudita, una in Somalia, una in Giappone, una in Egitto e una in Indonesia.
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Dalla campagna di diffamazione contro le organizzazioni non governative ai luoghi (troppo) comuni sugli immigrati, è un rincorrersi di informazioni infondate che distorcono la realtà dei fatti. Affermazioni come quella del direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, secondo il quale “i salvataggi dei migranti da parte delle ONG incoraggiano i trafficanti di esseri umani”, alimentano percezioni che confondono interessi criminali a scopo di lucro con operazioni svolte per salvare vite in mare.
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Che i luoghi formativi incidano sullo sviluppo dei bambini è cosa nota. Meno risaputo è che sono determinanti sulla possibilità di sottrarli (insieme alle loro famiglie) da una potenziale condizione di povertà. Potrebbe apparire bizzarro ma per sconfiggerne l’ineluttabilità non è necessario avere i requisiti per aprire un conto bancario quanto, piuttosto, fare i conti con l’accessibilità o meno ai servizi socio-educativi.
Essere ricchi di scuole con palestre, di asili nido, di biblioteche e di istituti scolastici ben funzionanti e raggiungibili agevolmente salva da un destino (intergenerazionale) di indigenza. Ma l’Italia, a otto anni dalla data stabilita per il raggiungimento dell’obiettivo fissato a Barcellona che indicava almeno al 33 per cento la copertura dei servizi di prima infanzia entro il 2010, è ancora lontana dalla ricchezza, sfiorando la media nazionale del 23 per cento, avendo trecentosettantacinquemila posti disponibili su un milione e mezzo di bambini fino a due anni, distribuiti su tredicimila strutture.
E’ ancora più drammatico se disgrega il dato a livello locale, secondo quanto riporta il dossier Povertà educativa, redatto da Con i bambini, per le profonde differenze territoriali economiche e sociali tra le diverse aree del Paese: solo quattro regioni raggiungono la percentuale auspicata mentre tutte quelle del Mezzogiorno, eccezion fatta per la Sardegna, si collocano al di sotto della media.
Nei comuni montani, la percentuale di posti sul totale dei residenti è la più bassa d’Italia - Foggia, Caltanissetta, Siracusa e Reggio Calabria le province più svantaggiate - con alcuni virtuosismi nelle province di Prato, di Trieste, di Ravenna, di Aosta, di Siena e di Biella.
Nei comuni capoluogo, gli indici di copertura sono, manco a dirlo, più alti che altrove, soprattutto in quelli del centronord, con l’eccezione di Cagliari e Roma che hanno indici spesso superiori a quelli delle città centro-settentrionali, e sono bassi nei comuni a basso reddito.
Quanto alla presenza di biblioteche, la Valle d’Aosta e il Molise registrano il rapporto maggiore tra presenza di queste strutture e numero dei bambini sopra i sei anni: tra le regioni sopra i tre milioni di abitanti, il Piemonte è la prima, la Puglia l’ultima.
Su quasi sette milioni di studenti, sono poco più di cinque milioni quelli che hanno a disposizione una palestra nelle scuole, le quali nel 73 per cento dei casi sono ubicate in zone con qualche rischio sismico e in Basilicata, in Molise, in Umbria, in Abruzzo e nelle Marche si trovano tutte in zone a rischio sismico elevato.
Le scuole calabresi e campane, insieme a quelle siciliane, sono le meno raggiungibili d’Italia con i mezzi pubblici, compresi gli scuolabus. Poveri bambini.
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Il diritto d’asilo fa i conti, ancora nel 2017, con l’ossimoro di un’accoglienza respingente di quel sistema italiano (ed europeo) in cui le scelte politiche, impostate per governare il fenomeno migratorio attraverso un approccio securitario più che per tutelare i richiedenti, sono sovente adottate in palese violazione dei diritti umani. Rimane, ancora nel 2017, l’effetto del grosso gap tra le dichiarazioni di rispetto dei diritti umani e delle varie convenzioni internazionali e i risultati pratici a cui stanno conducendo le politiche messe in atto.
A condizionare la vita dei richiedenti protezione internazionale, da oltre vent’anni, è il sistema Dublino, disciplinando la procedura di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo, che, però, pregiudica il buon funzionamento del Sistema comune europeo sull’asilo (CEAS), utile, invece, a stimolare una più equa ripartizione degli oneri degli Stati di frontiera esterna all’Unione.
Il loro diritto d’asilo è, anche, violato dalle limitate garanzie che offrono gli strumenti informali di cooperazione in materia di riammissione: a fianco degli accordi di riammissione tradizionali – veri e propri trattati internazionali – sono andati diffondendosi, sia a livello bilaterale tra Stati sia europeo, memorandum d’intesa, scambi di lettere, protocolli operativi, accordi verbali e dichiarazioni congiunte che hanno contratto, perniciosamente, i diritti fondamentali dei migranti in ragione delle loro caratteristiche di segretezza, incerta natura giuridica, mancato scrutinio parlamentare e possibilità di sottrarsi alla competenza delle autorità giudiziarie.
Alle quali, invece, sono obbligati a sottoporsi (creativamente) i rifugiati in Italia, parti di un procedimento formale trasformati in protagonisti del ‘processo Minniti’, teso ad accelerare, sintetizzare, ridurre, tacitare chi invoca protezione. Di fatto, per loro ottenere un visto per arrivare in sicurezza diventa pressoché impossibile e i numeri di chi riesce a giungere attraverso politiche di apertura (di canali umanitari) sono ancora troppo bassi. Alla fine dello scorso anno, secondo quanto riportato nel dossier Diritto d’asilo.
Accogliere, proteggere, promuovere, integrare, redatto da Fondazione Migrantes, circa centotrentamila persone avevano chiesto asilo nel Belpaese, con un aumento del 6 per cento rispetto alle circa centoventiduemila del 2016. Esaminate oltre ottantamila richieste, è stata accordata protezione, in prima istanza, a poco più del 40 per cento e, dunque, una larga maggioranza si è vista respingere la domanda. Alla resa dei conti, nel 2017 in Italia, i richiedenti asilo e i rifugiati accolti sono un misero tre per mille dei residenti.
Sarà l’esito della nuova legge, approvata ad aprile, con lo scopo di accelerare le procedure d’asilo e per contrastare la migrazione irregolare, ma l’effetto collaterale della normativa – che, tra l’altro, ha omesso di specificare in modo adeguato la natura e la funzione degli hotspot - è stata la riduzione delle tutele procedurali nei ricorsi in appello contro il respingimento delle richieste. In questo modo, il sistema d’asilo perde di certezza ed effettività perché l’applicazione reale delle norme rischia di avvenire in modo del tutto discrezionale e discontinuo a seconda della pressione migratoria o di altre valutazioni di opportunità politica.
Invece, si legge nell’introduzione del dossier Diritto d’asilo, “occorrono uomini e donne che non aumentino, con il loro contributo, la riserva già enorme di ingiustizie nel mondo, ma che si oppongano con la magnanimità all’ingiustizia, rifiutandosi di entrare nel suo gioco…”.
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Dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda e, ancor più, dopo gli anni ottanta, l’opinione pubblica si è messa il cuore in pace: gli armamenti non sono più necessari e il mondo è entrato in un processo di riduzione degli arsenali militari.
Effetto dell’assenza della questione nel dibattito pubblico, la percezione dell’opinione (altrettanto) pubblica risulta distorta, non solo relativamente alla gravità del fenomeno e delle sue conseguenze ma, pure, sulla sua diffusione.