A oltre tre mesi dall’inizio della guerra in Ucraina, appare con sempre maggiore evidenza la totale confusione mentale esistente in campo occidentale. Siamo spinti, nostro malgrado, a rimpiangere la lucidità di strateghi come Kissinger i quali, pur macchiandosi di crimini contro l’umanità in America Latina (basti ricordare l’Operazione Condor e il golpe in Cile) ed altrove, avevano ben altra capacità di percepire gli interessi effettivi e di operare scelte adeguate.

Nonostante i lodevoli tentativi del New York Times e di altri di ricondurre il dibattito alla realtà, i penosi leader dell’Occidente appaiono in preda a una sorta di hybris. Ne è prova inconfutabile il loro continuo inneggiare a una vittoria totale dell’Ucraina che è totalmente irraggiungibile.

Nei corridoi del potere a Bruxelles, un leader europeo ha definito “enorme” l’impatto dell’accordo UE sul (quasi) embargo delle importazioni di petrolio dalla Russia. In effetti, il provvedimento centrale del sesto pacchetto di sanzioni partorito dall’inizio delle operazioni militari di Mosca in Ucraina sembra essere apparentemente di un altro livello rispetto ai precedenti, ma, come questi ultimi, il peso delle conseguenze – siano esse “enormi” o anche un po’ meno gravose – non toccherà tanto al destinatario delle misure punitive (la Russia) ma in grandissima parte a coloro che le hanno imposte (l’Europa).

Da un lato c'è il “Vertice delle Americhe”, un incontro di routine e protocollare interpretato dagli Stati Uniti come fosse una festa accessibile solo agli amici e su invito: fallita ancor prima di cominciare. Pare anche abbia scatenato uno scontro inteno tra Casa Bianca, Dipartimento di Stato e Partito Democratico. Dall'altro lato, un vertice “Alba-TCP”: incontro politico dall’esito positivo che ha confermato la crescente cooperazione e integrazione del blocco democratico latinoamericano. Due eventi paradigmatici in sé, poiché esprimono due sistemi di valori, ideali e programmi opposti.

Ipotesi inconciliabili sulle relazioni possibili tra i diversi Paesi che abitano il continente. Tra le pretese del Nord e le rivendicazioni del Sud. Tra annessionismo e indipendenza. Inconciliabile è il concetto di sovranità nel rapporto con il gigante USA che, invece, segue la Dottrina Monroe. Una miscela di razzismo e di violenza, una veste sotto la quale si nasconde il saccheggio dei molti per la ricchezza di uno. Un anacronismo privo di senso, ragione e possibilità di accettazione.

A volte si è tentati di banalizzare la vacuità e l’incoerenza dei propositi dell’alleanza occidentale riconducendoli esclusivamente a fattori di ordine personale, quali la tarda età e scarsa lucidità di Biden, o l’evidente subalternità dei leader europei, riconducibile a sua volta a scarsissimo spessore intellettuale e a servilismo politico nei confronti degli Stati Uniti.

Indubbiamente si tratta di fattori che  hanno un loro peso, ma occorre spingere il nostro sguardo al di là di tali miserie umane, per cogliere quella che possiamo definire l’inadeguatezza strategica della NATO nell’attuale fase della politica internazionale.

Il tour del Pacifico iniziato qualche giorno fa dal ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha assunto una valenza simbolica tutta particolare alla luce sia della questione caldissima delle isole Salomone sia del recentissimo vertice del “Quad” (USA, Giappone, Australia, India) a Tokyo alla presenza del presidente americano Biden. Il capo della diplomazia di Pechino intende consolidare la crescente espansione dell’influenza cinese – in ambito economico e non solo – in un’area considerata come una sorta di “cortile di casa” degli Stati Uniti e dei loro alleati in Oceania. Per quante preoccupazioni le iniziative cinesi stiano provocando a Washington e a Canberra, proprio la disponibilità dei paesi del Pacifico nei confronti della seconda potenza economica del pianeta testimonia ancora una volta del cambiamento inesorabile in atto degli equilibri globali usciti dal secondo conflitto mondiale.


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