Ormai da settimane la stampa italiana dei cosiddetti giornaloni ci bombarda con notizie relative a un presunto piano d’attacco russo in Ucraina. Il fatto che una tale eventualità sia stata nettamente smentita, da ultimo dallo stesso ministro ucraino della difesa, Oleksii Reznikov, il quale ha dichiarato testualmente che “non esiste al momento alcuna minaccia reale di attacco russo”, non porterà necessariamente a un’attenuazione di tale vergognosa campagna di stampa.

Varie sono infatti le forze che hanno interesse a mantenere e, possibilmente aumentare, la situazione di tensione internazionale esistente al riguardo. In Italia abbiamo più che altro a che fare con alcune propaggini teleguidate dai centri guerrafondai, come per l’appunto la grande stampa, con in prima fila “Stampubblica” e il direttore di Repubblica Molinari, la cui nomina è stata ispirata in primo luogo a garantire la compattezza filoatlantica del nuovo supergiornalone nato dalla fusione tra Stampa e Repubblica.

Una nuova rivelazione sui fatti precedenti l’assalto al Congresso di Washington del 6 gennaio 2021 ha mostrato come l’amministrazione uscente di Donald Trump fosse sul punto di impiegare l’esercito per bloccare il conteggio dei voti e, verosimilmente, instaurare una sorta di dittatura presidenziale. Il sito di informazione Politico.com ha pubblicato qualche giorno fa la bozza di un decreto esecutivo che, se attuato, avrebbe portato al sequestro di tutte le schede relative alle presidenziali del 3 novembre 2020 e a una dichiarazione di emergenza per sospendere di fatto i diritti democratici negli Stati Uniti.

Managua. Conclusesi le celebrazioni per l’insediamento del nuovo quinquennio di governo guidato dal suo Comandante, Daniel Ortega, l’iniziativa politica sandinista si misura sulla scena interna ed internazionale. Il tutto in uno scenario in parte inedito ma certamente più favorevole di quello nel quale si era votato il 7 Novembre scorso.

Il Paese vive un clima di straordinaria tranquillità e l’economia viaggia a gonfie vele. Il 2021 ha segnato la definitiva uscita dalla crisi economica generata dal tentato golpe del 2018, che era costata 1800 milioni di dollari di danni. L’anno appena passato ha infatti registrato un + 9% del PIL e il record dell’export.

Sul piano politico interno il Frente ha ormai completamente in mano l’iniziativa e l’opposizione golpista è ripiegata su se stessa, letteralmente stordita dalla vittoria elettorale sandinista del Novembre scorso. A seguito di questa, l’ultra destra aveva puntato su una crescente rottura tra Managua e gli organismi internazionali agli ordini degli Stati Uniti, cosa che, nei piani golpisti, avrebbe determinato una ondata di timori interni circa il futuro dell’economia. Il piano prevedeva che, debitamente alimentati dai media affini, questi timori avrebbero generato malcontento e tensioni e offrire terreno favorevole per dimostrare a Washington che l’estrema destra può ancora recitare un ruolo e che il sandinismo può andare in difficoltà. In assenza di ciò, l’oligarchia e i suoi funzionari non riceverebbero più i compensi che gli consentono di giocare a fare i dissidenti tra un cocktail e un altro.

Con il clamoroso attacco subito lunedì ad Abu Dhabi, gli Emirati Arabi Uniti (EAU) hanno improvvisamente scoperto che l’aggressione contro lo Yemen, condotta dal 2015 assieme all’Arabia Saudita, comporta un prezzo sempre più salato da pagare. L’incursione portata a termine per la prima volta con successo sul territorio emiratino dal governo di resistenza yemenita, guidato dal movimento sciita Ansarullah (“Houthis”), ha colpito una parte dell’aeroporto della capitale e un’installazione petrolifera nelle vicinanze, facendo tre vittime e alcuni feriti. Per il regime degli Emirati si tratta di un brusco avvertimento che mette fine alla tranquillità di cui aveva finora goduto, nonostante il coinvolgimento nel massacro in Yemen, e apre una serie di interrogativi sull’opportunità di continuare a perseguire gli obiettivi strategici collegati alle vicende nel più povero dei paesi arabi.

L’ultima parte dei negoziati in programma questa settimana, con al centro il deteriorarsi delle relazioni tra la Russia e l’Occidente, si è conclusa nuovamente e come previsto in un sostanziale nulla di fatto. I rappresentanti del governo di Mosca e della NATO non hanno infatti raggiunto nessuna intesa, così come in precedenza gli emissari dell’amministrazione Biden avevano respinto le richieste del Cremlino in materia di “sicurezza”. Le parti coinvolte si sono quanto meno accordate sulla necessità di continuare a trattare, ma la rigidità delle posizioni di Washington fa apparire i colloqui più come un tentativo di mettere all’angolo la Russia e provocare una reazione che verrebbe sfruttata per rilanciare gli obiettivi strategici americani, primo fra tutti la creazione di una spaccatura definitiva tra l’Europa e il suo potente vicino orientale.


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