Il diritto d’asilo fa i conti, ancora nel 2017, con l’ossimoro di un’accoglienza respingente di quel sistema italiano (ed europeo) in cui le scelte politiche, impostate per governare il fenomeno migratorio attraverso un approccio securitario più che per tutelare i richiedenti, sono sovente adottate in palese violazione dei diritti umani. Rimane, ancora nel 2017, l’effetto del grosso gap tra le dichiarazioni di rispetto dei diritti umani e delle varie convenzioni internazionali e i risultati pratici a cui stanno conducendo le politiche messe in atto.

 

A condizionare la vita dei richiedenti protezione internazionale, da oltre vent’anni, è il sistema Dublino, disciplinando la procedura di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo, che, però, pregiudica il buon funzionamento del Sistema comune europeo sull’asilo (CEAS), utile, invece, a stimolare una più equa ripartizione degli oneri degli Stati di frontiera esterna all’Unione.

 

Il loro diritto d’asilo è, anche, violato dalle limitate garanzie che offrono gli strumenti informali di cooperazione in materia di riammissione: a fianco degli accordi di riammissione tradizionali – veri e propri trattati internazionali – sono andati diffondendosi, sia a livello bilaterale tra Stati sia europeo, memorandum d’intesa, scambi di lettere, protocolli operativi, accordi verbali e dichiarazioni congiunte che hanno contratto, perniciosamente, i diritti fondamentali dei migranti in ragione delle loro caratteristiche di segretezza, incerta natura giuridica, mancato scrutinio parlamentare e possibilità di sottrarsi alla competenza delle autorità giudiziarie.

 

Alle quali, invece, sono obbligati a sottoporsi (creativamente) i rifugiati in Italia, parti di un procedimento formale trasformati in protagonisti del ‘processo Minniti’, teso ad accelerare, sintetizzare, ridurre, tacitare chi invoca protezione. Di fatto, per loro ottenere un visto per arrivare in sicurezza diventa pressoché impossibile e i numeri di chi riesce a giungere attraverso politiche di apertura (di canali umanitari) sono ancora troppo bassi. Alla fine dello scorso anno, secondo quanto riportato nel dossier Diritto d’asilo.

 

Accogliere, proteggere, promuovere, integrare, redatto da Fondazione Migrantes, circa centotrentamila persone avevano chiesto asilo nel Belpaese, con un aumento del 6 per cento rispetto alle circa centoventiduemila del 2016. Esaminate oltre ottantamila richieste, è stata accordata protezione, in prima istanza, a poco più del 40 per cento e, dunque, una larga maggioranza si è vista respingere la domanda. Alla resa dei conti, nel 2017 in Italia, i richiedenti asilo e i rifugiati accolti sono un misero tre per mille dei residenti.

 

Sarà l’esito della nuova legge, approvata ad aprile, con lo scopo di accelerare le procedure d’asilo e per contrastare la migrazione irregolare, ma l’effetto collaterale della normativa – che, tra l’altro, ha omesso di specificare in modo adeguato la natura e la funzione degli hotspot - è stata la riduzione delle tutele procedurali nei ricorsi in appello contro il respingimento delle richieste. In questo modo, il sistema d’asilo perde di certezza ed effettività perché l’applicazione reale delle norme rischia di avvenire in modo del tutto discrezionale e discontinuo a seconda della pressione migratoria o di altre valutazioni di opportunità politica.

 

Invece, si legge nell’introduzione del dossier Diritto d’asilo, “occorrono uomini e donne che non aumentino, con il loro contributo, la riserva già enorme di ingiustizie nel mondo, ma che si oppongano con la magnanimità all’ingiustizia, rifiutandosi di entrare nel suo gioco…”.

Dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda e, ancor più, dopo gli anni ottanta, l’opinione pubblica si è messa il cuore in pace: gli armamenti non sono più necessari e il mondo è entrato in un processo di riduzione degli arsenali militari.

 

Effetto dell’assenza della questione nel dibattito pubblico, la percezione dell’opinione (altrettanto) pubblica risulta distorta, non solo relativamente alla gravità del fenomeno e delle sue conseguenze ma, pure, sulla sua diffusione.

La scomparsa di persone è, più di ogni altra cosa, un fenomeno umano e trasversale a tutti i livelli della società. In Italia, ogni anno, tra stranieri e italiani, ne spariscono circa un migliaio. Nonostante la maggior parte venga ritrovata dopo pochi giorni, il fenomeno genera allarme.

 

Prima che una questione statistica e burocratica, è un problema connotato da una sostanziosa dimensione umanitaria. La quale si è fatta così evidente in seguito ai due naufragi – quello del 2013 a largo di Lampedusa e quello del 2015 nel Canale di Sicilia – che hanno rappresentato un vero e proprio spartiacque nell’approccio alla problematica.

Sebbene in sensibile diminuzione - vuoi per i mutamenti del quadro legislativo, vuoi per il diverso ruolo dei media nonché per l’emergere di una nuova coscienza femminile - le donne che hanno subìto molestie o ricatti sessuali sul luogo di lavoro sono ancora troppe. Un milione e quattrocentomila.

 

Tentativi da parte di colleghi o superiori sul posto di lavoro di toccare, accarezzare o baciarle contro la loro volontà hanno coinvolto il 9 per cento circa delle lavoratrici, soprattutto che abitano in città delle aree metropolitane, principalmente del Centro Italia, dove Toscana e Lazio registrano percentuali al di sopra della media italiana, e nel Nord Est, con in testa l’Emilia Romagna.

Sono almeno diecimila le persone escluse dall’accoglienza istituzionale, tra richiedenti e titolari di protezione internazionale e umanitaria, costretti a vivere in condizioni di estrema vulnerabilità. Alle frontiere, negli spazi aperti, negli edifici occupati nelle città, nei ghetti delle aree rurali, sono relegati a una marginalità che li esclude dall’accesso ai beni essenziali e all’assistenza sanitaria.


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